< Avventure di Robinson Crusoe
Questo testo è stato riletto e controllato.
Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Banchetto e consiglio di Stato
49 51

Banchetto e consiglio di Stato.



L
a mia isola adesso era popolata, ed io mi reputava ricco di sudditi, onde una delle comiche idee che sovente mi passò per la testa, si fa quella di paragonarmi ad un re. Prima di tutto l’intera isola mi apparteneva in assoluta proprietà, ed avea un indubitato diritto di dominio sovr’essa. In secondo luogo il mio popolo mi era pienamente subordinato; io ne era assoluto signore e legislatore. Ciascun suddito m’andava debitore della libertà, e ciascuno avrebbe di buon grado sagrificata per me, se fosse stato d’uopo, la sua propria vita. Era in oltre una cosa degna di esser notata, che fra tre sudditi su cui si estendeva il mio impero, ciascuno professava una religione diversa: il mio servo Venerdì era protestante, suo padre pagano e in oltre cannibale, lo Spagnuolo un papista; io per altro concedeva piena libertà di coscienza in tutto il mio regno. Ma sia detto ciò di passaggio.

Appena ebbi provveduti di ricovero e di letto i prigionieri da me liberati, cominciai a pensare al loro mangiare; onde la prima mia cura fu quella di ordinare a Venerdì che, preso dal mio ovile un capretto d’un anno, nè del tutto da latte nè affatto caprone, lo macellasse. Intantochè io ne tagliava i quarti di dietro facendoli in minori pezzi, comandai a Venerdì di apparecchiarne il nostro lesso ed arrosto, il che mi fornì, ve ne do parola io, un eccellente banchetto; e poichè tutta questa cucina era stata fatta fuori di casa, chè sotto al coperchio interno del mio tetto non accendeva mai fuoco, portai tale imbandigione sotto la nuova tenda, ove avendo preparata una tavola per gli ospiti, mi assisi ad essa ancor io, e pranzando in loro compagnia cercai di fare alla meglio i convenevoli della mensa e di tenerli lieti. Venerdì era il mio interprete, massime con suo padre; ma da vero ce n’era bisogno anche con lo Spagnuolo che s’era avvezzato a parlare perfettamente la lingua de’ selvaggi.

Poichè avemmo pranzato, o piuttosto cenato, ordinai a Venerdì di andare sopra una delle nostre barche a raccogliere i moschetti e l’altre armi da fuoco che avevamo lasciate sul campo di battaglia.

Poi nella seguente mattina lo mandai a seppellire i cadaveri de’ selvaggi che, esposti tuttavia al sole, avrebbero infettata l’aria. Così pure gl’ingiunsi di sotterrare gli orridi avanzi del barbaro loro banchetto, cosa che non avrei avuto stomaco di far io, e da vero se fossi andato colà mi sarebbe mancato il coraggio sin di guardarli. Ma Venerdì eseguì sì puntualmente i miei comandi, che quando tornai colà, non avrei quasi ravvisato più il sito, se non me lo avesse indicato quella punta di bosco donde si cominciò a far fuoco.

Allora cominciai ad entrare in qualche conferenza co’ due miei nuovi sudditi: e per prima cosa, col mezzo del mio dragomanno Venerdì, chiesi al padre di lui che cosa pensasse su la fuga de’ quattro selvaggi, e se vi fosse a temere che tornassero con una forza troppo grossa da non potersi resister loro. La sua opinione principale era che i selvaggi del canotto non avessero potuto cavarsela netta dal turbine, tanto più ch’esso continuò ad imperversare l’intera notte; che doveano per conseguenza essere tutti annegati; e, se mai la burrasca gli avesse spinti a qualche lontana spiaggia meridionale, pensava che l’annegamento naufragando, o l’esser mangiati approdando non poteva loro mancare. Che cosa poi avrebbero fatto se per un prodigio fossero arrivati sani al nativo loro paese, il padre di Venerdì non lo sapea troppo. Ciò non ostante gli pareva dovessero essere, pel modo onde furono assaliti e pel fragore dell’armi da fuoco, si tremendamente spaventati, che avrebbero probabilmente raccontato ai loro di casa di essere stati ridotti a sì mal partito dal tuono e dal fulmine, non dalla mano dell’uomo. Avranno raccontato, così egli continuava a ragionare, che i due uomini comparsi loro (io e Venerdì) erano spiriti celesti o diavoli venuti in terra per distruggerli, non uomini armati. Lui aver udito (così l’interprete Venerdì mi spiegava i detti del padre) quando dirsi l’uno all’altro in lor linguaggio: Impossibile ad uomo vomitar fuoco, parlar tuono, ammazzare in lontananza, senza mano alzare.

E quel selvaggio sapea quel che diceva, perchè come mi fu noto da poi, i selvaggi di quella nazione non s’arrischiarono più mai a metter piè in questi luoghi. I fuggiaschi del canotto veramente giunsero a casa tutti quattro, ma raccontarono ai loro compatriotti che chiunque approdasse a quest’isola incantata potea far conto d’essere sterminato dal fuoco del cielo. Questa particolarità io non la sapeva allora; onde vissi in grandi paure per un bel pezzo, e mi tenni sempre all’erta con tutto il mio esercito. È vero che eravamo soli quattro, ma contro ad un centinaio di coloro avrei avuto il coraggio di cimentarmi in campo aperto a tutte l’ore.

Non andò guari per altro che, non vedendosi più comparire canotti, i miei timori si dissiparono. Ripigliai allora i miei primi divisamenti d’un viaggio al continente, tanto più che il padre di Venerdì mi assicurava che, se mi risolveva, poteva ripromettermi dai suoi buoni ufizi e relazioni un buono accoglimento presso i suoi. Ma portarono in me certa perplessità alcuni seri discorsi fattimi dallo Spagnuolo, il quale mi raccontò essere ben vero che sedici tra’ suoi concittadini e Portoghesi riparatisi dopo un naufragio a quella costa vivevano in pace co’ nativi, ma che d’altra parte la faceano magra assai per mancanza delle cose di prima necessità; in somma che vivevano quasi per miracolo.

Interrogato da me su i particolari del suo viaggio, mi raccontò come avesse fatto parte de’ naviganti d’un vascello spagnuolo che veniva dal Rio la Plata per condursi all’Avana a lasciare ivi il loro carico, consistente principalmente in pellami o argento, e riportarne quelle merci pregiate in Europa in cui si sarebbero abbattuti; come avessero preso a bordo cinque marinai portoghesi salvatisi da un altro naufragio; come cinque de’ loro fossero rimasi annegati quando il loro vascello perì; come campati in mezzo ad infiniti pericoli e traversie fossero arrivati quasi morti di fame ad una costa di cannibali, ove si aspettavano a ciascun istante di essere divorati. Mi raccontò che avevano seco alcune armi, ma di nessun uso, perchè mancavano di palle e di polvere che l’acqua del mare avea fatta andar a male tutta, eccetto una piccolissima partita, di cui si giovarono ne’ primi giorni del loro sbarco per procacciarsi da vivere.

Interrogato da me come credea che sarebbe andata a finire per que’ suoi compagni di naufragio, e se non aveano mai pensato fra loro verun disegno di fuga, mi rispose che avevano avuti su di ciò molti consigli; ma che, privi d’un vascello, di stromenti per fabbricarselo e di provvigiona d’ogni sorta, i loro consigli terminavano sempre in pianti e disperazioni.

Gli chiesi allora come gli parea che verrebbe accolta una mia proposta intesa alla comune liberazione, la quale, secondo me, sarebbesi ottenuta meglio se fossero stati tutti su questa spiaggia. Ma ad un tempo gli esposi con franchezza la mia paura che si portassero male con me, e mi tradissero se mi fossi posto troppo alla cieca nelle loro mani; perchè la gratitudine non è virtù molto domestica alla natura dell’uomo, che non sempre misura tanto le proprie azioni su i benefizi avuti quanto su quelli che aspetta ancora. Non gli tacqui che sarebbe stata cosa ben dolorosa per me, se dopo essermi fatto stromento di loro salvezza, mi avessero reso lor prigioniero e condotto nella Nuova Spagna, ove un Inglese, o caso o necessità vel portasse, era sicuro di essere sacrificato. Da vero avrei preferito l’essere consegnato ai selvaggi e divorato vivo da questi al cadere nelle spietate unghie dei famigli dell’Inquisizione e di quel barbaro tribunale. Del resto poi anche lasciando da parte questo timore, io era persuaso che se gli avessi avuti tutti nella mia isola, con l’aiuto di tante braccia non mi sarebbe stato difficile il costruire un naviglio ampio abbastanza per passarci quanti eravamo o alle rive meridionali del Brasile o alle isole e coste settentrionali della Nuova Spagna.

— «Ma, replicai, non vorrei che, quando avessi posto l’armi nelle loro mani, il mio guiderdone fosse condurmi per forza fra i miei nemici, esserne maltrattato e vedermi ad un più tristo caso di prima.

— La loro condizione è sì miserabile, e la sentono tanto, mi rispos’egli col massimo candore e con tutta ingenuità, che inorridirebbero, credo io, all’idea di pagar d’ingratitudine un uomo adoperatosi per la loro salvezza. Se lo approvate, andrò a trovarli in compagnia del vecchio selvaggio; spiegherò ad essi le cose, poi tornerò qui con la loro risposta; ma sol dopo avermi fatto dare solenne parola che si metteranno sotto i vostri comandi, riconoscendovi per loro capitano; e voglio giurino sul santissimo sacramento e su i santi Vangeli di esservi fedeli e di venire con voi in quel paese cristiano ove vorrete andare, non in verun altro, e di lasciarsi regolare affatto dalla vostra volontà sinchè sieno sbarcati sani e salvi a quella terra che additerete; del patto che faranno con voi, mi renderò sicurtà io medesimo. Anzi sarò il primo a darvi giuramento che non mi staccherò mai dal vostro fianco per tutta la vita, semprechè voi non disponiate diversamente. Se mai avvenisse che i miei compagni vi mancassero di fede, difenderò i vostri diritti sinchè mi resterà nelle vene una stilla di sangue. Ma non nascerà un tal caso, perchè que’ compagni sono tutti gente ben nata ed onesta; oltrechè, ridotti dal primo all’ultimo, alla più spaventosa miseria, privi d’armi, pressochè ignudi, morti di fame e abbandonati alla discrezione ed alla carità di selvaggi, fuor d’ogni speranza di rivedere più mai la patria loro, potete bene star certo che, se fate tanto d’accingervi a salvarli, viveranno e moriranno per voi.»

Assicurato da queste promesse mi risolvetti d’intraprendere, se era possibile, la loro liberazione e di mandare lo Spagnuolo e il vecchio selvaggio a trattare con essi. Ma quando tutte le cose furono allestite per questa partenza, lo Spagnuolo mise in campo un’obbiezione in cui potetti ravvisare non solamente la sua previdenza, ma ammirarne tanto la lealtà, che dovetti veramente chiamarmi soddisfatto di lui. Laonde, secondo il consiglio avutone, m’indussi a differire almeno d’un mezzo anno l’esecuzione del disegno pensato a favore de’ suoi compagni. Ecco qual fu questo consiglio.

Durante un mese circa ch’egli era rimasto meco, gli aveva lasciato vedere in qual modo con l’aiuto del cielo mi fossi ingegnato di supplire ai bisogni della mia sussistenza. Sapea quindi in guisa da non dubitarne quanto riso avessi in granaio: provvigione che, quantunque più che sufficiente per me, ci voleva la più stretta economia perchè bastasse per la mia famiglia or cresciuta al numero di quattro. Tanto meno essa sarebbe bastata ai suoi compagni, chè al suo dire ne viveano tuttavia sedici, se fossero capitati tutti ad un tratto. Meno poi ce n’era da potere fornir di vettovaglia un vascello che avremmo fabbricato per veleggiare a quale si fosse delle colonie cristiane in America. Egli dunque mi disse parergli miglior consiglio s’io permetteva ch’egli e Venerdì e il padre di Venerdì lavorassero e coltivassero uno spazio maggiore, e vi seminassero quanta maggior copia di grano si fosse potuta risparmiare; poi si aspettasse la stagione di un altro ricolto; affinchè i nuovi ospiti non capitassero prima che ci fossimo ben provveduti a riceverli.

«Altrimenti, egli diceva, il bisogno potrebbe divenir per essi un fomite di mal umore, nè si starebbero dal pensare in proprio cuore che un tal modo di liberazione fosse stato per essi un torli da un

male per farli cadere in un altro. Sapete come i figli d’Israele, ancorchè contentissimi su le prime della loro fuga dall’Egitto, in appresso si ribellassero contro allo stesso Dio che gli avea liberati, quando mancarono di pane nel deserto.»

La sua antiveggenza era sì a tempo, il suo consiglio cotanto saggio, che non potei non abbracciarlo e non esser grato alla candidezza dell’animo di chi mi pose tali avvertenze dinanzi agli occhi. Ci demmo dunque tutti quattro a vangare indefessamente per quanto gli stromenti di legno, ond’eravamo forniti, ce lo permisero. In un mese circa di tempo avevamo già preparato e dissodato tanto terreno, quanto ci volea per seminarvi venti moggia d’orzo e sedici orci di riso: tutto quel grano in somma che potemmo risparmiar da semenza. E da vero ce ne rimase appena pel nostro vitto giornaliero in tutti i sei mesi che dovemmo aspettare il nuovo ricolto; dico sei mesi computando entro essi il tempo della semenza messa in disparte, perchè non è da immaginarsi che sotto questi climi ella rimanga in terra sì lungo tempo.

Adesso aveva società quanta potea bastarmi, ed eravamo in sufficiente numero per mandar via ogni paura di selvaggi, quando non ne fosse sbarcata una masnada ben grande; laonde giravamo in lungo ed in largo l’isola secondo le occorrenze che ci capitavano. Siccome poi l’idea del nostro prossimo viaggio stava nella mente di tutti, era impossibile che quella dei mezzi d’intraprenderlo sfuggisse un momento dalla mia. Laonde, contrassegnati parecchi alberi che mi sembrarono al caso mio, mandai Venerdì e suo padre ad abbatterli; pregai indi lo Spagnuolo che aveva messo a parte de’ miei divisamenti, a vegliare e dirigere il loro lavoro. Dopo aver mostrato ad essi, non senza incredibile disagio, come fossi riuscito a ridurre un grosso albero in semplici assi, dissi loro di fare lo stesso; nè andò guari che erano venuti a capo di farmene circa una dozzina di buona quercia, larghe quasi due piedi, lunghe trentacinque braccia e grosse fra i due ed i quattro pollici: vi lascio immaginare che tremenda fatica un tal lavoro costasse.

Nello stesso tempo m’adoperai più che potei ad aumentare il mio ovile di capre domestiche; al qual fine io mandava attorno un dì lo Spagnuolo e il padre di Venerdì, un altro andava io con Venerdì (perchè ci davamo la muta): diligenza che ci fruttò una ventina circa di capretti di più da allevare col restante della greggia; perchè non ammazzavamo mai col moschetto una capra che non procurassimo di salvare i suoi lattanti.

Soprattutto, giunta la stagione della mia vendemmia, feci mettere a seccare al sole sì prodigiosa quantità d’uva, che se fossimo stati ad Alicante ove si fa tanto spaccio di zibibbo, avremmo, cred’io, potuto empirne sessanta o ottanta barili. Queste uve che col nostro pane formavano la maggior parte del nostro cibo, erano, ve ne accerto io, un buon mangiare e salubre, perchè nutriscono quanto mai.

Venuto il tempo della mietitura, il nostro ricolto era in buono stato: non dirò il più abbondante ch’io m’abbia fatto nell’isola, ma bastante per corrispondere alle mie mire; perchè di ventidue moggia d’orzo che avevamo seminate, nè tirammo a casa e trebbiammo duecento venti circa; e lo stesso in proporzione si dica del riso: provvigione oltre al bisogno del nostro sostentamento quand’anche in quel punto avessi avuti i sedici Spagnuoli sopra la spiaggia; o bastantissima, se fossimo stati lesti per imbarcarci, a vettovagliare il nostro legno per condurci in qualunque parte del mondo, intendo dell’America. Poichè avemmo così posto a coperto il nostro ricolto, ci ponemmo a fabbricare molta copia d’arnesi di vimini: vale a dire canestri entro cui custodirlo. Per tal sorta di lavoro lo Spagnuolo

mostrava molta destrezza e vocazione, anzi spesse volte mi rimproverava per non avere tratto alcun pro da tale genere di manifattura per farne parapetti e ripari; ma io non ne vedeva il bisogno.

Trovatomi ora ricco di provvigioni per tutti gli ospiti che aspettava, permisi allo Spagnuolo di trasferirsi nel continente per vedere che cosa si potesse fermare co’ sedici che s’avea lasciati addietro. Ma gl’ingiunsi strettamente di non condurre con se veruna persona che si ritirasse dal prestar giuramento, alla presenza di lui e del vecchio selvaggio, di non recare ingiuria alla persona di cui cercavano l’isola: che sarebbe stato da vero un contraccambiare barbaramente chi avea viscere sì umane per mandarli a prendere a fine di salvarli. Dovevano di più giurare di sostenerne sempre le parti e difenderlo anzi contra ogni attentato d’insubordinazione per parte de’ colleghi; di assoggettarsi dovunque andassero ai suoi comandi. Spiegai in oltre la mia intenzione che tutto ciò fosse posto in iscritto e autenticato dalla loro firma. Come poi avrebbero potuto secondarmi in ciò, quando io non doveva ignorare che non avevano nè penne nè inchiostro, fu una obbiezione che in quel momento non venne in mente nè a me nè allo Spagnuolo. Muniti di queste istruzioni, sì egli e sì il vecchio padre di Venerdì salparono entro uno di quei canotti ove si può ben dire che erano venuti (o meglio condotti, perchè non si poteano movere) per essere divorati dai selvaggi. Diedi a ciascuno de’ due un moschetto provveduto della sua rotella1 e circa otto cariche di polvere e di palle, delle quali cose raccomandai a ciascun di loro far grande parsimonia, e non valersene se non in casi d’urgenza.

Ben cari mi riuscirono tutti questi apparecchi da me fatti per la mia liberazione, siccome i primi di tal fatto cui avessi dato opera da ventisette anni e giorni ch’io dimorava quivi. Diedi ai miei due viaggiatori tanta quantità di pane e d’uva secca che bastasse per loro tutto il tempo dell’andata e del ritorno, e sufficiente al rimanente della carovana che doveano condurre, per otto giorni all’incirca. Augurato loro un buon viaggio, li vidi partire, non senza aver preso accordo con essi sul segnale che avrebbero dovuto far isventolare al loro ritorno, affinchè io li riconoscessi ad una certa distanza prima che toccassero la spiaggia. Salparono con vento favorevole in tempo di plenilunio, secondo i miei computi, in ottobre; ma un esatto registro dei giorni, dopo averlo perduto, non ho potuto raccapezzarlo mai più. Dirò in oltre che nemmeno il conto degli anni lo area tenuto con tal precisione da poter essere certo che andasse bene, ma in appresso ebbi modo di verificarlo, e vidi che in quest’ultima parte non aveva sbagliato.

  1. Ai primi archibusi cui si dava fuoco con la miccia, succedettero quelli che si sparavano col far girare contro alla pietra una rotella applicata sul cartello o piastra dell’arma. Convien credere che tal seconda sorta d’archibusi fosse tuttavia in uso nel 1713, tempo in cui questa storia fu scritta, benchè pubblicata soltanto nel 1719.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.