< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Risposta venuta dal Brasile,
e risoluzione di tornare alla patria per terra
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Risposta venuta dal Brasile, e risoluzione di tornare alla patria per terra.



A
niun mandato di procura fu mai fatto più onore che al mio. In meno di sette mesi ricevei dagli eredi de’ miei fidecommissari, e dei trafficanti, per conto de’ quali aveva impresa quella sgraziatissima spedizione, un grosso plico che racchiudeva i seguenti documenti e lettere:

I. Un conto corrente della rendita del mio podere o piantagione dall’anno in cui i defunti miei fidecommissari vennero ad un bilancio col capitano portoghese: fu un decorso di sei anni. Ne apparivano mille cento settantaquattro moidori a mio credito.

II. Il conto d’altri quattro anni, tempo che i predetti fidecommissari percepirono la mia porzione di rendite, prima che il governo ne reclamasse l’amministrazione come di proprietà spettante a persona, che si trovava morta civilmente, secondo il modo loro di dire. In questo secondo bilancio per l’accresciutosi valore del fondo, risultò a mio favore una somma di diciannove mila quattrocento quarantasei crusados, circa tremila dugento quaranta moidori.

III. Una lettera del priore del convento di Sant’Agostino che avea ricolte quelle rendite per quattordici anni circa; ma non v’essendo da far conto su la parte già disposta per l’ospitale, lo stesso priore dichiarò con la massima onestà rimanergli tuttavia di non distribuito ottocento settantadue moidori, che egli riconosceva dovuti a me. Nella parte del re non mi fu rifuso nulla.

IV. Una lettera per ultimo del mio socio, il quale si congratulava che fossi tuttora vivo, e mi spediva il ragguaglio dei miglioramenti del podere e della presente sua rendita annuale; ragguaglio in cui mi descrisse minutamente lo scompartimento di ciascuna pertica quadrata o biolca e de’ piantamenti fatti in ognuno e del numero degli schiavi che vi stavano sopra. Avea poi fatte ventidue croci su la carta, quali indizi delle avemmarie recitate alla santissima Vergine in ringraziamento del prospero mio ritorno. Dopo avermi eccitato di tutto cuore a recarmi sul luogo e a riprendere in persona il possesso de’ miei beni, mi chiedeva in quali mani, s’io non fossi andato, io volea che fossero passate le mie rendite. Aggiunse mille cordiali offerte per parte sua e della sua famiglia, inviandomi in dono sette belle pelli di leopardo portategli, a quanto sembra, da qualche altro vascello ch’egli avea spedito nell’Africa e che fece più buon viaggio di quello ov’io m’imbarcai. Mi presentò inoltre di cinque casse di confetti e di cento piastre d’oro non coniate, un po’ men larghe per altro d’un moidoro.

Nello stesso bastimento che mi portò questi donativi, i miei fidecommissari m’inviarono duecento casse di zucchero, ottocento rotoli di tabacco e il residuo del mio avere in belle monete d’oro.

Potei ben dire allora che l’ultima parte della storia di Giobbe era stata migliore del suo principio. Egli è impossibile dare un’idea delle palpitazioni del mio cuore, allorchè mi vidi circondato da tanta ricchezza; perchè, siccome i bastimenti che procedono dal Brasile salpano di conserva, una stessa spedizione mi portava le lettere e le merci e l’oro: tutte cose che erano sul Tago prima che mi fossero ricapitate le lettere. In somma impallidii, mi sentiva come venir male, e se il vecchio capitano non facea presto ad andarmi a prendere un cordiale, credo che l’eccesso di quell’improvvisa gioia m’avrebbe soprappreso al segno di restar morto lì. Durai alcune ore in quello stato di convulsione; non vi dico altro: bisognò mandare a chiamare un medico che, conosciuto in parte il motivo della mia infermità, mi consigliò una levata di sangue; e credo da vero che senza quello sfogo dato ai miei spiriti sarebbe stata finita per me.

Io mi trovava tutto ad un tratto padrone di circa cinque mila sterlini e d’una signoria, che ben poteva chiamarla così, nel Brasile che rendea circa mille sterlini l’anno, assicurata quanto possa essere qualunque dominio di terreni nell’Inghilterra: in una parola era in una condizione che sapeva appena capire, e che mi mettea sin nell’impaccio sul modo di profittarne.

Il più premuroso pensiere per me si fu quello di ricompensare il mio antico benefattore, il mio buon vecchio capitano, primo ad usarmi carità nelle mie angustie, cortese con me nel principio, onesto sino alla fine. Fattegli vedere tutte le ricchezze che mi erano state spedite, gli dissi come, dopo la Providenza del cielo che dispone di tutte le cose, fosse egli solo al quale io andava debitore di tutto ciò; dipendere ora affatto da me il compensarlo, e che avrei adempiuto centuplicatamente quest’obbligo. Primieramente adunque gli restituii i cento moidori sborsatimi poco dianzi come sapete; mandato indi a chiamare un notaio, gli feci stendere un atto solenne che scioglieva nel più ampio e valido modo il mio amico del debito da lui confessato di quattrocento settanta moidori. In appresso, comandai allo stesso notaio di stendere un atto di procura, in forza del quale il capitano fosse autorizzato a riscuotere ogni anno per me la mia parte di rendite della piantagione, con ordine al mio socio di fare ogn’anno i conti con lui e di spedirgli ogn’anno le somme risultanti di mia ragione giovandosi del solito tragitto de’ bastimenti del Brasile a Lisbona; finalmente, come clausola dell’atto stesso, gli assicurai su que’ fondi cento moidori annuali sua vita naturale durante, e, morto lui, cinquanta a suo figlio finchè fosse vissuto. Ecco in qual guisa cercai rimeritarlo.

Mi diedi ora a meditare sul modo di vivere che avrei scelto per l’avvenire, e sul modo d’impiegare i capitali che la Providenza m’aveva posti fra le mani. E da vero mi giravano pel capo più moleste cure che non me ne dava il mio muto soggiorno nell’isola, ove non aveva bisogni maggiori delle cose nè più cose dei bisogni che aveva. Qui mi pesava addosso la mia stessa ricchezza e, quel che era peggio, non sapeva ove metterla al sicuro. Qui non aveva una grotta o cantina ove collocarla senza bisogno di chiavi o di chiavistelli, e lasciarla a giacere ed irrugginire prima che destasse la gola di chicchessia. Certamente il mio buon capitano era onesto e il rifugio unico ch’io m’avessi: ma mi faceano paura i suoi anni.

Pareva inoltre che i miei interessi mi chiamassero al Brasile. Ma come pensare ad imprendere questo viaggio d’oltremare prima di avere assestati i miei affari nel continente, e senza lasciare in sicure mani il mio danaro. Mi venne anche in mente la vedova di quel vecchio mio amico di Londra ch’io aveva sperimentata onesta, e che anche in tale occasione lo sarebbe stata con me, ma attempata anch’essa, inoltre povera, e da quanto sapeva angustiata piuttosto dai debiti. In somma, non vedeva miglior espediente del prendere la via d’Inghilterra col mio danaro meco.

Lasciai nondimeno trascorrere alcuni mesi prima d’appigliarmi ad un partito. Intanto, poichè aveva già provata pienamente la mia gratitudine al mio vecchio capitano che si mostrò soddisfattissimo di me, cominciai a pensare alla mia povera vedova il cui marito, prima del capitano portoghese, fu anch’egli mio benefattore, e fu ella stessa, fin che il potè, mia eccellente maggiordoma ed amministratrice. Cercai dunque un banchiere di Lisbona affinchè incaricasse il suo corrispondente di Londra non solamente di farle tenere un centinaio di sterlini a mio nome, ma procurar di trovarla e parlarle per consolarla nella sua povertà e renderla certa che avrei fatto di più per lei se fossi vissuto.

Nello stesso tempo mandai alle mie sorelle, che vivevano fuori di Londra, cento sterlini per ciascuna: non può dirsi che fossero in uno stato d’indigenza, ma nemmeno in bellissime condizioni, una di loro essendo rimasta vedova, l’altra avendo un marito che non si comportava con lei come sarebbe stato suo obbligo.

Pur, malgrado tutte queste mie relazioni e conoscenze, io non potea trovar persona cui affidare i miei capitali, se avessi voluto andare al Brasile e lasciarli col cuore quieto a Lisbona. Ciò mi teneva in una grande perplessità.

Mi nacque una volta l’idea di condurmi al Brasile, ove, come raccontai, aveva già ottenute lettere di naturalità, e di vedere se mi fosse convenuto stabilirmi colà; ma alcuni scrupoli di coscienza fondati su la diversità del culto mi distolsero per insensibili gradi dal farlo. È vero che allora non fu questo il principale ostacolo; ed è anche vero che nella mia prima dimora colà non mi avea fatto scrupolo di professare agli occhi del paese il cattolicismo1. Ma da allora in poi si erano grandemente riformati i miei pensieri e io rifuggiva da ogni finzione.

Pure devo confessare che allora non fu questa, come ho detto, la principale difficoltà occorsami alla mente, e che la massima fu il non sapere, durante questa prova che avessi fatta, a chi lasciare in custodia il mio danaro. Mi risolvei finalmente a menarlo meco nell’Inghilterra.

Ma prima di tutto volli profittare dell’occasione di vascelli all’ancora sul Tago, che stavano in procinto di salpare alla volta del Brasile, per dare adeguate risposte a chi di là m’avea spediti sì cortesi e fedeli ragguagli su lo stato delle cose mie.

Scrissi primieramente al priore del convento di Sant’Agostino, ringraziandolo del modo ond’erasi comportato rispetto a me. Quanto all’avanzo degli ottocento settanta moidori di mia ragione rimastogli tuttavia nelle mani, lo pregai ad applicarne cinquecento al monastero, distribuendo gli altri trecento settanta ai poveri con quel riparto che gli sarebbe sembrato più opportuno: non mancai di pregare que’ buoni Padri a non dimenticarmi nelle loro orazioni, e cose simili.

L’altra lettera fu ai miei fidecommissari, per accertarli di tutta la gratitudine eccitata in me del retto ed onesto loro procedere. Non pensai ad assegnar loro veruna retribuzione, perchè la loro ricchezza li mettea troppo al di sopra d’ogni bisogno.

Scrissi per ultimo al mio socio, rendendo giustizia alla sua industria che avea migliorato di tanto il valore della piantagione, e alla rettitudine de’ conti presentati per le spese di raffineria. Gli diedi in appresso le mie istruzioni sul modo di disporre della mia parte di rendite avvenire, in accordo con le facoltà che aveva compartite al vecchio mio capitano, al quale lo pregai spedire direttamente tutto quanto fosse di mia pertinenza, finchè non ricevesse da me norme diverse. Lo assicurai pure essere mia intenzione non solo di andarlo a trovare, ma di stabilirmi al Brasile per tutto il restante della mia vita. Aggiunsi a ciò un presente di tessuti di seta di fabbrica italiana per la moglie di lui e le sue figlie; chè il figlio del capitano m’aveva informato averne esso due. Unii a tale donativo due pezze di panno inglese del migliore che potei procacciarmi in Lisbona, cinque altre di rascia soppannata nera e alcuni merletti di Fiandra di molto valore.

Così assestati i miei affari e vendute le mie mercanzie che convertii in buone cedole di banco, non mi rimaneva altra perplessità fuor quella della via che avrei tenuta per tornarmene in Inghilterra. M’era accostumato, cred’io, bastantemente al mare; pure sentiva uno strano contraggenio a ripatriare per quella via; e benchè non sapessi spiegarne a me stesso il motivo, questa avversione mi crebbe sì forte, che due volte aveva imbarcate le mie bagaglie per partire, poi cangiai di pensiere non una, ma due o tre volte.

È vero che fui sfortunatissimo ne’ miei viaggi marittimi, e questa poteva esser stata una delle cagioni della mia esitanza; pure non trascurate mai i forti impulsi della vostra anima in casi di simil natura. I due vascelli mercantili ch’io avea prescelti pel mio tragitto, e, dico prescelti, perchè a bordo di uno erano state poste le mie robe, quanto all’altro, aveva già stipulati i miei patti col capitano: ebbene, questi due vascelli ebbero cattivo fine; l’un d’essi fu preso dagli Algerini, l’altro naufragò alla punta Start presso Torbay, nè si salvarono se non tre naviganti; tutti gli altri annegarono. Voi vedete qual bella sorte m’aspettava o su l’uno o su l’altro di que’ due bastimenti.

Così tribolato ne’ miei pensieri, il mio vecchio nocchiero cui non ne ascondeva mai uno, mi consigliò caldamente a non andare per mare; voleva in vece ch’io mi recassi per terra alla Corogna e di lì, attraversato il littorale della baia di Biscaglia, alla Rocella dond’era facile e sicuro il viaggio sempre per terra sino a Parigi, indi a Calais e a Douvre; o vero che, trasferitomi a dirittura a Madrid, continuassi il mio viaggio attraversando tutta la Francia.

In una parola, io era sì mal impressionato contro al viaggiare per mare, eccetto l’inevitabile tragitto da Calais a Douvre, ch’io risolvei di andare tutto il mio ritorno in patria per terra: modo di viaggiare che, non essendo io pressato da una gran fretta, nè avendo bisogno di crucciarmi per la maggiore spesa, era anche più dilettevole. E per aumentare questa piacevolezza, il mio capitano mi presentò un giovine inglese figlio di un trafficante di Lisbona, che era desideroso di fare il viaggio in mia compagnia; dopo di che inducemmo ad essere di brigata con noi due altri negozianti inglesi e due giovani gentiluomini portoghesi, il secondo de’ quali veniva solamente a Parigi: in tutto sei padroni e cinque servitori, perchè i due negozianti e i due Portoghesi si contentarono d’un servo per ogni due a fine di spendere meno. Quanta a me presi al mio servigio durante il viaggio un piloto inglese, oltre al mio fedele Venerdì, troppo estranio agli usi d’Europa per poter sostenere solo questa parte lungo il cammino.

Così partimmo da Lisbona. Montata su buoni cavalli e ben armata la nostra compagnia, formavamo una piccola squadra, di cui ebbi l’onore di essere nominato capitano, e perchè più vecchio e perchè aveva, a differenza degli altri, ai miei comandi due servi, oltrechè in sostanza io era l’attor principale di quella spedizione.


  1. Tutti già sanno che l’autore di questa storia era protestante, e che fece tale il suo protagonista.

Note

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