< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Prodezza di Venerdì
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Prodezza di Venerdì.



C
ome non vi ho annoiato con verun giornale de’ miei viaggi marittimi, così vi risparmierò la molestia di qualsiasi giornale dei miei viaggi per terra; pure non posso tralasciare alcune avventure, che ne occorsero in questa noiosa e difficile traversata.

Giunti a Madrid, ed essendo la Spagna un paese affatto nuovo per ciascuno di noi, avremmo voluto fermarvici qualche tempo per vedere quella corte, e quanto era quivi meritevole d’osservazione; ma incamminandosi al suo finire la state, ci affrettammo a partire di lì verso la metà di ottobre. Arrivati ai confini della Navarra, fummo scoraggiati nelle diverse città che incontravamo lungo il cammino, dai racconti della sterminata copia di neve caduta su le montagne che guardano la Francia; di che più d’un viaggiatore si era veduto costretto a tornare addietro a Pamplona dopo avere tentato indarno, e ad estremo pericolo, di superare que’ passi.

Venuti a Pamplona, trovammo che la cosa era propriamente come ce l’avevano raccontata. A me poi avvezzo a climi ardenti ed a paesi ove poteva a fatica portare vestiti di sorta alcuna, quel freddo sembrava insopportabile. Nè da vero era cosa men penosa che sorprendente il venir via, sol dieci giorni prima, dalla Castiglia Vecchia, ove l’atmosfera è non solamente temperata, ma caldissima, e trovarsi d’improvviso esposti ai venti de’ Pirenei sì acuti, sì orridamente freddi, sì intollerabili, che n’avevano renduti assiderati e condotti a temere di perdere le dita delle mani e dei piedi.

Il povero Venerdì si trovò sgomentato da vero quando vide i monti tutti coperti di neve e sentì assai bene il rigore del freddo: egli che non aveva mai veduto neve, nè patito freddo in sua vita. Non vi dirò altro, se non che quando fummo a Pamplona continuava a nevicare con tanta violenza e sì incessantemente, che quegli abitanti ne dicevano esser venuto il verno prima del tempo; quelle strade, perverse sempre, erano divenute allora impraticabili affatto. In una parola, le nevi in alcuni luoghi erano sì alte, che non si poteva andare avanti, oltrechè non essendo indurite dal gelo, come accade ne’ paesi settentrionali, chi voleva traversarle, nol facea senza pericolo di rimanere ad ogni passo sepolto vivo sotto di esse.

Fermatici non meno di venti giorni a Pamplona, e veduto come il verno avanzava, nè appariva la menoma probabilità che divenisse più mite, perchè faceva in tutta l’Europa il più aspro verno che a memoria d’uomini si fosse mai conosciuto, proposi che ce ne andassimo a Fontarabia, e quivi prendessimo un imbarco per Bordò: si trattava in fine d’un piccolo tragitto. Ma mentre ciò stavasi discutendo, arrivarono quattro gentiluomini che, essendo stati arrestati per la perversità de’ cammini dal lato francese, siccome noi l’eravamo alla frontiera spagnuola, ne raccontarono come li avesse tratti d’impaccio una guida in cui si abbatterono. Questa guida, al dir loro, attraversata la campagna su l’estremità della Linguadoca, gli avea condotti su le montagne per tali sentieri, che non si trovarono gran che incomodati dalla neve; e, capitati anche talvolta in siti ove ne fosse copia più straordinaria, il gelo l’avea renduta salda abbastanza per reggere essi e i loro cavalli.

Mandammo tosto per costui, il quale venuto a noi, ne disse che si prendeva l’assunto di condurci su la medesima via senza che ne riuscisse d’intralcio la neve, semprechè fossimo bastantemente armati per difenderci dalle bestie selvagge.

— «Perchè, egli soggiugneva, in questi tempi accade frequentemente che alcuni lupi si facciano vedere al piede delle montagne, e li rende feroci la mancanza di nutrimento, quando la terra e tutta coperta, com’è ora, dalla neve.»

Nel rispondere che per fare un ricevimento qual convenivasi a quelle fameliche creature eravamo preparati abbastanza, gli domandammo poi s’egli ci avrebbe potuto guarentire da un’altra specie di lupi a due gambe, dai quali c’era ben più di che temere, massime, come ne eravamo stati informati, dal lato de’ monti della Francia. Poichè ne ebbe accertati non esserci luogo a paure di tal natura su la strada per ove divisava condurci, non avemmo più difficoltà di seguirlo, come fecero parimente altri dodici gentiluomini, parte francesi, parte spagnuoli, che co’ loro servi si erano provati, lo abbiamo già detto, a valicare que’ monti, e furono costretti tornare addietro.

Di fatto partimmo da Pamplona in compagnia della nostra guida il giorno 13 di novembre. Mi fece, lo confesso, qualche meraviglia il vedere che costui in vece di condurci più innanzi, ne fece ripigliare la strada che avevamo fatta nel venir via da Madrid. Ciò durò per un tratto di venti miglia, poi venuti ad una pianura, ci trovammo di nuovo sotto un clima temperato ed in un bel paese, ove non si facea vedere la neve. Ma tutt’ad un tratto voltando a sinistra, ci trovammo alle montagne per un’altra strada. Quivi ancorchè per dir vero ci si mostrassero dirupi e precipizi da atterrire il nostro conduttore, ciò non ostante ne fece pigliare tante giravolte, tante vie di scanso, ci guidò per tanti meandri, che oltrepassammo quasi senza avvedercene e senza essere incomodati dalla neve, la parte più alta di que’ monti; onde in un subito ci si mostrarono le deliziose e fertili province della Linguadoca e della Guascogna tutte verdi e fiorenti. Le vedevamo, ma, se si ha a dire la verità, ad una bella distanza da noi, e ce ne restava ancora della cattiva prima di esserci.

In fatti non tardò il cruccio per noi di veder nevicare tutto un giorno e una notte neve sì fitta che ne costrinse a fermarci. Ma il nostro conduttore ne dicea che stessimo di buon animo, e che presto saremmo fuori d’ogni travaglio. In fatti ci accorgevamo ogni giorno di andare alla bassa e di procedere sempre più verso il settentrione. Continuando a fidarci dunque nella guida proseguivamo il nostro viaggio.

Due ore quasi prima di sera il conduttore nel precederci s’era alquanto scostato da noi, onde lo avevamo perduto di vista, allorchè sbucarono dal folto di una contigua selva tre enormi lupi, e dietro ad essi un orso. Due di questi lupi investirono la guida e buon per lei che non ci era andata avanti di tanto, poichè certo sarebbe stata divorata prima che avessimo potuto correre in suo aiuto. Uno di quegli animali s’era attaccato al cavallo; l’altro assalse il cavaliere con tal violenza, ch’egli non avendo tempo o prontezza di spirito da poter trarre a mano una pistola, si mise a strillare e chiamare aiuto con quanta voce aveva. Dissi tosto a Venerdì che mi cavalcava da presso, di correre innanzi e vedere che fosse.


Venerdì corse, e appena fu a vista dell’uomo assaltato, lo udii gridare con una voce non men forte delle urla di quel poveretto: Ah padrone! ah padrone! ma non si fermò per questo il gagliardo, e afferrata una pistola e andato faccia a faccia col lupo che già stava per addentare la testa della sua vittima, lo stese morto d’un colpo.

Fortuna pel nostro povero conduttore l’avere avuto il soccorso di Venerdì, che, avvezzo ad aver che fare con simili creature nel suo paese, non ebbe paura di affrontare corpo a corpo la belva, quando l’ammazzò come abbiamo detto. Ognuno di noi le avrebbe fatto fuoco addosso ad una maggiore distanza col rischio di fallare il lupo e forse anche di colpire l’uomo alla cui difesa accorrea.

Vi dico io che v’era quanto bastava per atterrire un uomo più coraggioso di me. E da vero tutta la nostra brigata si spaventò, quando insieme col romore della pistola sparata da Venerdì udimmo da entrambi i lati un orrido ululato di lupi: frastuono che ripetuto da ogn’eco delle montagne, ne fece credere d’avere intorno un numero sterminato di quelle fiere; nè forse erano tanto poche che non avessimo motivo di avere paura. Nondimeno poichè Venerdì ebbe ucciso il lupo che minacciava a dirittura l’uomo, l’altro che s’era attaccato al cavallo, lasciata immantinente la sua presa, si diede a fuggire senza avergli fatto male veruno, perchè per buona sorte i suoi denti ansiosi prima di tutto di sbramarsi su la testa del corridore venivano rintuzzati dalle borchie della briglia.

Fu ben peggio per l’uomo, poichè la famelica belva lo avea già morsicato due volte, una in un braccio, l’altra un po’ di sopra al ginocchio; e benchè avesse opposta qualche difesa, stava per essere buttato giù di sella dallo scompiglio stesso del suo cavallo, quando sopraggiunse Venerdì a liberarlo.

Potete immaginarvi che al romore della pistola di Venerdì tutti affrettammo il passo quanto nel permettea la difficoltà al certo grande di quel cammino, per vedere come stessero le cose. Appena fummo fuor degli alberi che ne toglievano dianzi la vista, scorgemmo perfettamente il caso, e come Venerdì fosse riuscito a campare da morte il nostro povero conduttore, benchè l’oscurità dell’ora non ne lasciasse allora discernere qual razza di bestia egli avesse uccisa.

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