< Avventure di Robinson Crusoe
Questo testo è stato riletto e controllato.
Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Ritorno nell’isola, ricevimento avuto
67 69

Ritorno nell’isola, ricevimento avuto.



E
ccomi già sotto la latitudine di 4 gradi dopo un viaggio sufficientemente buono, benchè su le prime contrariato dai venti. Ma ho voluto risparmiare al lettore le molestie congiunte con le descrizioni di piccoli incidenti derivati dai cambiamenti dell’aria e della stagione e di simili minuzie occorsemi in questo intervallo; onde accorciando la mia storia per amore delle cose che vengono dopo, dico che giunsi alla mia antica abitazione, alla mia isola, nel giorno 10 aprile 1695.

Durai qualche fatica a riconoscerla, perchè quando venendo la prima volta dai Brasile mi ci spinse la tempesta, e quando ne ripartii, fu dalle spiagge meridionali e orientali della medesima. Questa volta costeggiando tra questa e il continente, nè avendo alcuna carta topografica di questi luoghi, non potei capire che quella fosse la mia isola, o almeno per certo se fosse o non fosse.

Vagammo quindi un bel pezzo alla ventura ed a veggente della spiaggia di parecchie isole giacenti alla foce del grande fiume Orenoco senza che mi si presentasse mai quella ch’io ricercava. Solamente nel costeggiar quelle rive venni in chiaro d’un grave abbaglio in cui era innanzi caduto: quello cioè di prendere per continente quello ch’era soltanto una lunga isola o piuttosto catena d’isole, che si estendeano da un lato all’altro delle bocche del grande fiume. In tale occasione vidi pure come i selvaggi che sbarcavano sì spesso nella mia isola, non fossero propriamente i così detti Caraibi, se bene per altro isolani e selvaggi quasi della stessa razza che, soggiornando nella parte un poco più vicino ad essa, talvolta vi capitavano a differenza degli altri.

In somma io visitai diverse di quelle isole senza verun costrutto, alcune le vidi abitate, altre no; trovai in una di esse alcuni Spagnuoli, che credei su le prime vi soggiornassero; ma parlando con loro scopersi che avevano un palischermo ad una calanca poco distante; che erano venuti quivi in cerca di sale e per pescare conchiglie fin dall’isola della Trinità cui appartenevano, giacente in una maggiore distanza al settentrione fra i 10 e gli 11 gradi di latitudine.

Così governando di costa in costa, talvolta col mio bastimento, talvolta con la scialuppa del vascello incendiato, che i suoi proprietari mi avevano ceduta di tutto buon grado e che trovai conveniente al caso mio, arrivai con buona fortuna al lato meridionale della mia isola. Allora sì ravvisai presto alla cera la terra del mio reame, nè tardai a condur la mia scialuppa all’âncora a quella famosa darsena, che era in poca distanza dalla mia antica fortezza.

Dal bel primo istante che riconobbi ove fossi, aveva fatto venire a me Venerdì, domandandogli:

— «Ebbene, Venerdì, capite ove siate ora?»

Egli guardò attorno alcun poco, poi datosi d’improvviso a battere le mani, esclamò:

— «Oh sì! sì! me capire. Lì! lì!» e col dito accennava l’antica mia abitazione, e si mise a ballare ed a capriolare da matto; anzi ebbi un bel che fare a rattenerlo dallo spiccare un salto in mare per raggiugnere a nuoto la nostra casa antica.

— «Or ditemi, Venerdì, gli domandai, credete voi che ci troveremo più qualcheduno o no? sperate voi di rivedere vostro padre?»

Alla prima inchiesta stava lì come un insensato senza rispondermi nulla, ma appena gli ebbi nominato suo padre, vidi la costernazione e l’abbattimento dipingersi negli occhi di quella povera affezionata creatura, e una piena di lagrime che ne sgorgò ad inondarle la faccia.

— «Che cos’è stato, Venerdì? Vi dà forse fastidio la possibilità di rivedere vostro padre.

— No, no! egli rispose crollando il capo. Me non vederlo più! me non tornare a vederlo mai più!

— Perchè poi? Come sapete voi questa cosa?

— Oh no! no! Lui star morto da lungo tempo, da lungo tempo! lui star molto vecchio!

— Dunque, Venerdì; non lo sapete. E quanto ad altre persone, credete che ne troveremo qui?»

Colui aveva, a quanto parve, migliori occhi de’ miei, perchè accennando la collina che sovrastava all’antica nostra casa, benchè ne fossimo d’una buona mezza lega distanti, si mise a gridare:

— «Sì, sì, noi vedere, noi vedere molti uomi là... là... là...»

Egli diceva noi vedere, ma io aveva un bel guardare, non riuscii a vedere nessuno, nemmeno valendomi del mio cannocchiale, e ciò, io suppongo, per non avere presa la giusta mira del sito additatomi da Venerdì; perchè costui aveva ragione, come mi apparve dalle informazioni prese nel dì seguente; e dove Venerdì indicava vi erano proprio sei uomini convenuti insieme a guardare il nostro vascello, di cui non sapevano che cosa pensare.

Non appena Venerdì mi ebbe detto che vedea gente, feci spiegare la bandiera inglese ordinando tre spari di cannone per darci a conoscere amici; nè passò un quarto d’ora appresso che vedemmo alzarsi un fumo dal lato della darsena. Fatta allestir tosto la scialuppa del vascello, su la quale alzai bandiera bianca in segno delle mie intenzioni pacifiche, mi avviai direttamente entro essa alla spiaggia, presomi in compagnia Venerdì e quel giovine religioso menzionato dianzi, già da me informato e della storia della mia residenza in quest’isola e del modo onde campai e d’ogni particolarità intorno a me e a coloro che vi lasciai nel partirne: fu anzi il racconto di tali particolarità che lo invogliò di far questo viaggio in mia compagnia. Avevamo in oltre nella scialuppa sedici uomini armati di tutto punto pel caso che trovassimo l’isola abitata da gente non di nostra conoscenza; ma il fatto mostrommi da poi, che non abbisognavamo di prendere armi con noi.

Poichè navigavamo nel tempo del flusso, remammo dirittamente alla darsena che era tuttavia alta marea. Il primo uomo da me adocchiato fu lo Spagnuolo, al quale aveva salvato la vita, e i cui lineamenti potei perfettamente discernere: il suo vestire lo descriverò un’altra volta. Io veramente ordinai che niuno scendesse alla spiaggia prima di me, ma non ci fu verso di far restare Venerdì nella scialuppa, perchè questo buono amorosissimo figliuolo avea scernuto suo padre più in là dello Spagnuolo e de’ suoi compagni, e ad una distanza ove certo la mia vista non arrivava.

Non sì tosto fu su la spiaggia, che corse a suo padre con la prestezza di una freccia scoccata dall’arco: avrebbe cavate le lagrime anche di chi fosse stato più alieno dall’intenerirsi il vedere i primi impeti della gioia di quell’ottimo figlio appena fu faccia a faccia del suo genitore. Come lo abbracciava, lo baciava, gli accarezzava il volto! Lo sollevò di peso per metterlo a sedere sopra un tronco d’albero; quivi assisosi presso di lui, lo fisò, lo contemplò per un quarto d’ora, come si rimarrebbe a contemplare una rara pittura; poi buttatosi boccone per terra gli accarezzava le gambe e le baciava, poi tornava in piedi nuovamente a contemplarlo; lo avreste detto impazzito. Ma nel dì appresso sarebbe stato un matto ridere il vedere la piena della tenerezza filiale di quell’ottima creatura prendere un altro andamento. Nella mattina passeggiava su e giù lungo la spiaggia per parecchie ore conducendosi per mano suo padre, come se fosse stato la sua innamorata; lo avreste veduto ogni momento correre alla scialuppa per trarne or questa or quella cosa da regalarnelo, quando un pezzetto di zucchero, quando un bicchierino d’acquavite, talvolta una focaccia, sempre alcun che di buono. Nel dopo pranzo le sue bizzarre manifestazioni d’amore erano d’un altro stampo, perchè adagiato il vecchio su l’erboso terreno, gli ballava attorno e facea mille lazzi grotteschi, e in tutto questo tempo non si saziava di parlargli e raccontargli la storia or d’uno, or d’un altro de’ suoi viaggi, e di quanto gli era accaduto pel mondo per divagarlo. Vi dico io che se la stessa affezione dei figli verso i lor genitori si rinvenisse nel nostro mondo cristiano, non ci sarebbe quasi bisogno del quarto comandamento del decalogo. Ma quest’è una mera digressione, e torno alle particolarità del mio sbarco.

Sarebbe lungo e superfluo un minuto racconto di tutte le cerimonie ed atti cortesi con che m’accolsero gli Spagnuoli. Vi ho già detto come il primo d’essi ch’io riconobbi, fosse pur quello al quale aveva salvata la vita. Venne in verso alla mia scialuppa accompagnato da uno de’ suoi che porta va anch’egli la bandiera di pace; ma non solo non mi riconobbe da principio, ma nemmeno gli era nata la menoma idea che chi veleggiava alla sua isola fossi io, finchè non fui io stesso il primo a rompere il silenzio.

— «Signore, gli chiesi in portoghese, non mi conoscete?»

Udita appena la mia voce, non profferì un accento, ma consegnato il proprio moschetto a chi facea la parte di suo aiutante di campo, spalancò le braccia dicendo alcune parole spagnuole, che non arrivai a capir bene, venne innanzi, abbracciommi strettamente; allora parlò:

— «È imperdonabile la mia colpa di non avere ravvisato a dirittura quel volto che fu per me un giorno il volto d’un angelo sceso dal cielo per salvarmi la vita.» E qui mi disse un mondo di quelle belle frasi che ad uno Spagnuolo ben educato non mancano mai; poi additatomi alla persona che lo accompagnava, gli comandò d’andar a chiamare tutti gli altri suoi camerati.

Chiestomi indi se voleva andar seco all’antica mia abitazione, di cui m’avrebbe tornato a mettere nuovamente in possesso, mi manifestò il suo rincrescimento, perchè vi avrei trovato ben miseri miglioramenti fatti da lui e dalla sua gente nel tempo di mia lontananza. Consentii pertanto ad andarmene con lui. Ma, oh Dio! io non potea raccapezzare il mio vecchio soggiorno, come se non ci fossi stato giammai. Avevano piantati tanti nuovi alberi, aveano dato a questi un tale collocamento, erano sì fitti e intralciati fra loro, avevano in oltre avuto dieci anni di tempo per crescere a sì enorme grossezza che, per venire alle corte, il luogo era divenuto inaccessibile fuorchè per chi conoscea certi andirivieni e viottoli ciechi che potea trovare sol chi gli aveva in quella maniera disposti. Gli domandai, com’era naturale, quale strana necessità gli avesse indotti a tante cautele di fortificazione.

— «Vedrete, signore, mi rispose, che non ne era poco il bisogno, poichè vi avrò raccontato come abbiamo passata la nostra vita dal giorno in cui arrivammo tutti in quest’isola, massime dopo la sfortuna di trovare che voi ne eravate partito. Certo non poteva non sentire un contento per la vostra felicità al sapere che vi eravate imbarcato in un buon bastimento e tal quale ve lo potevate augurare. Certo per lungo tempo durò in me vivissima la speranza che una volta o l’altra vi avrei riveduto; pur ve lo confesso, non mi è mai accaduta in mia vita niuna sorpresa desolante in uno, e che m’abbia posto in più fiero scompiglio come il tornare nell’isola e sentire che non ci eravate più. Quanto ai tre barbari (così egli li chiamava) che vi lasciaste addietro, oh! avrò a contarvene delle belle. Sentirete una lunga storia. Tutti, vedete! avremmo creduto di star meglio co’ selvaggi che con loro, se non ci avesse confortato il pensiere che erano pochi. Se fossero stati più, saremmo già da un bel pezzo in purgatorio (e qui si fece il segno del la croce). Pertanto io spero, mio signore, che non v’avrete a male, quando vi racconterò che per amore della nostra salvezza ci vedemmo astretti a disarmarli e a porli in uno stato di schiavitù, perchè coloro non si contentavano mica di farla moderatamente da padroni su noi: volevano divenire i nostri assassini.

— V’assicuro, gli risposi, che quanto mi dite lo aveva temuto fieramente ancor io, e nulla mi ha dato maggior disturbo del partire di qui prima che voi foste tornato addietro. Se ci era io, per prima cosa vi avrei conferito il possesso dell’isola, posti coloro sotto il vostro dominio ed in quello stato di suggezione che ben meritavano. Poichè lo avete fatto voi altri, ne ho ben piacere; e sono lontanissimo dal farvene una colpa. Sapeva già che erano fior di cialtroni, anime senza legge nè fede, e capaci di commettere ogni sorta d’iniquità.»

Mentre io parlava in tal guisa, tornò l’aiutante del mio Spagnuolo conducendo seco undici altri uomini. Dalla foggia del loro vestire sarebbe stato difficile il dedurre la nazione cui appartenevano; ma ben presto chi gli avea mandati a chiamare, schiarì ogni cosa ad essi ed a me, cui si volse primieramente additandomeli.

— «Questi, mio signore, sono alcuni fra i gentiluomini che vanno debitori a voi delle loro vite.» Voltatosi indi agli altri accennò ugualmente me, spiegando loro chi io fossi. S’avanzarono tutti uno alla volta con un portamento non da marinai o gente volgare, ma propriamente come s’eglino fossero inviati di una ragguardevole corporazione, io un monarca o un grande conquistatore. I loro modi furono oltre ogni dire gentili e cortesi, e spiravano tal quale maschia e maestosa gravità, che li facea ben comparire. Avevano in somma si belle maniere, che m’impacciavano sul come rispondere a tante cortesie, molto più sul come adeguatamente contraccambiarle.

La storia del loro arrivo e de’ loro casi nell’isola da che io n’era lontano, è sì notabile, sì ricca d’incidenti collegati con la prima parte della mia relazione, che non posso non addossarmi il piacevole carico di trasmetterne i particolari alla lettura di chi verrà dopo di me; tanto più volentieri in quanto le cose narrate prima agevolano l’intelligenza di quelle che vengono dopo.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.