< Avventure di Robinson Crusoe
Questo testo è stato riletto e controllato.
Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Nuova diversione
66 68

Nuova diversione.



D
allora in poi presa la nostra direzione verso l’India Occidentali a sud ¼ sud-est (¼ di ostro verso scirocco) viaggiammo per venti giorni all’incirca, e talvolta con poco o nulla di vento, quando ne occorse altro argomento opportuno a tenere in esercizio la nostra umanità, e non meno deplorabile del precedente.

Ai 19 di marzo del 1694, eravamo a’ 27 gradi 3 minuti di latitudine settentrionale, allorchè ci accorgemmo d’una vela volta verso noi nella direzione di sud-est ¼ est (¼ di scirocco verso levante), nè tardammo a scoprire un grosso bastimento che correva alla nostra volta senza che ne sapessimo congetturare il perchè; ma non appena ci fu più vicino, vedemmo che aveva perduto l’albero di gabbia di maestra, quel di trinchetto e quel di bompresso. Presto udimmo lo sparo di cannone, che è segnale di disastro. Il tempo mantenendosi bello e spinti da una forte brezza di nord-nord-west (maestro-tramontana), non tardammo ad essere in grado di parlare con chi ne chiedeva soccorso.

Sapemmo allora come quel bastimento in procinto di salpare dalla Barbada per tornare a casa, e già in rada, pochi giorni prima di dar le vele fosse stato tratto fuori del porto da una forte burrasca, mentre il capitano e il primo aiutante erano andati alla spiaggia. Il caso per dir vero esce sì poco dalla sfera de’ casi ordinari, che tolto lo smarrimento nato dalla tempesta, non avrebbe impedito ad abili marinai di ricondurre in porto il loro legno. Il fatto sta che stettero nove settimane alla ventura sul mare, quando, sedata la prima burrasca, ne sopraggiunse loro una più fiera che li disalberò nel modo sopraindicato. Si lusingavano d’avere a veggente le isole Lucaie, ma un gagliardo vento di nord-nord-west (maestro-tramontana) lo stesso che spirava in quel punto, gli avea trasportati al sud-est (a scirocco). Non avendo altre vele per governare la nave fuor della grande e d’una specie di vela riquadra che adattarono ad un albero di rispetto, posto in vece di quel di bompresso perduto, non poterono andare all’orza resa col vento1; onde si sforzavano alla meglio di governare verso le Canarie.

Ma il peggio di tutto si era che per giunta ai patiti disagi morivano di fame per mancanza di provvigioni: pane e carne erano affatto spariti; non ne avevano un’oncia in tutto il bastimento; e ciò durava da undici giorni. L’unico conforto che rimaneva loro consistea nel non essere ancora finite la loro acqua dolce, e l’aver tuttevia un mezzo barile di fior di farina. Restava pur loro una sufficiente copia di zucchero, benchè la parte di esso lavorata e confettata se l’avessero mangiata per intero; restavano pur loro sette barili di rum.

Avevano a bordo un giovine, la madre di lui e la fantesca, tutt’e tre passeggieri, i quali, pensando che il vascello fosse lesto a salpare, sfortunatamente si recarono a bordo la sera stessa in cui cominciò la burrasca. Quest’infelici si trovavano in condizione tremendamente peggiore di tutti gli altri, essendo già state consumate tutte le loro provvigioni; nè i marinai ridotti a non avere più nemmeno il necessario per sè stessi, sentivano compassione, potete starne certi, di quegli sgraziati la cui posizione era più deplorabile di quanto si possa descriverlo.

Avrei forse ignorata questa parte di storia se, essendo bello il tempo e il vento rimesso, la mia curiosità non mi avesse spinto a bordo di quel vascello. Il secondo aiutante, che allora facea le veci di capitano, entrato dinanzi nel nostro bastimento mi aveva informato di questi tre passeggieri che occupavano la stanza de’ forestieri ridotti a tal condizione da far pietà ai sassi.

— «Anzi, egli disse, credo sieno morti, perchè non odo parlar di loro nè poco nè assai da circa due giorni, ed io non ho avuto il coraggio di chiederne conto, perchè privo d’ogni mezzo per aiutarli.»

Ci demmo tutti all’opera per soccorrere, il meglio che per noi si potea, quella carovana di sfortunati; nel che prevalsi tanto su l’animo di mio nipote, che gli avremmo vettovagliati, quand’anche a tal fine ne fosse convenuto, per non restare sprovveduti noi stessi, allungare la nostra corsa fino alla Virginia o ad altre spiagge dell’America: ma non vi fu bisogno di ciò.

Or que’ meschini si trovarono in un nuovo spavento, di mangiar troppo anche di quel poco che fa ad essi somministrato. L’aiutante in secondo, allora comandante di quel disgraziato vascello, avea condotti sei di sua gente nella scialuppa su cui venne a trovarci; ma que’ poveri sgraziati parevano veri scheletri, ed erano sì rifiniti, che non so come facessero a non lasciarsi portar via dai lor remi. Lo stesso aiutante aveva la trista cera di chi non ne può più dalla fame; che, com’egli diceva, non avea riserbato nulla per se a pregiudizio dei suoi piloti, e d’ogni morsello che fu mangiato avea fatto parte eguale con essi.

Per conseguenza nel tempo stesso ch’io gli porgea di che cibarsi, cosa che feci subilo, come potete ben credere, lo avvertiva d’andar guardingo nella stessa necessita di sfamarsi. Di fatto non avea mangiato tre bocconi che cominciò a sentirsi male e come a svenire; dovette quindi tralasciare per un poco, finchè il nostro chirurgo gli diede certa pozione atta a servirgli e di rimedio e di ristoro alla fame; dopo di che stette meglio. In questo mezzo non dimenticai gli uomini della scialuppa; ordinai vi si portassero nutrimenti che quelle povere affamatissime creature divoravano, più che mangiarli. Trasformatisi, può dirsi, in veri lupi, non erano padroni di sè medesimi; due anzi di questi mangiarono con tanta ingordigia, che nella mattina seguente v’era a temere per le loro vite.

La vista dell’angoscia di que’ miei simili mi commosse al massimo grado, tanto più che mi raffigurava il terribile quadro del mio primo arrivo nella mia isola, ove io non vedeva un tozzo di pane da mettermi alla bocca, nè la menoma speranza ragionevole di procacciarmene, oltre al timore che d’ora in ora incalzavami di divenire io stesso il pasto d’altri viventi.

Intantochè l’aiutante mi andava narrando la trista condizione dei suoi compagni lasciati nel vascello, io non potea levarmi di mente la storia di quelle tre povere creature derelitte che stavano nella stanza de’ forestieri: quella madre cioè, quel figlio, quella donna di servigio, de’ quali l’aiutante stesso non sapea nuove da due o tre giorni, e che, a sua confessione medesima, erano stati trascurati affatto, atteso lo stremo cui si trovavano ridotti eglino stessi e tutti coloro che avrebbero potuto prendersene pensiere. Da tutto quel racconto io ben capiva che non aveano ricevuto cibo alcuno, e che per conseguenza doveano giacer morti o agonizzanti sul tavolato della loro stanza.

Mentre pertanto io aveva a bordo l’aiutante, che veniva allora chiamato capitano, e i suoi uomini intenti a ristorarsi, non dimenticai la turba affamata che aveano lasciata a bordo del loro vascello; onde ordinai una scialuppa su cui il mio aiutante e dodici dei miei trasportassero colà un sacco di pane e cinque o sei pezzi di carne per farne lesso e brodo. Il nostro chirurgo avvertì gli uomini incaricati di tale spedizione che non si movessero dalla cucina mentre la carne bolliva, e impedissero a que’ famelici di mangiarla cruda o di tirarla fuori della pentola prima che fosse cotta bene, ed anche allora di distribuirla per testa a poco per volta. Con tal previdenza salvò quegl’infelici; altrimenti si sarebbero uccisi da sè medesimi con lo stesso nudrimento inviato loro per tenerli in vita.

Nello stesso tempo incaricai il mio aiutante di recarsi nella grande stanza della foresteria, per vedere in quale stato si trovassero quei tre poveri passeggieri, e dar loro, se viveano tuttavia, quanti soccorsi fossero più acconci al caso loro. Intanto il chirurgo gli diede una boccia piena di quella pozione che avea giovato all’uficiale venuto a bordo del mio bastimento e che, amministrata gradatamente, non dubitava non fosse efficace anche per quei poveretti, se pure erano in vita.

Ma non fui contento a ciò. Aveva grande voglia, come ho detto prima, di recarmi io stesso su quella scena di desolazione, che certo co’ miei occhi medesimi me ne avrei formato un concetto più di quanto me lo potessero presentare le altrui relazioni. Presomi quindi in compagnia il comandante di quel vascello, mi vi recai di lì a poco in persona.

Trovai a bordo quella povera ciurma quasi in istato di sollevazione per voler tirare la carne dalle pentole, prima che fosse cotta. Per buona sorte il mio aiutante esatto nell’adempiere gli ordini avuti da me, mise di sentinella all’uscio della cucina un uomo di polso, che dopo avere cercato colle buone di persuadere que’ famelici ad avere pazienza, li tenne fuori dell’uscio per forza. Nondimeno fece ammollare nel brodo alcune fette di pane, cibo che i marinai soprattutto chiamano brewis; e ne distribuì una per cadauno, onde si rinforzassero lo stomaco, dimostrando loro ad un tempo come soltanto per loro bene fosse costretto a fornirli di cibo a poco per volta. Tutte le sue cure ciò non ostante sarebbero state al vento, se tardavamo ancora a mostrarci io ed il loro comandante e i loro uficiali. Se parte con belle parole, parte con la minaccia di un digiuno anche più lungo, non li riducevamo al dovere, credo che entrati per forza in cucina, avrebbero strappala la carne fuor dei fornelli; perchè ogni eloquenza ha poca forza con pance vuote. Pure arrivammo a sedarli, li nudrimmo adagio adagio e cautamente alla prima; indi demmo loro un po’ di cibo; finalmente ne satollammo i ventri, e stettero bene abbastanza.

Ma la sventura de’ poveri passeggieri che stavano nella foresteria era bene diversa, ed oltrepassava di gran lunga quella di tutti gli altri, perchè non appena il rimanente di que’ naviganti fu ridotto a mancare del bisognevole per sè, egli è troppo vero che fece lieve conto de’ primi e finalmente affatto li trascurò. La povera madre, donna, a quanto mi venne riferito, dotata di quanti pregi derivano da ingegno naturale e da buona educazione, negò ogni cosa a sè stessa per far vivere il figlio con tanta affezione, che poi soggiacque pienamente alle sue privazioni. Giacente, quando entrammo nella stanza, sul pavimento e con le spalle appoggiate su la parete, con le mani raccomandate alle braccia di due sedie accostate l’una all’altra fra cui si stava col capo affondato entro le spalle, somigliava assai più ad un cadavere che a creatura vivente. Il mio aiutante le disse quanto potè per rincorarla e farla rivivere, mentre cercava introdurle in bocca un cucchiaio di cordiale. Ma aperse le labbra, sollevò una mano; intendea le parole del mio aiutante, essa non poteva parlare, dicea per cenni essere troppo tardi, additava in alto di raccomandarlo il figliolo, parea dicesse: «Deh! non l’abbandonate!» Commosso non men di me a tal vista il mio aiutante, pur si sforzava di farle prendere alcune sorsate della pozione apprestatale; diceva anzi d’esserci riuscito per due o tre cucchiai; ma temo la speranza l’avesse ingannato. Realmente fu troppo tardi, ed ella morì in quella notte medesima.

Il giovinetto serbato in vita a prezzo dei giorni di una così tenera madre, non era giunto ad uno stato sì estremo, pur giaceva assiderato sopra un letto della foresteria, dando ben pochi segni di vita. Teneva in bocca un mezzo guanto, di cui s’avea mangiata l’altra metà; pure essendo più giovine e avendo più vitalità della madre, cominciò a riaversi sensibilmente dopo alcune cucchiaiate di cordiale che il mio aiutante pervenne a fargli inghiottire. Per altro qualche tempo dopo avendogli amministrato del cordiale stesso in dosi, a quanto parve, più abbondanti del dovere, era tornato a star male e le rigettò.

Non fu dimenticata nemmeno la povera fantesca. Stesa sul tavolato a fianco della padrona, somigliava a persona che colpita da un tocco d’apoplessia stesse lottando con la morte. Attratta in tutte le membra, s’aggrappava con una mano al fusto d’una scranna e tenealo stretto con tanta forza, che ci volle della fatica a farglielo abbandonare. Si tenea l’altro braccio sopra la testa, i suoi piedi stretti insieme premevano il piè d’una tavola; in somma, ancorchè viva tuttavia, era in preda a tutte le agonie della morte.

La povera creatura non era solamente così malconcia dalla fame e spaventata dall’idea di morire, ma, come ne fu raccontato da poi, straziavale tuttavia il cuore l’idea d’aver veduta per due o tre giorni agonizzante la sua padrona, che allora non era più e ch’ella amava in guisa straordinaria.

Non fu dimenticata nemmeno la povera fantesca, stesa sul tavolato a fianco della padrona.Non sapevamo che farne con quella povera giovinetta; perchè quando il nostro chirurgo, uomo fornito di molto sapere ed esperienza, mercè le più assidue cure la ebbe restituita alla vita, ebbe un bel che fare per restituirla alla ragione. La poverella rimase pazza per molto tempo, come si vedrà a suo luogo.

Chiunque leggerà queste memorie è pregato a considerare, che le visite fatte in mare non sono come una gita in villeggiatura ove potete fermarvi una settimana e anche due. Ne piacea bensì l’aiutare que’ poveri sfortunati, ma non ce la sentivamo d’indugiare per essi. Certamente quel comandante avrebbe desiderato che veleggiassimo di conserva con lui per alcuni giorni; ma le nostre vele non s’affacevano a stare al passo con un vascello disalberato. Ciò non ostante il comandante avendone chiesta assistenza nel rimettere un albero di maestra e una specie d’albero di gabbia in vece di quel di fortuna sostituito all’altro, di cui li privò la burrasca, consentimmo a rimanere con lui altri tre o quattro giorni. Indi, cedutigli cinque barili di manzo salato, uno di carne di maiale, due botti di biscotto ed una certa quantità di legumi, di fior di farina e quante altre cose potemmo disporre per essi, poi ricevute in contraccambio tre botti di zucchero, alquanto rum ed alcune quadruple ci separammo. Soltanto prendemmo a bordo con noi dietro le vivissime istanze che ce ne fecero, il figlio della morta signora, la cameriera e le cose che a questi spettavano.

Questo nostro nuovo compagno di viaggio avea diciassette anni all’incirca, amabile giovinetto, ottimamente educato, pieno di cuore e oltre ogni dire addolorato per la perdita della madre: pochi mesi prima, a quanto sembrò, eragli morto il padre alla Barbada. Egli avea pregato il chirurgo di parlarmi, affinchè lo levassi da quel bastimento, di mezzo a quei cialtroni, si esprimeva così, che gli avevano ammazzata la madre. Se vogliamo, erano essi che l’avevano uccisa, indirettamente intendiamoci. Certo potevano fare alcuni risparmi su la parte del sostentamento d’ognuno per non lasciar morire di stento quella povera vedova derelitta, nè avrebbero fatto niente più che compiere un dovere di umanità e di giustizia, serbandola in vita; ma la fame non conosce nè amici nè parenti, non giustizia, non diritto, ed è per conseguenza priva di carità e di rimorsi.

Il chirurgo gli mostrò come noi fossimo per imprendere un lungo viaggio e come il venire con noi lo allontanerebbe da tutti i suoi amici, e potrebbe forse metterlo in condizioni non men disastrose di quelle in cui lo trovammo, cioè di morire di fame in terra straniera.

— «Non penso al luogo dove andrò, rispondeva il giovinetto, purchè io sia liberato da questa tremenda canaglia in mezzo alla quale mi trovo. Il vostro capitano (e qui egli intendeva parlare di me, perchè quanto a mio nipote non lo conoscea punto) mi ha salvata la vita; figuratevi se vorrà mai il mio male! Quella giovinetta son sicuro che, se ricupererà i suoi sensi, troverete in lei una buona creatura e non ingrata alle carità che le avrete fatte. Deh! prendetene con voi, e conduceteci dove volete.»

Il chirurgo mi rappresentò il caso in una maniera si commovente, che non seppi dire di no. Li prendemmo dunque a bordo con le cose loro, eccetto undici botti di zucchero che non potevano essere spostate di dov’erano. Ma, poichè il giovine avea per esse una polizza di carico, feci che il comandante la firmasse, obbligandosi, appena arrivato a Bristol, di cercare certo signor Roggers negoziante di quella città, e d’inviargli una lettera che scrissi io unitamente alle indicate mercanzie appartenenti alla vedova morta. Suppongo che niuna di tali cose sia stata eseguita, perchè non ho mai più saputo che quel bastimento sia giunto a Bristol, e probabilissimamente avrà fatto naufragio. Era sì mal in essere quando ci separammo e sì lontano da ogni terra, che credo bastasse la menoma mezza burrasca a farlo affondare. Faceva acqua e stava male di stiva, fin da quando lo incontrai.

  1. Andare all’orza resa col vento significa dirigere con ogni possibile esattezza il vascello verso il punto d’origine del vento che spira.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.