< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Digressione su gli Spagnuoli
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Digressione su gli Spagnuoli.



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opo avere così offerto un racconto su le cose della colonia in generale e alcun che di più speciale su i miei cinque rompicolli inglesi, gli è giusto ch’io dica pure qualche cosa su gli Spagnuoli, che formavano il corpo principale dell’intera famiglia e la storia de’ quali non è priva d’incidenti piuttosto notabili.

Ebbi lunghi discorsi con essi su i particolari, che loro occorsero quando vissero fra i selvaggi. Mi confessarono ingenuamente che non aveano grandi cose a dire su l’industria o saggezza con cui si contennero durante quel tempo: essersi veduti in tale stato di miseria, di abbandono e abbiezione che, quando anche vi fossero stati mezzi per loro di liberarsene, si erano abbandonati in preda alla disperazione, si sentivano acciaccati al segno di non sapersi immaginare miglior fine del morire di fame.

Un di loro, uom grave e giudizioso, mi disse che, in sua sentenza, avevano avuto gran torto nel darsi per perduti in tal modo; che gli uomini di proposito non devono mai darla vinta così alla sciagura, ma sempre appigliarsi a que’ soccorsi che somministra la ragione, sia per sopportare i mali presenti, sia per pensare ad uno scampo avvenire. «Non v’ha nel mondo, egli mi dicea, più stolto affanno di quello che portandosi soltanto su le cose passate, impossibili ad essere mutate da quelle che furono e, generalmente parlando, irreparabili, non si riferisce piuttosto all’avvenire, e che, senza pensare possibili combinazioni di un futuro scampo, accresce l’afflizione anzichè porgere rimedio valevole a dissiparla.» Intorno a che egli citò un adagio spagnuolo che ho tradotto così in altra lingua: Nella tribolazione il tribolarsi è doppia tribolazione.

Ad appoggio del suo dire trasse a mano i piccioli miglioramenti di condizione che io mi area procurati nella mia solitudine; la mia indefessa solerzia, così egli la chiamava; solerzia, la cui mercè, in condizioni assai peggiori in principio delle loro, resi la mia sorte mille volte più felice che nol fosse la loro anche adesso trovandosi tutti insieme. Qui fece un elogio agl’Inglesi, che secondo lui, in mezzo alle disgrazie si perdeano meno di coraggio d’ogn’altra nazione con cui s’era incontrato. «I miei sfortunati concittadini, indi soggiunse, e i Portoghesi son la gente del mondo men fatta per lottare con la sventura; il loro primo passo, quando i comuni sforzi per allontanarla tornano vani, è mettersi disperati, soggiacere sotto di essa, e morire senza avere sollevati una volta i loro pensieri alla ricerca della via per liberarsene.

Non mancai di rispondere che il caso mio era infinitamente diverso dal loro; ch’essi erano stati gettati in una spiaggia ove mancavano di tutte le cose di prima necessità e affatto di sostentamento.

— «È vero, dissi, che aveva lo svantaggio e lo sconforto di trovarmi solo; ma i soccorsi mandatimi dalla Provvidenza, quando inaspettamente gli avanzi del bastimento naufragato furono gittati dal mare alla spiaggia, furono tali che avrebbero incoraggiata qualunque creatura del mondo a profittarne siccome io feci.

— Signore, mi rispose lo Spagnuolo, se noi poveri Spagnuoli fossimo stati nel caso vostro, non ci avremmo procacciati da quel bastimento la metà delle cose che ne traeste voi; anzi non avremmo mai avuto il giudizio d’improvvisare una zattera per trasportarle o l’abilità di condurla alla spiaggia senza aiuto di vela; molto meno poi avremmo fatto se ognuno di noi si fosse trovato solo.

— Sia; ma fatemi grazia di troncare il vostro complimento e di raccontarmi la vostra storia dopo che arrivaste alla spiaggia ove prendeste terra.

— Eh! signore, sbarcammo in un paese abitato da una popolazione priva di provvigioni per sè medesima. E sì, se i nostri avessero avuto tanto ingegno di rimettersi in mare, avremmo trovata un’isola un po’ più lontana, ricca di viveri e priva d’abitanti: la cosa era propriamente, come vi dico; perchè gli Spagnuoli della Trinità, avendo avuto frequenti occasioni di sbarcarvi, l’avevano empiuta per più riprese di capre e di porci, che si moltiplicarono sterminatamente, oltrechè vi era abbondanza d’uccelli acquatici. Vedete che non saremmo mancati di carne, di pane sì; ma dove ci fermammo non avevamo nè una cosa nè l’altra; in vece di pane dovevamo contentarci di poche erbe e radici, delle quali non sappiamo nemmeno il nome, cibi di niuna sostanza, e che gli abitanti ne somministravano anche con molta parsimonia. Già non ci poteano dare di meglio, semprechè non ci fossimo buttati cannibali e acconci a mangiar carne umana, che è la pietanza favorita di quel paese.»

Qui mi raccontò di quante fatte ne avessero tentate per instillare qualche principio di civiltà ai selvaggi co’ quali vivevano, e invogliarli ad abitudini più ragionevoli nel loro modo di vivere, ma tutto invano.

— «Anzi coloro, così lo Spagnuolo, ci rimproveravano questa cosa come una colpa. Tocca bene a voi, ci faceano capire, che venite qui implorando assistenza, a dare istruzioni a quelli che vi nutriscono. Secondo essi non r’era chi potesse ammaestrare quegli uomini senza dei quali non può vivere.

Mi narrò in appresso le amare estremità cui si videro ridotti: nient’altro che quella di star talvolta più giorni senza mangiare del tutto; perchè quell’isola era abitata dai selvaggi più indolenti della loro razza e per conseguenza, come era naturale il credere, men provveduti delle cose necessarie alla vita di quanto fossero altri selvaggi che vivevano in paesi posti sotto il medesimo clima. Notò per altro essere i primi molto men voraci ed ingordi di quelli che aveano maggior copia di viveri a loro disposizione.

— «Noi ciò non ostante, continuò lo Spagnuolo, non potemmo riguardare che una manifesta prova della bontà e saggezza di quella provvidenza che governa le cose di questo mondo, nel non esserci lasciati indurre da que’ patimenti e dall’orribile sterilità della contrada a cercar luogo ove vivere meglio. Ci saremmo tolti fuor di mano al soccorso che ci venne da voi. Ma ne abbiamo sofferte di quelle! Basta vi dica che gl’isolani co’ quali vivevamo, ci pretendevano ausiliari nelle loro guerre. Pazienza, se avendo, come ne avevamo, armi da fuoco con noi, non ci fosse occorsa la disgrazia di perdere tutte le nostre munizioni! Avremmo potuto non solo essere utili ai nostri ospiti, ma far paura a loro e ai loro nemici in una volta. Così costretti senza polvere nè palle ad andare alla guerra con que’ nostri amabili feudatari, eravamo in peggiore condizione di essi, perchè non avevamo, come loro, archi, dardi, nè di quelli che ci avessero dati avremmo saputo servirci. Non potevamo dunque far altro, che star quieti alla pioggia delle frecce del nemico, sintantochè gli fossimo faccia a faccia; che qualche volta gli abbiamo condotto tutto il nostro piccolo esercito in fronte, e ci siamo ingegnati danneggiarlo con le alabarde e le baionette degli schioppi; ma con tutto ciò, investiti dal numero, eravamo sempre in pericolo di restar morti sotto le frecce indiane. Trovammo per ultimo l’espediente di fabbricarci grandi scudi di legno da noi coperti con pelli di bestie selvagge, che non sapevamo nemmeno come si chiamassero. Così almeno ci difendevamo dalle loro armi da lancio. Ma con tutto ciò correvamo sempre de’ grossi rischi, nè fu una bagattella quando cinque di noi furono stramazzati dai colpi delle loro clave.»

Alludeva qui alla battaglia in cui fu fatto prigioniero lo Spagnuolo che salvai, come sapete, dall’essere divorato nella mia isola. Alla prima credettero che fosse stato ucciso; ma poichè in appresso lo seppero prigioniero, ne provarono un inesprimibile cordoglio, e avrebbero di buon grado rischiate le loro vile per riscattarlo dal divenir pasto de’ barbari.

Stramazzati così i cinque, gli altri, come mi dissero gli Spagnuoli, corsero a proteggerli co’ loro corpi, combattendo finchè si fossero riavuti tutti, eccetto quello che credevano morto, e che rimase poi prigioniero. Allora serratisi in linea con le alabarde e le baionette in canna, si apersero via per traverso ad un esercito di mille e più selvaggi; e, atterrando tutto quanto impacciava ad essi la strada, riportarono vittoria su l’inimico, ma con grande loro rammarico, perchè fu a costo della perdita del loro compagno che i selvaggi, scoprendolo vivo, si trasportarono via con altri, come già narrai.

Con qual energia d’affetto mi descrissero la sorpresa di gioia da essi provata al ritorno del loro amico e compagno di sventure che pensavano divorato da fiere della peggior razza: dai selvaggi! Quanto più grande in essi fu lo stupore al racconto che fece loro della sua commissione, e al sapere che viveva un cristiano in terra ad essi vicina, e di più un cristiano che aveva abilità e buon volere di giovare alla loro liberazione!

Mi dissero come li facesse attoniti la vista dei sussidi che ad essi io aveva spediti e soprattutto la comparsa delle pagnotte, cosa che non aveano più veduta dopo il loro arrivo in quel paese della disperazione. Oh quante volte si fecero il segno della croce, e le benedissero come pane mandato dal cielo! Come si sentivano rinascere all’assaggiar queste pagnotte e gli altri cibi di cui per mio mezzo si videro provveduti! Dopo tutto ciò avrebbero voluto dirmi qualche cosa della gioia che gl’invase all’aspetto della barca e de’ piloti ancorati colà per trasportarli presso la persona e nel luogo donde lor venivano sì inaspettati conforti; ma qui le espressioni mancarono loro, perchè la natura di questa contentezza essendo stata tale, che li condusse pressochè ad impazzire, non trovavano termini proporzionati a descriverla per gli stravaganti effetti prodotti in loro da tal piena d’esultanza, che abbisognava di uno sfogo straordinario. — «Chi di noi, mi raccontavano, si trasse matto per qualche tempo; in chi la gioia prendeva un andamento, in chi l’altro; alcuni diedero in uno scoppio di lagrime, ad altri venne male, qualcheduno cadde come morto del tutto.»

Non so dirvi quanta impressione mi facesse questa particolarità che mi tornò a mente e l’estasi di Venerdì quando trovò suo padre, e quella di que’ poveri naviganti cui diedi ricovero quand’ebbero il lor vascello incendiato, e la gioia del capitano del bastimento quando per opera mia si vide tornato a vita e libertà nel deserto ove aspettavasi di morire, e la gioia di me medesimo allorchè, dopo ventotto anni di cattività, trovai un buon bastimento pronto per ricondurmi al mio paese nativo. Potete immaginarvi se tutti questi precedenti fatti non mi resero sempre più commosso al racconto di que’ poveri sventurati.

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