< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Provvidenze per la colonia e banchetto di perfetta riconciliazione
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Provvidenze per la colonia e banchetto di perfetta riconciliazione.



D
OPO aver dato questo specchio dello stato delle cose che trovai quivi, mi spetta ora di descrivere i principali provvedimenti che diedi per questi abitanti, e la condizione in cui li lasciai. Era loro opinione, ed anche mia, che per l’avvenire non sarebbero più stati inquietati dai selvaggi, e che, figurandosi anche il peggio, avrebbero potuto sterminarli se fossero venuti in forza doppia di quella de’ precedenti. Su tal punto adunque non c’era di che pigliarsi fastidio.

Entrai pertanto in un serio discorso con lo Spagnuolo da me denominato il governatore su quanto concernea la futura loro dimora nell’isola. Già io non mi era portato ivi con l’idea di condurre via di lì alcuno di essi, e quando lo avessi fatto per qualcheduno, sarebbe stata un’ingiustizia in verso degli altri, che forse l’avrebbero mal sentita di rimanere, allorchè la loro forza fosse diminuita. D’altra parte io dissi loro in chiari termini, che la mia intenzione era stata, non di levarli di lì, ma di migliorare la loro sorte, perchè vi si stabilissero: in prova di che raccontai ai medesimi come avessi trasportato con me diverse maniere di sussidi efficaci a farli star bene; essere io abbondantemente fornito di quanta sarebbe stato necessario così alla loro vita come alla loro difesa, ed avere in oltre condotte le tali e le tali persone con me per così far nuove reclute alla colonia e perchè fossero utili agl’indispensabili bisogni della colonia stessa, e, professando ciascuno di questi arti meccaniche, la mantenessero provveduta d’ogni cosa necessaria di cui avea mancata fin allora.

Mentre io parlava così, erano tutti convenuti intorno a me e Spagnuoli ed Inglesi, e prima di somministrare loro i sussidi che aveva portati meco, gl’interrogai uno per uno, affinchè mi dicessero se avevano affatto dimenticati e coperti, come si suol dire, d’una pietra sepolcrale i primi astii, e se si sarebbero toccati scambievolmente la mano e promessi a vicenda una stretta amicizia ed unione d’interessi, tanto che non nascessero più risse o malivoglienze fra loro.

Fu primo a rispondermi con esuberanza di lealtà e buon umore Guglielmo Atkins:

— «Abbiamo avuto tutti bastanti traversie per porre giudizio, e bastante numero di nemici dal di fuori per divenire tutti amici al di dentro. Dal canto mio starei a patto di vivere e morire con questi compagni. E son sì lontano dall’avere cattivi disegni verso gli Spagnuoli, che confesso non m’aver essi fatto nulla più di quanto il mio cattivo temperamento rendea necessario; io anzi ne’ panni loro avrei fatto peggio. Se volete (qui si volgeva a me) son pronto a chiederli di perdono pei tratti brutali e da vero matto che ho usato verso di essi, nè desidero meglio del vivere con loro ne’ termini di una piena amicizia e di fare tutto quanto dipende da me per convincerli di ciò. Pel tornare nell’Inghilterra non mi curo di rivederla da qui a venti anni.»

Gli Spagnuoli non si stettero dal dichiarare, che se alla prima disarmarono Guglielmo Atkins e i suoi due compagni, gli aveva astretti a ciò la strana loro condotta, come ne aveano già fatte le anticipate proteste che mi ricordarono in conferma della necessità che gli spinse.

— «Ma poichè, soggiugneano, Guglielmo Atkins si è comportato sì valorosamente nella grande battaglia che abbiamo sostenuta coi selvaggi ed in altre occasioni; poichè si è mostrato sì fedele e affezionato all’interesse comune di tutti noi, dimentichiamo ogni cosa passata, e giudichiamo che debba essere fornito d’armi e provveduto di quanto gli bisogna al pari di tutti noi.»

E dell’essere soddisfatti di lui gli diedero una evidente prova col conferirgli il comando in secondo dopo il governatore; anzi per dimostrare sempre più la confidenza che avevano presa in lui e nei suoi compagni, dichiararono aversela essi meritata per tutte quelle vie onde gli uomini d’onore s’acquistano la pubblica fede; accolsero indi di tutto cuore questa occasione per farmi certo che d’allora in poi non avrebbero mai avuti interessi separati gli uni dagli altri.

Dopo queste leali dichiarazioni, si convenne di autenticarle pranzando tutti in compagnia nel dì appresso, e fu veramente uno splendido banchetto. Feci venire su la spiaggia per apparecchiarlo il capo cuoco del nostro bastimento ed il suo aiutante, ai quali diede una mano il vecchio cuoco in secondo che, come sapete, avevamo nell’isola. Così pure ordinai si portassero a terra sei pezzi di manzo, quattro di porco salati tolti dalle nostre provvigioni marittime; ne trassi pure due vasi da punch con gl’ingredienti per farlo, oltre a dieci fiaschetti di claretto di Bordò ed altrettanti di birra inglese, Dopo queste leali dichiarazioni si convenne di autenticarle pranzando tutti in compagnia il dì appresso, e fu veramente uno splendido banchetto cose che i coloni spagnuoli ed inglesi non assaggiavano da tanti e tant’anni; onde non vi starò a dire se le aggradirono. Gli Spagnuoli aggiunsero del proprio cinque capretti che vennero arrostiti tutti interi, e tre de’ quali, mantenuti caldi con ogni cura, furono spediti ai marinai, affinchè essi godessero delle nostre vivande fresche a bordo, mentre noi in terra facevamo onore alle loro carni salate.

Dopo questo banchetto condito della più innocente gioia, trassi a mano la provvigione di merci che aveva portate meco, e affinchè non nascessero dispute fra i coloni nel ripartirsele, gli avvertii che ce n’era abbastanza per tutti, pregandoli quindi a fare parti eguali delle robe stesse, ben inteso dopo che fossero state poste in opera. Per prima cosa distribuii tanta tela, quanta bastava a fare per ognuno di loro quattro camicie, portate indi al numero di sei ad inchiesta degli Spagnuoli: conforti indicibili per quella povera gente che si era, per così dire, dimenticato dell’uso di questi arredi, e che non sapea più che cosa fosse portarne in dosso. Aggiunsi que’ leggieri tessuti inglesi, di cui v’ho parlato prima, perchè ognuno se ne facesse una specie di zimarra, vestimento che per la freschezza e scioltezza giudicai più confacevole al caldo del clima. Ordinai ad un tempo che quando quelle zimarre fossero fruste venissero rinnovate secondo il bisogno di chi le portava. Aggiunsi in proporzione calze, scarpe, cappelli e simili minute cose.

Non vi so descrivere la contentezza che si leggea su i volti di quelle creature, piene di gratitudine alla cura ch’io m’avea presa di loro e di gioia al vedersi così bene provvedute. Chiamatomi ad una voce il loro padre, soggiunsero che, essendo in sì rimota parte del mondo sicuri d’un corrispondente qual era io, non s’accorgerebbero più di vivere in un deserto, e tutti spontaneamente si obbligherebbero meco a non abbandonare mai l’isola senza il mio assenso.

Allora presentai loro gli artefici che avea condotti in mia compagnia, il sartore, il ferraio, i due carpentieri e specialmente quel mio ometto da tutti i mestieri, intorno al quale non potevano immaginarsi eglino stessi le cose in cui sarebbe stato ad essi utile il suo servigio.

Il sartore per dare una prova del suo amore per loro, si mise subito con mia licenza a tagliare la tela ch’io avea portata ed a fare una camicia ad ognuno: primo suo lavoro nell’isola e servigio anche più rilevante, perchè ammaestrò le donne a cucire, rattoppar panni, in somma a trattare l’ago, a che le facea star presenti mentre egli tagliava e cuciva le camicie de’ loro mariti e di tutti gli uomini della colonia.

Pei carpentieri ho poco bisogno di dire quanto giovassero. Il primo saggio che diedero di loro abilità a que’ riguardanti, fu mettere in mostra tutti gli sbozzi di lavoro di legname ch’io avea portati con me (robaccia informe di cui non avreste dato un quattrino) ingentilirli e in certa guisa animarli, conformandoli a tavole, tavolini, sgabelli, credenze, scaffali, tutte in fine quelle suppellettili di cui la colonia mancava.

Ma per mostrare ad essi come la natura faccia gli artefici da sè stessa, condussi i carpentieri alla casa fatta a paniere, com’io la chiamava, di Guglielmo Atkins, e confessarono entrambi di non aver mai veduto per l’addietro un simile esempio di naturale ingegno, nè una fabbrica nel suo genere sì regolare e disinvolta; onde un di loro, dopo averci pensato un pochino, mi si voltò additandomi l’edificatore della casa.

— «Quest’uomo non ba bisogno di noi: non avete a far altro che dargli stromenti».

Allora misi in vista tutto l’arsenale de’ miei stromenti, dando a ciascuno una zappa, una pala e un rastrello, perchè d’aratri o vomeri non ne avevamo, e in ciascuna divisione feci che si trovasse una vanga, un raffio, un’accetta e una sega, ordinando che qualunque volta questi arnesi si rompessero o logorassero ne fossero somministrati altri dal magazzino generale della colonia. Quanto poi a chiodi grandi e piccoli, arpioni, martelli, scarpelli, coltelli, forbici e simili lavori di ferro di cui potevano abbisognare, n’ebbero senza contarli finchè ne domandarono; chè già nessuno volea chiederne oltre al suo bisogno, e sarebbe stata una pazzia troppo assurda il volerli sprecare senza costrutto; per l’uso poi del ferraio lasciai una quantità di ferro non lavorato.

Il magazzino di polvere e l’armeria da me assicurata loro fu tale e sì profusa, che non dovettero se non allegrarsene. Basti il dire che d’allora in poi ognuno potè andare attorno, come faceva io, con un moschetto per ispalla, se ne veniva il bisogno; laonde si trovavano in istato di combattere con buon esito contro a mille selvaggi, ogni qual volta avessero il vantaggio della posizione, e questo vantaggio certo non se lo avrebbero lasciato sfuggire al bisogno.

Condussi meco a terra quel giovine la cui madre era morta di fame nel secondo degli sfortunati bastimenti da me incontrati nel viaggio, ed anche la cameriera. Era questa una giovine tanto saggia, ben allevata, piena di religione e fornita di sì dolci maniere, che ognuno le diceva una buona parola. Dovea, se si ha a dire la verità, essersela passata piuttosto male nel nostro bastimento, ove non c’erano altre donne fuor di lei; pure si rassegnò a tale molestia di buona grazia. Dopo essere rimasti ella e il suo giovine padrone alcun poco nella mia isola, e veduto come tutte le cose vi erano in buon ordine ed in istato di prosperare sempre di più, considerando in oltre che non avevano affari nelle Indie Orientali, nè un motivo che gli spingesse ad imprendere un sì lungo viaggio, mi chiesero di poter rimanere quivi e di essere ammessi a far parte, com’essi dicevano, della mia famiglia, alla quale domanda acconsentii immediatamente. Venne per conseguenza assegnato loro un pezzo di terra ov’ebbero tre tende lavorate a vimini siccome la stanza di Atkins, presso la quale vennero innalzate. Furono ideate in modo le predette tende che ciascuna delle laterali era la loro separata stanza da letto, quella di mezzo una specie di guardaroba per riporvi le cose di ciascun d’essi e nella quale l’uno e l’altra convenivano pe’ giornalieri lor pasti.

Quivi trasferirono le loro dimore anche gli altri due Inglesi, con che la mia isola venne ad essere composta di due colonie e nulla più: quella cioè degli Spagnuoli che col vecchio Venerdì e co’ primi tre servi dimoravano nella mia fortezza protetta dal monte, sarebbesi detta la metropoli: quivi avevano estesi ed ampliati tanto i loro lavori, così nell’interno come al di fuori, che, se bene rimanessero celati ad ogni sguardo, vivevano assai al largo. Non si è mai dato l’esempio di una tal piccola città in mezzo ai boschi, tanto recondita che mille uomini, lo credo fermamente, avrebbero dovuto durarla un mese girando l’isola, e (semprechè non fossero stati avvertiti d’un tal nascondiglio, o non lo avessero cercato con deliberato proposito) non sarebbero giunti a scoprirlo. Gli alberi, già ve l’ho raccontato, erano sì folti, piantati in tanta vicinanza l’uno dell’altro, sì presti nel crescere, s’intrecciavano tanto fra loro, che sarebbe bisognato atterrarli per accorgersi dell’abitazione cui faceano riparo; chè quanto ai due angusti ingressi per cui si perveniva nell’interno, non era sì facile l’indovinarli. Un di essi era su l’orlo dell’acqua dal lato della piccola darsena, e lontano più di duecento braccia dal luogo, l’altro conveniva superarlo in due tempi con una scala a mano, come ho già detto più volte. Notate di più che sul monte ove si poteva aver questo ingresso, era stata piantata, anche lì, una foltissima selva (larga più d’una bifolca) d’alberi, chè v’è noto come crescessero rapidamente e s’intrecciassero insieme; e l’unico passaggio donde si potesse pervenire al sito ove si potea porre la scala, era un impercettibile vano fra due di questi alberi.

L’altra colonia era quella di Guglielmo Atkins, or composta di quattro famiglie d’Inglesi (cinque con la vedova di quello che morì in guerra) e de’ loro figli e delle donne loro, dal giovine venuto con me e della cameriera, alla quale fu dato marito prima che io partissi dall’isola. Aggiugnete i due carpentieri, il sartore e il ferraio, tutti utilissimi alla colonia, ma quest’ultimo più necessario di tutti, come armaiuolo per tener cura de’ moschetti, fondamento principale della comune sicurezza. Non ci scordiamo per ultimo il mio famoso fa tutto, che contava, egli solo, per venti uomini, a tanti mestieri era adatto, e che oltre all’essere pieno d’ingegno rallegrava ognuno con la sua giocondità. Prima ch’io abbandonassi l’isola, gli demmo per moglie la giovane di cui si è fatta menzione poc’anzi.

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