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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Sbarco; spedizione di nuovi coloni e sussidi all’isola; partenza dal porto di Tutti i Santi.
Non mai vascello approdato a questo porto ebbe minori negozi di quelli che ne aveva io; e ciò non ostante ci furono mille difficoltà da superare prima d’avere la menoma comunicazione con gli abitanti di terra. Nè il mio vecchio socio che vivea tuttavia, e faceva grande figura in paese, nè le due famiglie de’ miei fidecommissari, nè la ricordanza del miracoloso mio salvamento nell’isola valsero ad ottenermi ciò. Solamente il mio antico socio, ricordatosi ch’io avea regalati cinquecento moidori al priore del convento di Sant’Agostino e duecento settantadue ai poveri, si recò a quel monastero ove pregò il priore d’allora a cercar d’ottenere dal governatore una licenza personale. Fu di fatto conceduta a me, al capitano e ad un altro, oltre ad otto marinai, la permissione di sbarcare, ma sotto patto di non portare con noi veruna sorta di merci per farne traffico con gli abitanti dell’interno, nè di condurre in nostra compagnia persona non munita di tale licenza.
La proibizione di sbarcare mercanzie era sì stretta, che incontrai difficoltà estreme per mettere a terra tre balle di merci inglesi, presente ch’io avea destinato al mio vecchio socio: consisteano queste in pezze di panno sopraffino, trine di Fiandra e tele d’Olanda.
Era un uomo generoso e di cuore aperto questo antico mio socio, benchè, come me, egli avesse principiato dall’esser povero; laonde, se bene non avesse sospettata menomamente la mia intenzione di fargli un donativo, m’avea spedito a bordo un presente di provvigioni fresche, vino e canditi per un valore circa di trenta moidori, oltre ad una certa quantità di tabacco e tre o quattro medaglie di fino oro; ma gli stetti a livello col mio dono che già vi ho descritto. Gli regalai in oltre merci della stessa natura delle prime, che saranno costate cento sterlini, per altri usi; dopo di che mi feci a pregarlo della sua assistenza nel far assestare la scialuppa che, come sapete, aveva portata meco dall’Inghilterra, e dentro la quale io contava spedire sussidî alla mia colonia.
Compiacentissimo ai miei desiderî, chiamò operai, e la scialuppa fu all’ordine in pochissimi giorni. Già i pezzi, come narrai, erano tutti fabbricati, nè si trattava più che di commetterli. A chi dovea governarla diedi le istruzioni opportune affinchè trovasse l’isola, e la trovò in fatti come seppi da poi dal suddetto mio socio.
Mentre faceva caricarla delle provvigioni promesse ai coloni, un de’ nostri marinai mi chiese la licenza di partire entro essa e stabilirsi nell’isola, mediante una mia lettera al governatore spagnuolo, affinchè gli assegnasse un sufficiente spazio di terreno per avviare una piantagione, e lo fornisse d’alcuni vestiti e stromenti atti all’uopo; nel che diceva d’intendersene per essere già stato piantatore nel Meryland e avvezzo nelle sue corse ad aver che fare coi selvaggi. Incoraggiai quel povero diavolo col condiscendere alle sue brame, raccomandandolo al governatore spagnuolo, perchè lo mettesse a pari condizione degli altri isolani nel fornirlo delle cose necessarie al lavoro e alla vita; anzi gli diedi in compagnia, come suo servo, quel selvaggio che avevamo fatto ultimamente prigioniero di guerra.
Mentre stavamo mettendo all’ordine la scialuppa, il mio vecchio socio mi narrò di un piantatore del Brasile di sua conoscenza che era caduto in disgrazia della chiesa.
— «Non ne so, mi disse, il motivo, ma in mia coscienza l’ho per un eretico marcio, tanto è vero che si tiene nascosto per paura dell’inquisizione; nondimeno il poveretto ha moglie e due figlie, onde sarei ben contento se potessi valermi di questa opportunità per farlo fuggire, semprechè gli voleste permettere di giovarsene col fargli assegnare uno spazio di terreno nella vostra isola. Dal canto mio gli darei qualche cosa per cominciare, giacchè i famigli dell’inquisizione non gli hanno lasciato altro che poche misere masserizie di casa e due schiavi; e, se bene detesti i suoi principî, non mi piacerebbe nemmeno vederlo caduto in quelle mani, e per infallibile conseguenza bruciato vivo.»
Prestatomi tosto alla sua brama, unii al mio marinaio inglese quest’infelice, e posi in sicuro lui, sua moglie e le sue figlie a bordo del nostro bastimento, tanto che la scialuppa fosse stata lesta per mettersi in mare. Nello stesso tempo furono portate a bordo le cose sue che vennero trasferite nella stessa scialuppa, quando fu fuor della baia.
Il nostro marinaio ebbe gran gusto di avere questo compagno. In fatti s’accordavano bene insieme: ugualmente provveduti di attrezzi e di capitali, ma niente di più che per cominciare, come ho già detto. Nondimeno portarono seco, e ciò valea più di tutto, alcune canne di zucchero e il bisognevole per avviarne una piantagione: genere di coltivamento che l’un d’essi, cioè il Portoghese, conosceva perfettamente.
Fra i sussidî caricati nella scialuppa pei coloni, vi erano tre vacche lattanti e cinque vitelli, ventidue porci, tre troie pregne, due cavalle ed uno stallone. Secondo la promessa datane agli Spagnuoli indussi tre donne portoghesi a far parte della carovana, raccomandando al governatore, che venissero ben trattate e si desse loro un marito. Avrei potuto procurarne di più, ma pensai che il povero profugo avea due figlie, e d’altronde gli Spagnuoli privi di moglie non erano più di cinque; tutti gli altri aveano le mogli, benchè in diverso paese.
Tutto questo carico arrivò salvo nell’isola, e fu, come potete credere, ben accetto ai miei antichi abitanti che, con tal nuova giunta, erano cresciuti al numero di sessantasei o settanta, senza contare i fanciulli di cui c’era abbondanza. Tornato in Inghilterra ricevei per la via di Lisbona lettere da tutti, e m’affretto, non senza ragione, a farne adesso la ricevuta.
Mi congedo ora dalla mia isola e d’ogni sorta di discorsi che la riguardino; onde chi legge questa nuova parte delle mie memorie farà bene se ne distoglierà affatto il pensiere, apparecchiandosi piuttosto a leggere le follie d’un vecchio non istrutto dalle sue disgrazie, e molto meno da quelle degli altri, a mettersi in caso che non gliene avvenissero più; d’un vecchio cui quarant’anni di calamità e di miserie non bastarono per fargli metter senno; d’un vecchio che non saziarono le prosperità venutegli fuori d’ogni espettazione, come nol fece saggio una serie di sciagure senza esempio.
Aveva tanta ragione io di cercare le Indie orientali, quanta ne ha un uomo che goda la piena sua libertà di andare alle prigioni di Newgate e pregare il carceriere che lo chiuda in compagnia degli altri prigionieri, e lo faccia stentare di fame lì dentro. Se mi fossi provveduto, partendo dall’Inghilterra, d’un piccolo vascello per andarmene dirittamente alla mia isola; se, come feci col vascello di mio nipote, lo avessi caricato di quanto poteva essere necessario a quella colonia e a quegli abitanti; se mi avessi procurata una patente dal mio governo per assicurarmi una proprietà sotto la sola protezione dell’Inghilterra; se vi avessi portato e munizioni e cannoni, condotta con me una carovana d’uomini e di servi; se me ne fossi impossessato, fortificandola, a nome della Gran Brettagna e rendendola più popolosa, come non mi sarebbe stato difficile; se stabilitomi quivi, avessi spedito indietro il bastimento carico di riso, e a ciò bastavano sei mesi di tempo, e commesso ai miei corrispondenti il ritorno del bastimento stesso fornito di nuove provvigioni inglesi; se avessi fatte tutte queste cose senza andare più in là, sarebbe stato operare almeno col senso comune. Ma l’amore del vagare si era tanto incarnato in me, che tutti questi vantaggi io li contava per nulla. Ebbi bensì la vanità di essere il protettore della popolazione che aveva collocato colà, di comportarmi con essa in certa guisa alta e maestosa come un antico patriarcale monarca, di provvederne ai bisogni, come se fossi stato il padre dell’intera famiglia e il signore della piantagione; ma non mi venne in mente nè poco nè assai di porre ivi un governo in nome di qualsiasi regno o nazione, o di riconoscere un principe o di mettere il paese sotto la sovranità di un re più che d’un altro. Anzi non pensai tampoco a dar un nome a quella terra: la lasciai tal quale l’aveva trovata, pertinenza di nessuno, e quel popolo indipendente da qualunque suggezione o disciplina fuor quella di me. Ed io ancora, benchè avessi su quella gente la preponderanza di un padre e di un benefattore, non aveva autorità o potere di decidere o di comandare più in là delle cose, alle quali il buon volere di quella comunità acconsentiva. Pure anche entro questi limiti, se ci fossi stato, la cosa poteva correre. Ma no, che non feci così. Andato a vagare lontano da quei poveretti, non tornai più a vederli; le ultime notizie che ebbi di loro mi vennero col mezzo del mio antico socio che mi scrisse (benchè la sua lettera la ricevessi soltanto a Londra molti anni dopo da che fu spedita), mi scrisse come avesse mandata un’altra scialuppa all’isola; e mi scrisse pure che quei miei coloni se la passavano assai male, e che erano grandemente stanchi di restar lì confinati; che Guglielmo Atkins era morto; che cinque Spagnuoli avevano abbandonata l’isola, che, se bene non fossero noiati gran che dai selvaggi, pure avevano avute con costoro diverse scaramucce; che per ultimo mi ricordavano fervidamente la mia promessa di levarli di lì, e di fare in modo che rivedessero prima di morire la patria loro.
Ma io andava propriamente a caccia della fenice! Chi desidera sapere altre cose di me, si contenti seguirmi in una nuova varietà di follie, amarezze e stravaganti avventure, di mezzo alle quali nondimeno può scorgersi pienamente la giustizia della providenza; può scorgersi come il cielo possa, satollando la nostra insaziabilità, far sì che le cose da noi più sospirate divengano la nostra tribolazione, e convertire in arma di castigo tutto quanto pensavamo dovesse divenirne sorgente di massima felicità.
*1Alludo, così parlando, alla bramosia ardente che aveva fin da giovinetto di vagare pel mondo. Come fu evidente sino d’allora che tal furore dovea perpetuarsi in me per mio castigo! In qual modo poi, per quali casi ciò si avverasse, qual ne fosse la conclusione, è cosa facile a descriversi con tutte le particolarità che le vanno congiunte; ma i fini segreti della providenza, allorchè permette che siamo così precipitati nel torrente de’ nostri smodati desiderî, possono soltanto essere compresi da chi sa prestar l’orecchio alle voci di questa providenza e dedurne religiose conseguenze su la giustizia di Dio e i propri errori.
* Badi l’uom saggio a non fidarsi tanto nella forza del suo ingegno ch’egli si creda capace di scegliere di sua testa la condizione propria di vita. L’uomo è una creatura di vista corta che non vede molto lontano dinanzi a sè, e poichè le sue inclinazioni particolari e passioni non sono i migliori suoi amici, divengono queste spesse volte i suoi più fatali consiglieri.
Ch’io avessi affari o no nell’Indie Orientali, il viaggio lo impresi. Non è tempo ora di far comenti su la ragionevolezza o la pazzia della mia condotta, ma di progredire nella mia storia. Io m’era imbarcato per questo viaggio, e questo viaggio voleva effettuarlo.
Aggiugnerò soltanto una parola o due sul mio onesto prete papista. Comunque possa essere poco caritatevole l’opinione che i Cattolici romani hanno di noi, e in generale di tutti gli eretici, chè con tal predicato i Cattolici romani ne chiamano, io credo veramente che quest’uomo fosse un vero Cristiano, pieno di zelo e d’amore per tutti i suoi simili; rispettoso al segno che non gli udii quasi mai invocare alcuno de’ santi della sua chiesa, tanta era la paura in lui di ferirmi a puro scapito nelle mie religiose opinioni. Del rimanente io non ho mai avuto il menomo dubbio su la sincerità e pia rettitudine delle sue intenzioni. Sono anzi fermamente persuaso che, se tutti gli altri missionari della chiesa romana in ciò lo imitassero, li vedremmo visitare anche i poveri barbari della Tartaria e della Lapponia, fra i quali non possono sperare verun profitto temporale, in vece di cercare soltanto avidamente le più ubertose contrade pagane come la Persia, l’India, la China, che lor promettono più ampia messe terrena. Se così non fosse non dovremmo fare le meraviglie che sieno persino arrivati ad introdurre fra i santi del calendario romano il chinese Confucio.2
Ma ciò in via di parentesi.
Occorsagli l’opportunità di un bastimento che salpava per Lisbona, il mio buon ecclesiastico s’accommiatò da me.
— «Già il mio destino, egli disse, è quello di non finire mai nessuno dei viaggi ch’io intraprenda.»
Qual fortuna sarebbe stata la mia, se me ne fossi andato con lui; ma era troppo tardi a quell’ora. Il cielo dispone tutte le cose per il meglio. Se fossi partito in sua compagnia non avrei avuto tanti motivi di ringraziare la divina bontà, nè il lettore avrebbe mai udita quest’ultima parte dei viaggi, e delle avventure di Robinson Crusoe. Qui dunque cesso dal fare esclamazioni su me medesimo, e ripiglio il filo della mia storia.
- ↑ Il testo inglese di questo e del successivo paragrafo notati con asterisco si trova in alcune edizioni e in altre no; ond’è che alcuni traduttori, tra i quali la signora Tastu, ne hanno omessa la versione giudicandoli, a quanto sembra, paragrafi intrusi. Non vedendo ch’essi turbino in nulla l’ordine logico della storia, e che nemmeno sieno fuor di luogo o incoerenti con le massime spiegate dall’autore, gli ho posti limitandomi alla presente nota di schiarimento.
- ↑ Non v’è Cattolico romano, e credo anche non romano, il quale non sappia esser questa una solennissima menzogna che qualche nemico della chiesa romana avrà data ad intendere all’autor protestante. Può darsi che qualche missionario, o ignorante o prevaricatore (perchè l’uomo è sempre uomo) sia caduto in una tanto assurda goffaggine, e può anche darsi, che nel cercare di diffondere la fede tra i barbari, abbia consultati bassi interessi personali a preferenza di quelli della sua religiosa missione; ma non si dirà, nè sarà mai stato detto che chi si fosse comportato in tal guisa operasse secondo il vero spirito della chiesa e non fosse stato anzi disapprovato.