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DUE PASSEGGI.
Io passeggiava, giorni sono, la piazza di s. Marco, della quale potrebbe benissimo dirsi, come fu detto del cortile del palazzo ducale, bellissima sala senza soffitto. Sarebbe una di quelle frasi che si usano frequentemente dagli odierni scrittori, e (sebbene pronunziata da una femminetta dell’ultima plebe) non indegna di essere allogala nelle prime pagine di qualche novella, ove sembrano inevitabili le descrizioni. Passeggiava dunque la piazza di s. Marco, un’ora forse innanzi il tramonto, e, guardando intorno e all’insù, con quella inavvertita mobilità di pensieri, ch’è molto prossima a ciò che dai Francesi chiamasi flanerie, ed io non saprei tradurre senza un po’ di stiracchiatura di frase, sembravami che le fabbriche tutte si fossero di molto rappicciolite da quello mi apparivano quand’era fanciullo. Ciò mi fece pensare e ritorcermi colla memoria a quel tempo, nel quale io vedeva venirmi addosso la notte con mille paure, e quando trovavami avvolto in qualche gran moltitudine di persone non poteva a meno di ricorrere coll’immaginazione al giudizio universale.
E perchè adesso queste fabbriche così picciole? Perchè allora sì grandi? La risposta mi veniva semplicissima: perchè allora assai piccioli i miei pensieri, rispetto a quello che sono presentemente. Ma sarebbe risposta del mio amor proprio, o della ragione? Vediamo. L’ignoranza, nè più nè meno dell’oscurità, ingigantisce gli oggetti, facendone sparire i contorni. Quello che danno gli oggetti esteriori al nostro intelletto egli è poco in confronto di quanto essi da noi ricevono; e sebbene, come dicono le scuole, nulla penetri all’intelletto salvo per l’organo dei sensi, le impressioni sensibili rimangono per guisa modificate nel laboratorio interiore, da potersi questo paragonare alla terra nell’accogliere ch’essa fa i germi minuti di tutte le piante, allargandoli e sviluppandoli poscia in tanta e sì ampia ricchezza di vegetazione.
Così degli oggetti materiali come delle cognizioni che acquistiamo per via degli studii. Qual differenza dal leggere una storia a diciott’anni, e leggerla a trenta! I fatti che ci tocca di leggere al nostro primo tempo si stampano nella nostra memoria, circondati di non so quale aureola che ce li fa sembrare maravigliosi, e assai minima cosa sono nel nostro concetto le segrete mene della politica, paragonate alle palesi lotte dei popoli sul campo di battaglia. Forse è questo il motivo per cui, nell’educazione de’ giovani, alle storie dell’età moderne, vengono anteposte le antiche.
Ma rimarranno immutabili, dissi fra me, il cielo almeno ed il mare; e parevami che, levando l’occhio all’azzurro coperchio del mondo, o girandolo allo strato azzurro onde il mondo è fasciato, avessi a scontrarmi, senza più, nelle sensazioni da me provate negli anni della mia fanciullezza. Io lo aveva ritratto nell’anima quel cielo al quale ho tante volte mirato con una curiosità malinconica, prima che l’infelice esperienza della vita mi avesse insegnato a cercare in esso emblemi e conforti alle mie passioni, e fossi venuto a colloquio con quelli. E il mare? Come potrei dimenticare quelle onde lunghe e spumose che veniano ruggendo a fiaccarsi sopra il lido, ma prima battevano morbide e fredde al mio petto?
Io guardai dunque il cielo dapprima, guardai poscia il mare: ma che? cielo e mare erano anch’essi cangiati. Mi ricordai di quegli anni ne’ quali il cielo mi pareva molto più basso, e il mare assai meno vasto. E perchè cielo e mare non dovevano subire col tempo quel cangiamento, nel concetto che di essi formavasi la mia anima, quale avevano subito gli altri oggetti che mi sorgevano incontro e dintorno? L’immensità del cielo e del mare è effettiva, e il ragionamento dona ad essi tutta quella grandezza e solennità, onde sono privati i meschini lavori dell’uomo.
Oltre che cielo e mare non sono circoscritti, intorniati, riguardo almeno ai nostri occhi, da questi stessi edifizii? Vorreste dire essere il medesimo cielo che vi si mostra guardato tra la spessezza dei rami di un bosco, e questo che vedete interrotto dalle cupole della basilica, e dai merli puntuti del palagio ducale? È egli lo stesso quel mare che si spezza per entro gli scaglioni a parecchi piani, che la veneta industria gli oppose, e quello che viene a rispianarsi spandendosi sulle alte sabbie? Il colore del cielo e del mare è pur sempre azzurro; di quello sempre maestosa la calma, di questo sempre tonante la voce; colà nubi e pianeti, qui spume e conchiglie. Ma in onta ad un’apparente rassomiglianza, quante diversità, quante mutazioni nell’uno e nell’altro!
Quando cangiano siffattamente gli oggetti materiali a’ miei occhi, che dovrò dire degl’immateriali rispetto alla mia mente? Io che mi vo lamentando della incostanza degli uomini, sarebbe questa colpa mia, anzichè d’altri? o, a meglio dire, non saremmo tutti egualmente colpevoli? Non ci mostreremmo in ciò ligi alle leggi universali della natura, ove nulla rimane lungamente nello stato medesimo, ma tutto si volve e rimuta dalle primitive sembianze? Il mio pensiero fu anch’esso non più che germe, sbucciò, e, secondo gli avvenne trovar benigne le condizioni del terreno e dell’aria, si aperse nelle sue foglie, mise il fiore, maturò il frutto. Qual frutto, e di qual sapore, a me non sta giudicarne.
E tornai a guardare que’ palagi distesi in due lunghe ale, e rivoltomi ad altra parte, la basilica augusta, e la torre sospinta coll'angelo d’oro negli ultimi cieli; e, alquanto da lato e più lunge, la mole, che fu principesca, sorretta da tonde e massicce colonne, e chiusa di pareti bianche e rossastre, colle sue balaustrate, co’ suoi ampii veroni, colle sue finestre. E tutto questo che diceva al mio cuore? Presso a poco ciò stesso che le roveri annose della foresta, ove passai alcun anno infantile, quando io vedeva trasparire, or non ha più che alquanti mesi, la luna fra i rami, e sentiva l’aride foglie (era d’autunno) stridere sotto a’ miei piedi, che le polverizzavano.
Dovetti allora sclamare: la diversità degli aspetti che assumono gli oggetti esteriori al nostro sguardo non potrebbe esserne guida a rientrare in noi stessi, a far ragione de’ mutamenti accaduti nella nostra anima? Questi frequenti termometri delle alterazioni della nostra atmosfera interiore non potrebbero essere da noi consultati con qualche attenzione? Perchè le vote sepolture, che rimbombano sotto a’ miei passi, non hanno più alcuna favella pel mio cuore; o perchè hanno acquistato significazioni che mi erano sconosciute? Perchè la mattutina striscia di luce, che imbianca i culmini degli edifizii opposti alle mie finestre, non mette più alcuna commozione entro al mio spirito? Chi ha siffattamente abbassate quelle arcate maestose sotto le quali io mi aggirava ad inspirarmi di gloria e di affettuosa malinconia?
È forse v’ha chi legge tuttociò sorridendo, e forse leggerò sorridendo io medesimo, a un’altra stagione; presso a poco come ora mi ravvolgo senza terrore per entro le tenebre fitte di un chiostro, ove non avrei osato di mettere nemmeno due passi al mio primo tempo. Che segnale sarà questo per giudicare de’ progressi della mia ragione? Che tessera per notare i gradi di felicità alla quale mi fu conceduto salire? Qui sta tutto il profitto che può derivare da queste due passeggiate, fatte in età diverse, e messe in paragone fra loro, quando, venuto meno il sentire, cresce la voglia e la capacità del paragonare.