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IN SACRIS
Ieri a sera il campanaro mi assicurò di aver trovato il covo della faina nel bosco, ed eccomi qui nascosto nella macchia coll’occorrente per scrivere sulle ginocchia e la doppietta accanto, in atto di sorvegliare attentamente il nemico. Vorrei dire che lo sorveglio colla penna e colla spada, ma la doppietta non è una spada cavalleresca; ahimè, costa trenta lire, se domani dovessi fare alle schioppettate, non ci farei buona figura!
La faina non esce dal covo che a sera per la notturna caccia de’ polli, e il sole sta per cadere dietro Monte Donato. L’ora è propizia. Tra le frasche dei quercioli veggo la pianura che sfuma sino all’orizzonte, violacea, azzurrognola, e le torri e le case di Bologna tinte di quel color di rosa de’ tramonti che non bisognerebbe rimproverare al Carducci, il quale non ne ha colpa, ma alla natura che lo fa a questo modo. Alla mia destra si profilano nel cielo turchino i colli che sorgono tra l’Idice e il Sillaro; i più vicini, coloriti del giallo carico delle stoppie o del verde cupo delle macchie cedue; i più lontani, azzurri o violetti, velati dalle nebbioline della sera, segnati da qualche striscia aranciata riflessa dal sole che tramonta. Il silenzio misterioso dei boschi fa più vive queste sensazioni del colore e della prospettiva aerea, queste gioconde eccitazioni dell’occhio non distratto, questi contatti calmi colla bellezza e colla natura. La voluttà della quiete si affina e si sublima. Non ha più nulla della materialità sensuale. La fantasia lavora senza sforzo e senza coscienza. Si sogna quasi ad occhi aperti.
Lassù, in alto, lontano, lontano, sulla vetta di un monte azzurro si vede distintamente una chiesa rosea che domina la solitudine della montagna. È Monte Calderaro, tra il Sillaro e la Quaderna. Come si deve star bene lassù a quest’ora, col mondo sotto gli occhi, eppure tanto lontano! Quel curato là lo invidio: vorrei essere io il curato di Monte Calderaro.
Che strano desiderio! Eppure, dopo aver faticato il giorno intero a scarabocchiare la carta, dopo aver turbato il fiele colla lettura dei giornali e scaldato il sangue colle ire politiche o colle gesuiterie letterarie, dopo essersi tormentato in una eccitazione faticosa coi nervi tesi come corde di violino che vibrano dolorosamente ad ogni moto, vengono questi desiderii della calma molle, dell’ozio del cervello, dell’animalità soddisfatta. L’abbazia di Thélème sognata dal Rabelais è anche il sogno segreto di tutti i letterati combattenti, i quali, stanchi della tensione quotidiana, non immaginano di meglio che un ospizio di poeti invalidi, un convento di frati gaudenti. Io lascio al giocondo curato di Meudon le torri di marmo, le camere dorate, le vesti di porpora, i conviti delicati; io mi contenterei d’esser curato di Monte Calderaro. Ivi riposerei beato e chiuderei gli occhi per sempre in un bel tramonto come questo, guardando al sole, ai monti, al mare lontano, e susurrando soddisfatto: Hoc erat in votis!
Mi vedete? Lassù nel silenzio della montagna, sul praticello che verdeggia davanti alla canonica, c’è un tavolino con alcuni libri ed una bottiglia. Accanto, in comodo seggiolone, siede il reverendo curato, seggo io, coi capelli bianchi e la gota florida posata sulla palma della mano. Oh, come sono lontani i tempi della mia giovinezza, come sono lontane le donne che mi lacerarono l’anima col pretesto di volermi bene! A quei tempi come si combatteva, come si soffriva, o per un diritto o per un amore! Il mondo era una battaglia; il vecchio urtava col nuovo, il privilegio col diritto, l’interesse col dovere, l’equivoco colla verità, e si combatteva. Oh le belle battaglie e i bei colpi! E gli strazi delle sconfitte e il giubilo delle vittorie sante, delle vittorie degli umili, del trionfo dei deboli, della redenzione degli oppressi! Ci dicevano senza fede, e noi per la fede nostra davamo ogni cosa più caramente diletta, e per la fede conducevamo nella mischia anche i nostri figli, la carne della nostra carne, l’anima dell’anima nostra.
Ci dicevano senza amore, e molti di noi per amore sono morti; ci dicevano senza generosità, e non abbiamo vinto per noi. Questa pianura immensa è seminata delle ossa dei caduti; i vincitori e i vinti dormono nello stesso sepolcro e sulla terra immensa regna sola la giustizia. La battaglia è finita; pace, eterna pace ai morti! Il mio cuore la prega e l’invoca. Non sono curato per niente!
Giù, fumano le ville nascoste tra i frutteti. Oggi si cibano coloro che digiunavano ieri. Ecco le messi d’oro, le viti opime, la prosperità della pace, ed è pur dolce pensare che per questa pace si è fatto qualche cosa anche noi. Quando starò per addormentarmi nel sonno che non ha fine mai, mi voglio far portare a quella finestra là, voglio dare un’ultima e lunga occhiata a questa terra che altri maledisse e noi benedicemmo, a questa patria dei miei affetti, dove nacquero i miei figli nello spirito, dove riposano i miei cari morti nella pace. Con quello sguardo la vedrò tutta, bella, grande, felice, e non mi dorrà di morire in terra di libertà: con quello sguardo voglio darle l’ultima benedizione; non la benedizione del rito scomparso, ma quella del cuore, la benedizione del vecchio che abbandona la vita sereno, senza dolore e senza rimorsi. Poi mi seppelliranno sotto una pietra bianca qui, all’ombra delle querce, ed i fringuelli faranno i nidi a primavera tra i rami, e nelle notti serene canteranno i rosignoli nei cespugli di rose. Quelli che ora sono bimbi, diverranno uomini, e passando di qui, guarderanno la mia pietra coperta di fiori selvatici e di muschi morbidi e diranno: Povero curato! Era un galantuomo e ci ha voluto bene!
Sì, vi ho proprio voluto bene, parrocchiani miei. Io non vi ho insegnato ad aver paura di Dio, non vi ho imbrogliato la testa e la coscienza con precetti minuti e con obblighi di pratiche superstiziose. Vi ho detto: non fate male a nessuno; amate il vostro padre, la vostra libertà, i vostri fratelli; questa era tutta la dottrina del povero curato. Vi ricordate le sere lunghe d’inverno, quando nevicava fitto ed io accanto al fuoco vi narravo la storia del nostro paese? Ebbene, io non v’ho insegnato mai ad odiare nessuno, non v’ho insegnato ad odiar nulla, fuori che il male. Io ve la predicavo davvero quella legge d’amore, di tolleranza, di rettitudine di cuore, per la quale da giovane avevo combattuto i sacerdoti che maledicono, che ingannano, che odiano. Questa chiesa non era la chiesa delle scomuniche, ma della carità e della fratellanza, e voi non avevate paura della mia logora vestaccia nera; e quando d’estate io passava lungo i margini de’ campi leggendo Virgilio, le belle mietitrici si rizzavano sui solchi, sorridenti nel sole splendido, coi capelli dati ai liberi venti delle nostre montagne, e tendendomi le braccia nude, mi gridavano: buon passeggio, signor curato! Ed io alle vostre belle mietitrici non ho guastato nè la coscienza, nè altro; questo proprio lo posso dire!...
Ehi, dico, signor curato, dove andiamo a finire? Vedete un po’ che razza di sciocchezze mi girano pel cervello a guardare quella chiesina solitaria sulla vetta di Monte Calderaro! Sì, davvero sarei un buon curato io, con quell’odore di santità che ho indosso! Bisognerebbe proprio che l’Eminentissimo Arcivescovo fosse matto da legare per sacramentarmi curato! E poi tutto questo non è che un sogno impossibile. Certo sarei un buon curato, meglio di molti e di moltissimi, ma quelle benedette mietitrici dovrei confessarle io, e.... basta!
O la faina dov’è? Non s’è vista o m’è passata tra le gambe senza che io me ne avveda. Riportiamo a casa la doppietta.... e queste ciancie che ho scritto. La caccia poteva andar peggio, non è vero?