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CXXII. S’io ò le Muse vilmente prostrate
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CXXII.

AD UN IGNOTO1.


S’io ò le Muse vilmente prostrate
     Nelle fornice2 del vulgo dolente,

     Et le lor parte occulte ò palesate
     Alla feccia plebeia scioccamente,
     Non cal che più mi sien rimproverate5
     Sì facte offese, perché crudelmente
     Apollo nel mio corpo l’à vengiate
     In guisa tal, ch’ogni membro ne sente.
Ei m’à d’huom facto un otre divenire,
     Non pien di vento, ma di piombo grave10
     Tanto, ch’appena mi posso mutare3.
     Né spero mai di tal noia guarire,
     Sì d’ogni parte circondato m’àve;
     Ben so però che dio mi può aiutare.

  1. I sonetti CXXII-CXXIV furono diretti tutti quanti ad un tale — non una persona qualunque, a giudicare dalla deferenza con cui accolse le sue osservazioni il poeta — che lo aveva rimproverato di aver prostituito le Muse palesando le lor parti occulte alla feccia plebeia (CXXII, 1-4), ossia, in altre parole, di aver aperto al vulgo indegno i concetti dell’alta mente di Dante (CXXIII, 1-3): il Boccacci rispose umilmente e pazientemente, cercando di giustificarsi con varie scuse. Egli era vecchio e malato (cfr. qui, p. 157, n. 4), e stanco anche della fatica che la Lettura dantesca, affidatagli dai suoi cittadini il 25 agosto 1373, gl’imponeva; infatti poco tempo dopo la sospese (fine di dicembre). Cfr. Giorn. stor. cit., LXI, pp. 360-3; O. Bacci, Il Bocc. lettore di Dante, Firenze, pp. 28-30.
  2. ‘Questa voce viene dalla latina fornix, che volta o arco significa, ed in senso metaforico postribolo’ (Baldelli).
  3. «Muovermi da un luogo ad un altro.» Per quest’accenno alla pesantezza della persona, che afflisse negli ultimi anni l’esistenza del poeta, cfr. p. 142, n. 5


Note

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