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LXVIII. De’ quanto è greve mia disaventura
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LXVIII.


De’ quanto è greve mia disaventura
     E mobile più ch’altro il viver mio!
     Io piango spesso co’ tanto disio
     Quant’alcun rida, e, mentre il pianto dura,
     Vien nella mente mia quella figura5
     Che ppiù ch’altro mi piace1, sallo iddio;
     Quivi col lieto aspetto vago e pio
     Conforta ’l core e ll’alma rasicura,
Dicendo cose, ch’ogni spiritello
     Smarrito surge lieto e pien d’amore,10
     E me fan più ch’alcun altro contento.
     Di quinci nasce chi2 dal viso bello
     Mi mostra esser lontano, onde ’l dolore
     Torna più fier che prima per l’un cento3.

  1. L’immagine della sua donna.
  2. Un nuovo pensiero.
  3. «Cento volte tanto.» È locuzione frequente nella lingua dei primi secoli. Il concetto svolto in questo sonetto è anche espresso nel Filocolo (III), là dove è rappresentato il dolore di Florio per la sua lontananza da Biancofiore: ‘Quando avveniva che egli solo fosse in alcuna parte, incontanente cominciava ad immaginare d’essere col corpo colà, dov’egli con l’animo continuamente dimorava... e mentre che in questo pensiero stava, sentiva gioia senza fine; e come egli di questo usciva e ritornava in sé, e trovandosi lontano da essa, allora si mutava la falsa gioia in vero dolore, e piangeva per lungo spazio rammaricandosi de’ suoi infortuni’.


Note

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