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LXVII. Poscia che gli occhi mia la vaga vista
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LXVII.


Poscia che gli occhi mia la vaga vista
     Ànno perduta, il cui lieto splendore
     Ciaschedun mio desir caldo d’amore
     Facea contento in questa valle trista,
     Dove più noia chi più vive acquista;5
     Non curo omai se del dolente core,
     Alma, ten vai, perciò che ’l mio dolore
     Non regolerà mai discreto artista.
Anzi ten va, ch’io, che solea cantare,
     Non vo’ pascer l’invidia di coloro10
     A’ quai doler solea la mia letitia.

     Vatten adunque omai, non aspettare
     D’esser cacciata, et altrove ristoro
     Prendi, se puoi, di questa mia trestitia1.

  1. Questo sonetto e il successivo, in cui il Boccacci lamenta la sua lontananza dalla donna amata con accenti che mal si converrebbero ad una separazione temporanea, e che mostrano piuttosto di essere inspirati dal dolore per un distacco che non si prevede debba cessare, appartengono, a mio giudizio, al periodo seguìto al ritorno del poeta in Firenze.


Note

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