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Voltaire - Candido (1759)
Traduzione dal francese di Anonimo (1882)
Come Candido incontrò il suo vecchio maestro di filosofia, il dottor Pangloss, e ciò che avvenne
capitolo 3 capitolo 5

4. Come Candido incontrò il suo vecchio maestro di filosofia, il dottor Pangloss, e ciò che avvenne


Candido, mosso più dalla compassione che dall’orrore, diede all’orribile mendicante i due fiorini ricevuti dal buon anabattista Giacomo. Il fantasma lo guardò fissamente, versò qualche lacrima, e gli saltò al collo. Candido, sgomento, indietreggiò.

"Ahimè!" disse il miserabile all’altro miserabile, "non riconosci più il tuo caro Pangloss?" "Che sento? Voi, mio caro maestro! Voi, in quest’orribile stato! Quale sventura vi ha dunque colpito? Perché non vi trovate nel più bello dei castelli? Che ne è di madamigella Cunegonda, la perla delle fanciulle, il capolavoro della natura?" "Non ne posso più", disse Pangloss.

Subito Candido lo condusse nella stalla dell’anabattista, dove gli fece mangiare un po’ di pane; e quando Pangloss si fu rifocillato:

"Ebbene!" gli disse, "e Cunegonda?" "E’ morta", rispose l’altro.

A questa parola Candido svenne; l’amico lo fece tornare in sé con un po’ di cattivo aceto trovato per caso nella stalla. Candido riapre gli occhi.

"Cunegonda è morta! Ah! migliore dei mondi, dove sei? Ma di quale malattia è morta? Non sarà per avermi visto cacciare dal cancello del suo signor padre a forza di calci?" "No", disse Pangloss, "è stata sventrata da alcuni soldati bulgari dopo esser stata violata quanto si può esserlo; il signor barone, che voleva difenderla, ha avuto la testa sfondata; la signora baronessa è stata tagliata a pezzi; il mio povero pupillo, trattato esattamente come sua sorella; quanto al castello, non ne è rimasta pietra su pietra, non un fienile, non una pecora, non un’anatra, non un albero; ma siamo stati ben vendicati, perché gli Avari hanno fatto altrettanto in una baronia vicina, che apparteneva a un signore bulgaro".

A tale discorso Candido svenne una seconda volta; ma, tornato in sé, e detto tutto ciò che doveva dire, si informò della causa e dell’effetto, e della ragion sufficiente che avevano ridotto Pangloss in uno stato così pietoso.

"Ahimè!" disse l’altro, "è l’amore: l’amore, il consolatore del genere umano, il conservatore dell’universo, l’anima di tutti gli esseri sensibili, il tenero amore".

"Ahimè", disse Candido, "l’ho conosciuto, quest’amore, questo sovrano dei cuori, quest’anima della nostra anima, non mi ha fruttato che un bacio e venti calci nel sedere. Come mai una così bella causa ha potuto produrre in voi un così abominevole effetto?" Pangloss rispose in questi termini:

"Mio caro Candido! tu hai conosciuto Pasquetta, la graziosa cameriera della nostra augusta baronessa, nelle sue braccia ho gustato le delizie del paradiso, che hanno prodotto i tormenti d’inferno da cui mi vedi divorato; ne era impestata, forse ne è morta. Pasquetta doveva questo regalo a un dottissimo frate francescano, che era risalito alla fonte, perché l’aveva avuto da una vecchia contessa, che l’aveva ricevuto da un capitano di cavalleria, che lo doveva a una marchesa, che l’aveva avuto da un paggio, che l’aveva ricevuto da un gesuita, il quale, da novizio, I’aveva avuto direttamente da un compagno di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non lo darò a nessuno, perché muoio".

"O Pangloss!" esclamò Candido, "ecco una strana genealogia! il capostipite non ne è forse il diavolo?" "Niente affatto", replicò il grand’uomo, "era una cosa indispensabile, nel migliore dei mondi, un ingrediente necessario: perché se Colombo non avesse preso in un’isola dell’America questa malattia che avvelena la sorgente della generazione, che spesso anzi impedisce la generazione stessa, e che, evidentemente, si oppone al grande fine della natura, non avremmo né cioccolata né cocciniglia; bisogna poi osservare che nel nostro continente, fino a oggi, questa malattia è tipicamente nostra, come la controversia. Turchi, Indiani, Persiani, Cinesi, Siamesi, Giapponesi, non la conoscono ancora: ma c’è ragion sufficiente che debbano conoscerla a loro volta fra qualche secolo.

Nel frattempo ha fatto meravigliosi progressi fra noi, e soprattutto in quei grandi eserciti composti di onesti mercenari beneducati che decidono del destino degli Stati; si può affermare che, quando trentamila uomini combattono in battaglia campale contro eserciti di egual numero, ci siano circa ventimila impestati per parte".

"Una cosa mirabile", disse Candido, "ma bisogna guarirvi".

"E come posso?" disse Pangloss. "Non ho un soldo, amico mio, e in tutta l’estensione del globo non si può avere né un salasso, né un clistere senza pagarlo, o senza qualcuno che paghi per noi".

Quest’ultimo ragionamento fece prendere a Candido una decisione; andò a gettarsi ai piedi del suo anabattista Giacomo, e gli dipinse in maniera così commovente lo stato in cui l’amico era ridotto che il buonuomo non esitò a raccogliere il dottor Pangloss; lo fece guarire a proprie spese. Pangloss, durante la cura, non perse che un occhio e un orecchio. Scriveva bene, e conosceva perfettamente l’aritmetica.

L’anabattista Giacomo ne fece il proprio contabile. In capo a due mesi, trovandosi nella necessità d’andare a Lisbona per ragioni di commercio, condusse con sé sulla nave i due filosofi. Pangloss gli spiegò come tutto fosse disposto per il meglio. Giacomo non era di quest’opinione.

"Bisogna bene", diceva, "che gli uomini abbiano corrotto un po’ la natura, poiché non sono nati lupi, e lo sono diventati. Dio non ha dato loro né cannoni da ventiquattro, né baionette; e loro si sono fabbricati cannoni e baionette per distruggersi. Potrei aggiungere le bancarotte, e la giustizia che si impadronisce dei beni dei bancarottieri per defraudare i creditori".

"Tutto questo era indispensabile", replicava il dottore guercio, "e i mali particolari compongono il bene generale; di modo che più ci sono disgrazie particolari e più tutto va bene".

Mentre così ragionava, l’aria si oscurò, i venti soffiarono dai quattro angoli della terra, e il vascello fu assalito dalla più orribile tempesta, proprio in vista del porto di Lisbona.



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