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CANTO POLITICO
IN MORTE
DELLA
CONTESSA MARIANNA GIUSTI
NATA
MARCHESA SAIBANTE.
AL
VENTURO PONTEFICE
ALEARDO ALEARDI.
I.
Così mesta e sicura
Dove pensi di gire, o pellegrina?
Volgi forse al paese de gli estinti,
Chè vedo apparecchiata
Un’insolita vesta, e dei giacinti
Tristi, e un lenzuolo e il legno de la croce
Ch’è il bordone dell’ultimo cammino?
Or che scintilla il sol meridïano
Sui tetti alti e il giardino,
Perch’ài chiuse le imposte, e de la stanza
In un canto lontano
Si dibatte fra ’l buio un lumicino?
II.
La vecchierella, antica di famiglia,
Entra pian piano pallida, e bisbiglia
Preci. Non so che cosa
Prepara e piange e fugge frettolosa.
Ma nel fuggir, sogguarda
Te che con lei gentile
Fosti sempre ed umana;
Sogguarda in aria di paura arcana.
E tu giaci frattanto
Tinta nel viso d’un color di perla
Con la posa d’un Santo.
III.
Chi t’incalza a partir pel desolato
Eremo de la tomba? Oh! ne gli avari
Solchi, non dubitar, già caleremo
Tutti a trovar quei che ne furon cari.
Anco ti arresta un poco,
Cortese mia. Serene
Saranno e belle e senza alcuna guerra
Quelle plaghe del ciel: ma bella pure
E senza esempio allegra ora diviene
Questa italica terra.
Or non è tempo di morire. È tempo
D’attendere e gioire. Or che l’antica
Eredità dai barbari contesa
A la veneta gente
Splendidamente Iddio vuol che sia resa.
IV.
O anima gagliarda,
Te il comune desir forse non punge
Di vedere, in un dì che non è lunge,
Fulminando volar da la lombarda
Pianura all’Alpi, al mar, per una via
Sacra, la gioventude
Bella, tremenda e pia
De le italiche schiere?
E in fuga per i campi
Le rotte orde straniere?
Non ti punge desío
Di veder sul natío
Suol luccicar le mobili selvette
Dei possenti lancieri; e per le apriche
Nostre valli passar le giovinette
File dei fanti che parranno antiche?
E dai vinti sentieri
Sbucar di Veia e di Caprino, e al piano,
Come vivente lava di vulcano
Acceso dal destino,
Scendere i bersaglieri?
Arsi dal sol le fronti,
Con l’arme in pugno, con le piume al vento,
Di polve e fumo, di sudor, di sangue
Superbamente immondi,
Ebri di gloria scendere giocondi
Sposi de la vittoria?
E quel dire: Son nostri!
V.
Anima Italïana,
A te che in core abomini gli avversi
Figli selvaggi de la tramontana,
Forse non tarda di veder la fine
Del gigante conflitto
Fra l’immortal diritto, e la tiranna
Forza brutale; e la costei condanna
Ai vivi, ai morti, ai posteri bandita
Da la voce tremenda
D’un Re senza paura e senza menda?
Bandita da le domite colline
De la esultante martire Verona,
Di mezzo a le ruine
De le castella che le fûr corona
Esecrata di spine?
Poi ch’è destin che nell’ausonia terra
Alcuna guerra mai non si combatta
Pe’ suoi fati soltanto,
Ma sì pei fati dell’umana schiatta?
VI.
Volgon già dieci secoli che dura
Con diversa ventura
Questa battaglia tra il figliuol di Roma
E l’ispido nipote
Dei Nibelungi da la fulva chioma.
Non è monte in Europa e non è valle
Ch’echeggiato non abbia
A la lor rabbia; al rombo
De le lor frecce; al fischio
De le lor palle. Tinsero l’arena
Di molti fiumi col febbril zampillo
De la lor vena. I cento
Clivi, i passaggi infidi e le boscaglie
Dell’Alpi risonarono e del Jura
De le trombe a lo squillo,
Al frangersi dell’aste e de gli scudi,
A le percosse maglie:
E spesso in vece dell’odor dei fiori
Si diffuse pei campi in lontananza
De la polvere incesa
La marzïal fragranza.
D’ogni città per le cruente strade
Scintillaron le spade
In truce lotta che parea fraterna,
E invece era di due
Famiglie avverse la contesa eterna.
E tra il fragore e i colpi
Dell’atroce duello
Pareva udir per l’aure a quando a quando
Ir sibilando d’Attila il flagello,
Il flagello di Dio.
Or vinti, or vincitor giusta le tempre
Dei rinnovati nervi,
Ora signori or servi
Que’ combattenti arme mutâr con gli anni,
Mutar nomi ed affanni: ma fûr sempre
Tuttavolta gli stessi: o li chiamasse
Barbarossa, la gente, oppur Ottoni,
Li chiamasse Ferrucci,
Ovver Napoleoni;
O ne le regïoni
D’un arrogante olimpico comando
Fosser detti: Ildebrando:
O in quelle de la libera parola:
Savonarola; o in quelle
D’un cenobio ribelle
Fosser detti: Lutero,
Spartaco del pensiero.
Pugnâr, caddero, giacquero, e risorti
Ricominciâr. E i vasti cimiteri,
Ove talor sotto la stessa croce
Tinti di sangue riposâr quei morti,
Or con amara voce
Vaterloo fûr chiamati, o Cavinana;
Or con nome divino
Legnano o San Martino.
VII.
Ma v’ebbero dei vili
Lunghi tempi servili ed impotenti
Fin di lamenti, allor che l’infelice
Italia, alfier morente
De la latina gente,
Parve spirare, e giacque
Immota ne la sua
Cinta superba di montagne ed acque.
Per una via di disonesti lutti
Fu trascinata in pria.
A le ignominie d’un Calvario novo,
Flagellata da tutti
I soldati stranier qui convenuti
Come iene a ritrovo
Di cadaveri. Poi tetre famiglie
Di Regoli affamati,
Roghi innalzando e palchi,
Con la ragion dei falchi
Si spartîr le sue mèssi e le vendemmie
E il tappeto dei prati.
Ed ella, al par del coronato Ispano
Che la ferì nel cor sotto Fiorenza,
Con funerea demenza
Si celebrò vivente
L’esequie in Vaticano.
Ella, privilegiata dei sublimi
Ardiri de la mente,
Indifferente l’anima commise
Ne le cupide man d’un sacerdote;
Il qual fra le stupende
Beltà dei monumenti, e i molli canti
Di vati senza patria, e le famose
Sculte o dipinte immagini di Santi,
Fra i balsami e le bende
Artistiche la vittima compose;
E con bugiardi omei,
Sparsevi su di Gerico le rose,
Cauto si assise sull’avel di lei
Ch’ei ben sapeva che non era morta,
Non già col sentimento
Dell’angiolo dal bianco vestimento
Per poter dire un giorno: “Ella è risorta;”
Ma per vegliarne con pupille d’Argo
L’egro letargo; il lento
Metro spïar del core;
Per soffocarne nel mistero il primo
Fremito precursore
Del suo risorgimento.
I marinai che l’àncora a que’ giorni
Calar lungo il romito
Paradiso dell’itale scogliere,
Non altro avranno udito
Uscir da la Penisola che il fioco
Salmodïar di querule preghiere
Mormorato da un popolo di larve;
E correre gl’immensi
Piani dell’onde un suono
D’organi tra l’odore
Di nauseabonde nuvole d’incensi.
Bensì talor surgea
Di mezzo a le codarde sepolture
Qualche anima possente
Ricca di Dio, che ardiva
Interromper que’ biechi saturnali
Sacerdotali, e quelle orgie divote
Di carnefici in maschera di santi
Piene di pianti; e maledir la rea
Etade e i sacri filtri e le catene,
Profetando le idee dell’avvenire:
Ma pontefici e re subitamente
Sovra le piazze de le cupe chiese
Ergevano le pire,
Spegnendo con feroce
Argomento di fiamma
La temeraria voce:
E scagliando le ceneri del grande
Visitato dal nume
Sovra l’onda d’un fiume. —
Stridon le stipe: incede
Da vincitor il martire: l’erede
Del santuario siede
Sui ricchi pulvinari;
E l’effluvio dei membri arsi, giocondo,
Sale a le sacre nari. —
Ma lo notava il mondo.
VIII.
E il folgore dell’ire
Lungamente raccolte
Scoppiò. — Son le rivolte
Gl’impazienti apostoli fatali
Del pensiero di Dio, che si rivela
Al pensier de’ mortali. Irrequïeta
L’umanità vïaggia
Guidata dalla sua nobile stella
Per una strada o florida o selvaggia
Di monti aperti e di profonde valli,
Tal che ora poggia, or scende,
Ora sen va con sì confuso metro,
Che par s’arretri, o che si volga indietro;
Pur sempre ascende, attratta
Ad una mèta di superba altezza
Che i cieli arcani le assegnâr, cui tende
Con indefesso spasimo d’istinto;
Nè mano di pontefici, nè mano
Di re, poveri tutti! impediranno
Quel vïaggio di Dio. —
Pendeva al fine il secolo ch’è morto;
Un plumbëo destino
Sul gentile incumbea sangue latino.
Lasso di sonni l’Italo pusillo,
L’Ibèro nell’orgoglio
De’ suoi cenci seduto
Sui gradini d’un soglio
Monacale languía.
Ma un fastidio magnanimo del vile
Passato a un tratto accese
L’impetuoso spirito francese,
Che impugnato il civile
Vessil segnato da le nove fedi,
Solo e feroce infisse
La lancia inesorabile nell’idra
Tenace del servaggio.
Infurïando scrisse
Dall’alto dei patiboli col sangue
Patrizio gl’immortali
Dritti all’uomo negati; e con la prima
Pietra di strage popolar vermiglia
De la vinta Bastiglia
Incominciò la rapida ruina
De le gotiche reggie.
Un fragore di franti
Ceppi religïosi e feodali
Corse a que’ dì le terre;
E in mezzo a la tempesta de le guerre
Titaniche, e a le lugubri eloquenze
De le torve tribune, a quando a quando
Pareva il tonfo udir de la ferale
Scure di Robespierre.
IX.
Ma le scitiche rabbie e le tedesche
Levârsi contro all’inclita rapina
Di questa audace novità latina.
Alleate coi turbini, coi venti
E con le nevi de le lande algenti,
Pugnar feroci e false,
Pugnâr congiunte e disperate, in fino
Che un’altra volta Satana prevalse.
I nostri padri videro ammirando
D’una città sacra, fedel, deserta
Sollevarsi le fiamme
Ai cieli boreali,
Come selvaggia offerta
Di sacrifizio a Dio vendicatore;
Tingendo coi riverberi, presaghi
D’un tramonto imminente,
I popoli e il recente
Trono dell’Occidente.
I trïonfanti pallidi raccolte
Le avvilite corone
Rotolate sui campi di battaglia,
Convennero sul margine dell’Istro
A concilio sinistro.
Qui de le patrie soffocando i sacri
Risorti entusïasmi,
Qui de la tirannia
Con l’infernal magia
Evocando i fantasmi
Del passato odïati in un’ebrezza
D’onnipotenza, vollero dementi
Abolire il pensiero,
Catenar l’avvenire: e si spartîro,
Sconfondendo i penati,
La mandria de le genti.
E mentre tanta umanità piangea
Mercanteggiata, un indecente scoppio
Di risa inestinguibili scorrea
Lungo gli orti e la chiesa unica, il doppio
Colonnato e le sale del pagano
Ricinto vaticano;
Come accosciate là sopra le nere
Lastre di Delfo al tempio
Le Eumenidi con gli occhi
Semivelati, a guisa di pantere,
Dicon che un tempo vigilasser l’orme
Agitate dell’empio,
Serve e superbe allor non altrimenti
Le germaniche genti
Vegliavano a la porta
D’un imperio deforme,
Custoditrici d’una pace morta;
Mentre l’antico rettile d’Asburgo
Rinnovando il martíre
Dell’inviso a gli Dei Laocoonte,
Da la perfida reggia
Avviluppava in tortuose spire
Nobili schiatte, e ne suggea con dire
Canne non mai satolle
Il fior de le midolle.
Molti così passâro anni codardi.
Simili a lunga notte
Non d’altro viva che d’alcune voci
Di congiura interrotte;
Sin che il divino assillo
D’Indipendenza i popoli rimorse,
Traendoli a spiegar con vïolenta
Sublime impazïenza
Dinanzi al sole il patrïo vessillo.
Qundo un re capelluto, a cui le franche
Rivolte avean raso le chiome, in muto
Monastero sepolto,
Si vedeva il cresciuto
Crin prezïoso che valea l’impero
Novellamente scendere sul volto,
Ei dal divoto carcere fuggendo
Irrompeva all’aperto;
Dove talor dai rudi
Guerrier levato sui ferrati scudi
Riguadagnava il serto.
Anch’essa Italia dal cenobio imbelle
Del servaggio è fuggita. A la infelice
Diseredata crebbero le chiome:
E torna imperadrice;
Poi che i suoi forti con superba gioia
La levaro in trïonfo
Sovra l’intatto scudo di Savoia,
E la torbida larva
De la Santa Alleanza in fra il rossore
De le nordiche aurore
Lungo il Baltico mare
Impallidisce e spare.
X.
Or non è tempo di morir. T’arresta
Un poco ancor nel tuo florido ostello,
Anima onesta. È bello
Quel poter dire: Io vidi grandi cose
Ne la mia patria. È mesta
Troppo la tua partenza a la vigilia
Dell’italica festa.
Or che l’eterno amore
De la natura fa tornare i fiori,
Perchè partire, o fiore?
L’orecchio, invece, nel silenzio accosta
A terra. Di’: non senti
Lieve lieve dai colli e da le valli
Venir verso Verona
Un suon come di molte
péste uniformi d’uomini, e un confuso
Scalpitio di cavalli?
Oh sono dessi i lungamente attesi!
Senti! senti! Già parme
Da le rapide mura udir le scolte
De l’oppressore tramandarsi il verso
Barbaro dell’allarme —
Veder già parmi pei squarciati spalti
L’impeto de gli assalti; e fiuto l’aure
De la battaglia. Già la morte vola
Da la fulminea gola
Di mille bronzi. Un’ondeggiante zona
D’acre fumo incorona
Ogni castel che lampeggiando tuona.
Con dubbiosa vicenda
Arde pei suburbani
Solchi la mischia orrenda.
De la cittade a le deserte vie
Giungon carri cruenti,
Carichi d’agonie,
Inaffiando di sangue i pavimenti.
Sovra la soglia de le chiuse porte
Qualche ferito qua e là caduto
Sente appressar l’acuto
Brivido de la morte;
E volge il ciglio e l’anima a quel monte
Che gli verdeggia a fronte,
Forse pensando che oltra là, lontano,
Avvi una dolce casa poveretta
Ove l’attende invano
Una madre soletta.
Da le torri eminenti
E d’in sui tetti perigliosi, a gruppi,
Pallidi cittadini
Con gli occhi intenti, i crini
Irti, coi pugni stretti,
Con anelanti petti
Assistono, guardando a la campagna,
A quel giuoco selvaggio, ove una patria
Si perde o si guadagna.
Ma ormai distinta io sento
Batter recata da non so qual vento
L’ora del Fato. Lo stranier nei cieli
È condannato. De’ suoi morti il piano
È coperto. Dell’Adige iracondo
Sui vorticosi flutti,
Avvezzi ai lutti, passano bandiere
Lacere ed aste e vestimenta e salme
Di fuggitivi che travolti al fondo
Ruotan sepolti ne la mobil sabbia
Con la lor rabbia. I liti
Suonan d’intorno ai tremoli nitriti
Dei cavalli feriti.
Qualche infelice invan con moribonda
Man disperata ai fragili s’appiglia
Salici de la sponda.
Altri affogando batte la funesta
Acqua con palma stanca, e in un supremo
Sforzo, come fa in mare
L’augel de la tempesta,
Erge la testa anche una volta e spare. —
Ite, o stranieri, giù per le correnti
Inesorate: e vi sien gravi l’onde,
Crudeli i corvi de la ripa, e i venti
Marini. E tanti vi prolunghi il Fato
Istanti ancor di vita,
Che a voi mirar sia dato
L’adriaco golfo, italo lago un tempo
E in avvenir. Udrete
Uscir là giù dall’Isole Brïoni
Misterïosi tuoni:
All’istrïano margine vedrete
Nodi di fiamme e di sanguigni lampi,
Come di cosa che sul mare avvampi.
Quello è il navile imperïal che vola
Dall’italico foco incenerito.
Cade la notte. Dell’inutil Pola
Rosseggia da lontano
Lo scheletro gigante del romano
Anfiteatro e il portuoso lito.
XI.
Ancor qua giù rimani,
O mia gentil; vedrai novo ed insigne
Spettacolo d’amor. È l’indomani
De la vittoria. Non vi fu pupilla
Veronese, a la notte,
Visitata dal sonno. In ciel già brilla
Il sol d’Italia. Prima
Nostro non ci parea nè manco il sole.
Fuor d’ogni casa una festevol onda
Sbocca di gente, e imbruna
Le strade e i ponti, e inonda
Le piazze. Altri s’aduna
A chieder nuove: altri racconta i prodi
Fatti di ieri, e fa piangere e piange.
È un’ora glorïosa,
Quaudo il delitto è un’impossibil cosa.
Qual per incanto, la città fiorisce
Tutta quanta a bandiere tricolori;
Le fanciulle dell’Adige nei giorni
Schiavi le àn con gioconda
Speme trapunte in emula congiura,
Mentre udiano di fuori per l’oscura
Aria i villani passi
De la tedesca ronda.
Ora a le logge, a le finestre, ai merli
Ondeggian de le torri in faccia al sole.
Ma le campane ormai suonano a festa;
Le trombe squillan: entra
Ne la cittade il Re. Passa la porta,
Sorriso d’arte: e il suo corsier la testa
Gemina e gli altri avanzi
Dell’aquila pur dianzi smantellata
Carolando calpesta.
Col figlio a fianco, e i suoi gagliardi intorno
Raggianti il volto di gentil baldanza
Sotto un nembo di fiori,
Fra una pioggia d’allori
Il magnanimo avanza. Un plauso immenso
Da la folla prorompe, e via si estolle
Al Dio che vede e volle. Ei con la muta
Eloquenza del capo
Nobilmente saluta. —
Emanüele, Re d’Italia, anch’io,
Non ultimo poeta,
Un saluto t’invio. Certo mia madre,
Santa com’era, divinando il figlio,
Me al nascere di panni
Tricolori fasciò. Sin da fanciullo
Arsi d’Italia, e ne la diva morta
Presentii la risorta
Del Campidoglio. Nè sotto l’infame
Staffil stranier, nè ai giorni
Esuli, o su lo strame
De le prigion col trave
Del patibolo in faccia, oh no, giammai
Non disperai. Tal che di fede ardenti
Sempre uscirono i carmi, e non discari
A le mie genti. Impavido cantore
Pria di civil dolore,
L’onesta arpa riprendo:
Del mio nativo ostello
Dico le glorie, e scendo
Contento nell’avello. —
Ma al suon di una guerresca melodia
Già varca il Re la via
Fatta dal nuovo suo battesmo altera;
Già varca i viscontei
Archi adorni di pensili trofei,
E sosta in mezzo a la superba piazza.
Chi è? che vuol? che cerca
Là, quella afflitta e pallida figura?
Chi la sospmge a fendere la calca?
Fate largo, o giocondi, a la sventura.
È una povera pazza
Son quattro dì che a un ciglio
Rimoto de le mura
Una banda di teutoni soldati
Le strascinâro il figlio,
Perchè l’Italia amò. Là ginocchioni,
Bendato gli occhi, egli invocò sua madre,
Misero! e non volea morir. Ma a un cenno
Sei palle di moschetto
A lui spezzâro il petto,
Spensero il lume a lei dell’intelletto.
Riman sull’erba dell’iniquo campo
Ancor de la sua mano
Sanguinosa lo stampo.
Or ch’ella udì gridar: «Viva Vittorio
Novello redentore!»
Vola supplice a Lui, perchè sul ciglio
Rimoto de le mura
Salga ed appelli il suo defunto amore
A sorger fuore da la sepoltura.
Cela commosso una pietosa stilla,
E dell’Arena Ei sale
Per le romane scale, ove l’attende
Come un cratere mobile di genti. —
Martiri santi che entro là cadeste
Non renitenti ai morsi
De le tigri e de gli orsi,
O voi rapiti a la feconda e nova
Sublimità de la cristiana idea,
Se Dio nell’agonie, la visïone
Del velato avvenir vi concedea,
Certo esultaste nel mirar quest’ora
Trionfale dell’italo riscatto
Che fatalmente maturar dovea
A’ rai de la divina
Crocefissa virtù di Palestina.
E in vero, quella folta
Di popolo redento
Nell’àmbito raccolta
D’insigne monumento,
Quegl’infiniti cor che batton tutti
Come un sol core, è uno spettacol degno
Dell’occhio del Signore. —
Ma chi son quegli arditi
Mezzo vestiti di color di fiamma
Che sbucan fuor da le marmoree valve,
Qual da battuto ferro arroventato
Schizzano le scintille?
La gente ondeggia per mirarli. Salve,
O Leon di Caprera: ei son lo illustri
Reliquie de’ tuoi Mille.
Vostra mercè, l’oppressa
Nobile plebe, al par del re, possiede,
La sua porpora anch’essa.
Forse è un presagio. Forse
Il cielo la destina
A diventar regina.
Or se un uccello valicasse il sommo
De la mole superba,
Tanto è gremita, non potria vedervi
Un picciolo fil d’erba
Da farsi il nido. E pur sotto le tende
De la loggia regale
Veggo uno scanno, ove nessun s’asside.
Chi l’oserebbe? Gl’Itali fèr voto
Solenne ne le loro
Libere feste di lasciarlo vuoto:
Però che quello è il loco ove dovrebbe
Sedere il Conte, l’immortale assente,
Che nell’urna di Sàntena riposa
La testa glorïosa.
E da quel loco che ti par deserto
Forse non vista or gode
L’anima del veggente
Creata angiol custode
De la novella gente. —
Silenzio! Sorge da le quattro bande
Modulata da innumeri strumenti
La melodia del patrio inno, e pei cieli,
E pei secreti portici si spande.
Sorge il popolo anch’esso e in riverente
Atto scoperto il capo,
Qual per istinto con le mille voci
Intuona una severa
Canzon che par preghiera.
E in un sublime istante
L’anfitëatro in tempio si tramuta.
Ma perchè mai sta muta
In questo giorno la propizia voce
Del sacerdote? ed anzi per la chiesa
Farnetica l’offesa?
Perchè mai la celeste
Religïon de gli avi miei che nacque
Consolando lo schiavo, ora ai redenti
Nipoti maledice
E ne abborre le feste?
XII.
Ma tu dal mondo col pensier fuggita,
Sazia di vita, con le mani in croce,
Tu non m’odi, Maria:
Forse ti chiama di là su una voce
Più forte de la mia.
Tutto spira abbandono a te d’intorno.
Su gli avori del cembalo si posa
La polve neghittosa:
I fior che fûro tua delizia un giorno,
Or che non v’è chi provvido li bagni,
Chinano le corolle illanguidite:
Il capinero, che a le tue romite
Ore compagno, teco
Rivaleggiò nell’arte de le note,
Oblïato finì. Due giorni attese
Ne la sua conca cristallina l’onda;
Con voce moribonda
Chiamò, chiamò, ma niun l’intese: ed ora
Come in aereo avello
Giace ne la sua pensile dimora.
Ma poi che te non giunse
A trattener l’aspetto ed il singulto
Dei figli a piè del letto
Con. disperato culto inginocchiati,
O risoluta, addio. Sali all’Immensa
Regïon di chi fu. Là troverai
Qualche anima dal mondo dipartita
Che mi fu dolce in vita:
Parla ad esse di me. Di’ lor, che mai
Non le obliai: che nel mio cor v’è un loco
Dato a le tombe: e sul mio labbro, al mesto
Imbrunir d’ogni sera,
V’è un sospiro per esse e una preghiera.
Là troverai fra solitarie stelle
La madre mia. Sollecita a lo incontro
Ti si farà chiedendoti novelle
De le viscere sue. Dille: «L’àn fatto
Molto patir; l’àn tratto
Dall’una all’altra carcere, fra i ceppi,
Come un ribaldo. In pianto
Soletto errò mordendo l’inferigno
Pan dell’esiglio. Saldo
Pur lo tenne il benigno
Amor, la netta coscienza, e il canto.»
Ma quando assunta al glorïoso bacio
Sarai del Cristo, anima di Maria,
Ricòrdati d’Italia,
E abbracciata la croce,
Esci con questa voce:
«O Redentore, io vengo
Da la nobile e forte itala terra:
La terra tua, però che là su un sacro
Colle di voti e di laureti adorno
La verginella Ebrea
Che ti fu madre, un giorno
La povera casetta deponea.
Però che là tra i fasti
Del lido tiberino
Del sangue de’ tuoi martiri fecondo
Così sublime il tuo vessil levasti,
Che fu segnal divino
All’anime vaganti per il mondo.
Ma ohimè! una serva avara e frodolente
Schiatta di gente che non ha famiglia,
Là nel tuo santo nome
Intenebra de’ popoli la mente,
Turba le fedi e i cuori,
Il delitto consiglia
Complice grida il verecondo cielo
De le sue vane e ruggini saette,
Vuol leggere vendette
Fra le linee d’amor del tuo vangelo:
E la città dei sette colli è fatta
La cittade dei sette
Dolor. D’un vecchio infermo
Gravita in testa il pallido triregno,
Al par di tre diademi
Di terror, di vergogna e d’anatèmi.
Il successor di quello
Che presse il piè sul collo umilïato
Del più superbo dei superbi Svevi;
Il successore del levita audace
Che tentò dominar popoli e regi
Dal suo seggio di pace;
Che fra le zone de le triple mura
D’un feodal castello
Tenne tre notti eterne di rancore,
Ignudo i piedi, al gelo de le stelle,
Supplice un alemanno imperadore
Pria d’assentirgli un tiepido perdono
Che gli ridesse il trono;
Il successor di tanti
Inflessibili Santi
Piange e si curva con ginocchia umíli
Davanti a le più vili
Maestà della terra.
Re mendicante cerca
L’obolo da lo illuso o dal tapino,
Onde di poi si merca
Il cavallo e lo stil dell’assassino;
Tal che di Pier la rete
Vôlta è nel limo a pesca di monete.
L’immacolato, il mansueto, il pio
Stringe alleanza con l’iniquo e il forte,
Deliba il vin del vïolento, e segna
Fra le sacre cortine,
Al divoto chiaror del Santuario
I decreti di morte,
Le stragi perugine.
Il Vicario di Dio fatto è vicario
De lo stranier. L’altero
Roman patrizio sogna
Una Roma tedesca;
L’italïano maledice al dolce
Nome d’Italia. Il Sire
Dell’anime divenne
Servo a la gleba, e per due tristi palmi
Di terra isterilita,
Dei fratelli, dei figli e dei nipoti
L’anima giuoca e la seconda vita;
Anzi che far lo splendido rifiuto
Che gli aprirebbe le dorate porte
D’un avvenir d’amore.
Imbelle pescatore,
La navicella che gli desti in sorte,
Fra i turbini del secolo avventura
Per femminil paura
De la sua ciurma cupida e feroce.
Ahimè! Signore, ei diventò l’amara
Croce de la tua croce.» —
Etal parlò di fronte al Nazzareno
La bëata sdegnosa;
Poi rivolgendo un pio
Malinconico addio
Per gli abissi dell’etere sereno
Al suo mondo natìo, vide là dove
Il Tevere si move
Tra le ruine come un serpe verde,
L’insidïoso Satana con l’ale,
Largamente rotar sul tenebroso
Tetto del Quirinale:
Poi lo rivide in un balen, mentito
Sotto le spoglie di stranier romeo
Perdersi cauto, come chi congiura,
Fra i cupi archi e le mura
Frante del Coliseo.
XIII.
Vecchio infelice da la bella aurora,
Dall’avvilita sera,
O Pio, tu désti una pietà profonda.
Quanto mutato! — Oh, ti sovvien quell’ora
Che in faccia a una commossa infinita onda
Di popolo esultante che piangea
Ài benedetto l’itala bandiera?
Quello fu un giorno! fu la più sublime
Festa dell’alme. Ogni privato ostello
Diveniva una chiesa. Ogni vascello
Recava dall’esiglio
Dei perdonati. Il pastoral valea
Tutti gli scettri de la terra. Italia
Era un inno: era tua.
Chiamata da la lieta
Voce del suo profeta,
Ella balzò dal secolare avello
Fanciulla audace, credula, dicendo:
«Son qui, Signor, mi guida
Ove ti piace.» Oh, niuno
Nato di donna fu vicino a Dio
Come tu fosti allora, o Pio! — Gaeta
Spense il profeta. — O misero, che fésti
Di quell’ora potente
Da crëator? Perdesti
Una mortal battaglia
Nel campo de gli spirti e de la Fede,
E i vincitor ti fêro
Espïar con afflitti anni d’offese
Lente e di vitupero
Lo splendido peccato
D’avere amato il tuo gentil paese.
Impäurito all’opra tua, credevi
Ai flutti comandar de la fatale
Umanità che sale:
«Non andrete più in là.» Ma il flutto disse:
«Dio mi prescrisse d’avanzar.» — Con l’acqua
Lustral del tempio, e con la folgor sacra
Tentasti indarno l’albero novello
Di Libertade inaridire. Il Cristo
Pianse sul monte lacrime divine
Antiveggendo il fine
Tetro e la fame e l’agonia selvaggia
De la sua terra. Invece
Tu dall’infame scoglio
Di Gaeta ridesti,
Quando vedesti ripiombar un nembo
D’armi su la tua patria e di catene.
E al tuo riedevi insanguinato soglio
Schiavo tu pur, ma allegro
Di rivederla schiava.
Da quel giorno un’amara
Discordia è sorta in ogni onesto core
Fra i sentimenti e l’ara.
Iddio non vive ove non vive amore.
Egli dal pervertito
Aere del tempio e da le poltre celle
Dei monasteri è uscito.
Santificando l’oro e la sudata
Dignità del lavoro,
Ei venne ad abitar tra le sonanti
Officine, e l’arata
Terra, e le navi, e le accampate tende
Di chi col sangue la natal contrada
All’oppressor contende
Col moschetto pregando e con la spada. O
sacerdote, i nostri
Santi non son più i tuoi: le tue battaglie
Non son le nostre. Appesa a le muraglie
Dei domestici lari
Noi veneriam, raccolta
Nell’itala coccarda
La Croce Savoiarda,
Come civil sorella
Di quella de gli altari.
E tu l’abborri! — Le recenti nostre
Catacombe divine,
Ove cotanta carità fu spenta,
Stan su le meste chine
Di San Martin, nei fossi di Magenta:
E tu le abborri! - Ascolta. Ancor sei forte
Perchè ti vanti, artefice di calma,
Di serenar la morte,
Di volgere la chiave
De le immortali porte,
Perchè con la soave
Vïolenza dei preghi,
Tu di’, che sleghi l’anime dei padri
Oltre la tomba e de le dolci madri.
Noi pur vogliam nei santuari stessi
De’ nostri avi pregar: noi pur vogliamo
Benedetti dormir come in famiglia,
Sotto i loro cipressi:
Ma ancor vogliam la intera
Patria che è nostra. Pèra
Chi lo contende. È ancor inulto e caldo
Il cenere d’Arnaldo. Oh pria sepolta
Nel buio fondo de le sue marine,
Prima coperta da le lave ardenti
De’ suoi vulcan la cara
Penisola rimanga,
Prima che un’altra volta
De le sue genti l’unità si franga!
O Pio, tu désti una pietà profonda!
Come un nocchiero che domanda aita
Sopra l’antenna d’un navil che affonda,
Da la sublime cupola del suo
Tempio con voce fioca,
Straniero eterno, Ei gli stranieri invoca.
Vede apparir sull’orizzonte i segni
Profetici del tempo
Che ai tre dannati regni
Del Tevere, del Bosforo, dell’Istro
Vanno annunziando l’ultima sventura:
Sente salir dal Vaticano un tristo
Vapor di sepoltura,
E repugnante invano
In cor si vaticina
L’ora e l’angoscie de la sua rovina.
Così non lo mertasse! —
Vecchio infelice, abbassa gli occhi, e mira
Roma là giù. Fra i ruderi s’aggira
Un popolo che freme
Di vegetar sotto il tenace sguardo
Del delator codardo, e non di meno
Fabbrica stili de le sue catene;
Irride a la commedia de le oscene
Tresche sacerdotali,
E te saetta con la sua festiva
Mordacità d’irriverenti sali.
Mira laggiuso. Innumeri leviti
Color di notte, principi vestiti
Color di sangue, urtan con piè superbo
Una plebe che à fame
Di libertà. e di pane,
Da lor cresciuta inoperosa e immonda
Accanto all’onda de le sue fontane.
Di su, di giù pel tuo tarlato trono
Inaccesso al perdono
Uno sciame d’impure
Cupidità s’arrampica, s’intreccia
Fra le tenebre, come
Usano i vermi ne le fosse scure.
Il nido abbandonato
Dall’aquile romane
Un covo è diventato
Di serpi oltramontane. —
Vecchio infelice, or guarda a la campagna.
Ella ti gira intorno
Calva, deserta, come una maligna
Fascia di solitudine e di febbri.
Un ciel di foco, un suolo di gramigna,
Un fiato d’aura immonda
Di quando in quando alcuni archi travolti
D’acquidotti senza onda:
Qualche logora tomba
Senza sepolti, uniche ombríe su prati
Infecondi, pelati;
Un filo di torrente
Che striscia fra i giuncheti, e non si sente,
Ove attorta, sui ponti, la ribalda
Vipera al sol si scalda.
Qualche buffala immota
Lorda di mota con la testa bassa
Musando guarda il vïator che passa.
Un branco di selvatici cavalli
Galoppando pei calli
Arsi, solleva a nuvole la sacra
Polve di venti popoli; la polve
Più illustre de la terra.
Ecco i pascoli pingui e le fiorite
Aiuole di Virgilio! ecco i giardini
Dei superbi Latini!
Vedi là quel drappel di vïandanti
Sollecito con l’arme in su le spalle,
Col zaino ai lombi, grave
Di mortiferi piombi,
Fendere al metro di scurrili canti
La solitaria valle?
Quegli son gli assassini
Che tu, sull’alba, ài benedetto, o Pio.
Non dubitar, dimani
Varcheranno i confini.
Ahi! sventura! sventura!
Odo voce ridir, misterïosa,
«Gli Iddii Ben vanno.» Qualche grande cosa
Certo qua giù si muore.
Ritirati, Levita,
Perchè con la tua livida figura
Mi nascondi il Signore!
- Brescia, 15 giugno 1862
NOTA.
Dimando scusa di questa nota che riguarda me solo solissimo. Pure la metto, perchè ognuno à i suoi orgogli, e anch’io ò il mio; quello, vo’ dire, di non essere mai stato in vita mia nè Ghibellino nè Guelfo, ma italianissimo sempre.
E però non vorrei si credesse, che questo mio sdegno severo contro il poter temporale, e questa lancia che m’industrio di rompergli addosso, fosser cose nate da ieri; fossero germogliate in causa delle recenti ribalderie del governo pontificio, o dello stomachevole baccanale, che cardinalume, vescovume e forestierume festeggiarono, per l’ultima volta, a Roma, di fresco.
No. Per me queste le sono idee vecchie, che ò cominciato ad avere quando ò cominciato a pensare, e non mi sono lasciato cambiare nè anche da quello stupendo sofisma del Primato. Anzi, un presentimento sempre mi disse di dentro, che prima di andarmene dal mondo avrei veduto andarsene, in compagnia dell’Austria, anche il regno dei preti. E così sia, chè n’è ora.
A prova di ciò mi è caro poter citare dei brutti versi scritti nei bei tempi della mia prima gioventù, quando ero in mezzo, per dirla col mio povero Beppe, alla baraonda tanto gioconda della mia buona Padova. Essi facean parte di un mostro che i miei amici ed io avevamo il coraggio di chiamar Ode. Ora codesto mostro, parlando, al suo modo, di patria, di religione e di amore, ch’egli chiamava l’Immenso tripode, su cui La Poesia brillò, fra le altre perle conteneva queste due strofe:
«Cantiam la Patria. È un gelido |
Le son quel che sono; ma sarà anche la povertà di ventisei anni che sono scritte, e nondimeno sanno di oggi. La data precisa non la saprei dire, perchè di quelle tante poesie, dopo fatte, non ne ò saputo più nuova. Ma i miei benedetti amici, che allora aveano quei benedetti vent’anni (dico dei vivi, perchè Dio me ne à tolti tanti!), ricordano e data e versi. I quali poi, chi li volesse vedere, ànno da essere di certo negli archivi della polizia austriaca, che tiene con materna inquieta sollecitudine conto esatto di tutto. La quale, mi ricordo, in quel tempo à avuto la bontà d’invitarmi da lei, per la sola onesta curiosità di sapere se ne fossi per caso l’autore. Anzi d’allora in poi, non so perchè, ci siamo un po’ rotti; e lo siam tuttavia.