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Di questi canti alcuni sono già noti, da “The Hammerless Gun„ che comparve nella Tribuna dell’11 gennaio 1897, a Il fringuello cieco che fu pubblicato l’anno scorso dalla Riviera Ligure. Dentro questi termini di tempo, il Marzocco dei miei cari amici Orvieto stampò dei “Canti di Castelvecchio„ i seguenti:
La Poesia
Per sempre
La nonna
L’ora di Barga
La fonte di Castelvecchio
La mia sera
Maria
Il sogno della vergine
del “Ritorno a San Mauro„
La messa
La Riviera Ligure di quell’animoso spirito che è Mario Novaro, pubblicò, dei “Canti di Castelvecchio„,
Le ciaramelle
La figlia maggiore
Il fringuello cieco
La canzone dell’ulivo
Il poeta solitario
La guazza;
e ristampò del " Ritorno „
La messa
La tessitrice;
La Flegrea pubblicò
Nebbia
La canzone della granata,
La Settimana:
Canzone dì Marzo
Passeri a sera.
Il Fanciullo mendico comparve nella Roma Letteraria. La canzone del girarrosto, in una magnifica raccolta in onore di Domenico Cimarosa, edita da quel povero buon Rosano. Mi ricordino le poesie “Il sole e la lucerna„ e “L’ usignolo e i suoi rivali„ al mio forte fratello Raffaele, alla sua compagna Angiola e ai suoi cari bimbi. Il dolce grido Ov’è? giunga sino alla campagna di Rimini, giunga sino alla mia buona sorella Ida che già tre volte sentì quella tenera interrogazione.
E Angiolo Orvieto perdoni se ho stampata, con “Maria „, anche “La mia malattia „ che fu scritta per lui solo e per gli occhi pii della sua Laura, nel suo album di nozze. Perdoni e pensi a Maria e a me col solito antico affetto.
E pensi a me, ascoltando il suono del “L’ora di Barga „, così soave e strano, coi suoi quarti acuti nel principio e poi i tocchi gravi delle ore, pensi a me la Donna gentile Emma Corcos, la quale, forse, consente con me che la poesia è contemplazione, e che non è mai troppo tardi contemplare, e perciò poetare.
E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l’odor del fiore che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del “gelsomino notturno„ In quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce (secondo l’intenzione sua), al nome d’un dio e d’un angelo, quello d’un povero uomo: voglio dire, gli nacque il suo Dante Gabriele Giovanni.
“La Fonte di Castelvecchio„ che fu offerta al Sindaco di Barga, Giulio Giuliani, sia, con altre poche, per ora, l’espressione della mia gratitudine alla Terra di Barga e a tanti suoi cittadini che mi vogliono bene: a Giulio Giuliani, a Salvo (ahimè! egli non vede questa seconda edizione!) e Giuseppe Salvi, ad Alfredo Caproni, a Raffaello Cantella, ad Enrico Nardini, a Luigi di Giulio Stefani, a Italiano Capretz, ad altri molti, e particolarmente alla memoria lacrimata di Antonio Mordini.
Infine “il Ritorno a San Mauro„ (i cui primi quattro Canti furono pubblicati in una gioia familiare di lui) sia particolarmente caro al sindaco di San Mauro, a Leopoldo Tosi, grande nome di lavoratore, che regge appunto ora quella Torre in cui tubarono le tortori, il dieci d’agosto... Quei canti dicano alla memoria del principe Alessandro Torlonia e della sua piissima figlia Anna Maria, i quali ci aiutarono nella nostra orfana fanciullezza e onorarono d’una bella lapide il mio povero babbo, dicano a queste buone memorie, e dicano al mio gentile ingegnere Tosi e al mio paesello lontano, tutto il mio amore.
Nella poesia “La voce„ è un’allusione che mi riconduce a tempi, che ora sembrano chiusi, ma che parevano voler condurre l’Italia alla condizione d’una Russia forse peggiore: d’una Russia non solo senza giustizia ma senza grandezza. Quanta prigione per nulla! O per molto, a dir vero: per sentimenti e idee. Fu nei primordi del socialismo italiano, in cui si processavano come malfattori quelli che aspiravano a togliere dal mondo il male; e si condannavano. Io protestai. E così ebbi occasione di meditar profondamente, per due mesi e mezzo d’un rigidissimo inverno, su la giustizia. Dopo la qual meditazione mi trovai allora assolto e per sempre indignato. Ai cari compagni di quei tempi un saluto!
Ho bisogno, per alcune poesie (ne nomino soltanto tre Un ricordo, Il ritratto, La cavalla storna), di ripetere alla lettrice e al lettore, che certe cose non s’inventano? In quelle e altre tutto è vero. Quindi quelle poesie non le ho fatte io: io ho fatto (e non sempre bene ) i versi. E per l’ultimo Canto del volume, per certe parole grandi che sono in quello, oh! creda chi legge, ch’esse sono come udite in sogno, e che della mia coscienza in esse è soltanto una piccola e vaga parte. Io forte? Io grande? Io immortale? Lungi da me tanto orgoglio! Ma mio padre e mia madre, oh! sì, qualche vanto di me farebbero! Fanno?
“La mia malattia„! Cara Maria che mi fu veramente sorella di carità! A lei è consacrato il ciclo (se così posso chiamarlo) dell'Avemaria. E non dispiaccia al lettore conoscere di lei qualche canto, che appunto a quel ciclo si riferisce. Essa compone (lo dico perchè la gente non si faccia di lei un’idea non rispondente alla realtà) tra una faccenda e l’altra per casa. Vorrei anzi che il lettore conoscesse (che pretesa!) un mio piccolo inno su lei, che è in “Miei pensieri di varia umanità„ pubblicati testè in Messina dal mio buon Vincenzo Muglia. Ecco
intanto i suoi “nulla„ dopo i miei “nulla„.
L’ALBA DEL MALATO
Ecco, fratello, l’ora in cui discende
a te, dopo i notturni incubi, il pio
refrigerio del sonno. Lieve stende
l’ala sua blanda sopra te l’oblio.
Intanto la fugace alba s’accende
lungo l’Italia, nel cospetto mio:
e il sole spunta e tremulo già pende
su l’Aspromonte e poi s’inalza. E io
così lo prego e così dico: O sole!
un raggio della tua fulgida vita
manda là, su quel letto di dolore:
su quella fronte che gli brucia e duole;
su quella guancia smorta e dimagrita;
e dentro dentro il suo nobile cuore!
RIMPIANTO
Anch’io, nei dolci sogni di mia vita,
sognai di voi, che mai non vidi e sento
garrire nella mia stanza romita,
figli, con voci piccole d’argento.
Oh! per voi certo queste magre dita,
così lodate nel mio buon convento,
la bella veste avrebbero cucita
con bianche trine e lunghi nastri al vento!
Erano sogni; sono: e nell’eterna
ombra voi resterete, e su voi scende
l’oblio del tempo, o figli miei non nati.
Sogni! ed è vana l’opera materna
e vani i baci; chè nessun mi tende
le sue manine, o figli miei non nati!
DOPO IL RITORNO
- a Laura
Nel cassettone ch’all’aprirlo rende
subito odor di spigo e di gaggia,
tutta in assetto, tutta liscia, splende
la biancheria.
Splendono tutti i mobili che un panno
intriso d’olio ripulì pian piano;
splendono i vetri cui deterse il ranno
e la mia mano.
Laura, io riposo: per un poco io l’ago
lascio ed i ferri, le mie tacite armi;
e siedo e penso; e dal pensier mio vago
lascio portarmi.
Lascio portarmi a ritrovar la prole
ch’ebbi, di sogni: gocciole di brina
antelucana, cui ribevve il sole
su la mattina:
a ritrovarli; ed a cantar sommessi
canti d’amore presso la lor culla
canti che sono un tristo e pio, com’essi
furono, nulla.
E con la trista parola nulla, o Maria, finiremo il nostro libretto? No. Noi manderemo un ringraziamento di cuore ad Alberto Marchi e a’ suoi bravi operai (possano sempre andar d’accordo!), che con tanto amore e pazienza hanno impressi questi versi; ai magnifici pittori, Adolfo De Carolis, che ha ornato così bene il libro, e Vittorio Corcos, un cui bellissimo “Mendico„ fu con mio dolore dovuto omettere, perchè la carta non ne riceveva l’impressione; all’editore Zanichelli, cioè Cesarino, che volle accogliere me nel suo lauri nemus; in cui si sta bene “alla grande ombra„; e in fine al nostro Alfredo Caselli che ha tanto fatto, vegliato, trepidato, col suo gran cuore e col suo gentile intelletto, per noi.