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CAPITOLO VI.
Nel quale si vede come San Giorgio, invocato da
due parti, non sapesse a cui porgere orecchio.
Era un fiorito esercito quello che la repubblica genovese avea posto sotto il comando di Pietro Fregoso, e che questi guidava dal campo di Vado all’impresa del Finaro.
Come Genova avesse provveduto a radunar gente, s’è già accennato a suo luogo. Seicento fanti dovea fare il vicariato di Chiavari, quattrocento il vicariato della Spezia ed ottocento le tre podesterie. La città di Genova dava quattrocento balestrieri, milizia sceltissima e assai riputata; Varazze, Savona e Noli, davano mille fanti; Albenga, i Doria d’Oneglia e i signori della Lengueglia, quattromila; Filippo Doria, del Sassello, cinquanta balestrieri; Giovanni Aloise del Fiesco e gli altri parenti suoi, si mettevano alla discrezione del Doge; gli Spinola di Luccoli, così quelli che possedevano castella, come quelli che non ne possedevano, erano obbligati a fornir per un mese dugento balestrieri; quanto al Doge, ne metteva del suo quanti bisognassero. E questi dovevano essere i più numerosi e più certi nel campo.
Invero, non si poteva a que’ tempi far troppo assegnamento sulle forze comandate, e questo non già per manco di prodezza nei combattenti, bensì per la poca e varia durata del loro servizio. Comuni e feudatarii non usavano imporlo che per breve stagione, talvolta di trenta dì, come nel caso citato degli Spinola, tal altra di quaranta; spirato il qual termine, le milizie in tal guisa raccolte lasciavano a mezzo l’impresa meglio avviata e si sbandavano tosto. Bene per moneta, o grazia speciale, si consentiva al comandante un servizio più lungo; ma questo per privati accordi dovea stipularsi; ad ogni modo, egli non era da farci a fidanza. Perciò, in ogni impresa, occorreva ai comuni ed ai principi aver gente in altra maniera, e, a dirla in poche parole, pigliar mercenarii in condotta.
Il nome solo di mercenarii è un doloroso ricordo per noi italiani. In quelle soldatesche vaganti era la forza, e la loro prevalenza nelle guerre del medio evo ci spiega come fosse possibile lo imperversare di tante fazioni e il soverchiare di tante tirannidi. Piccoli comuni inghiottiti dai grandi; questi oppressi dalla violenza di un solo, o lacerati dalle gare di molti; discordie tirate innanzi fino alla calata di un più possente nemico, che aggravi la sua mano di ferro sulla contesa città; vicarii d’Impero e vicarii di Chiesa, con tradimenti e raggiri, fatti padroni di vaste provincie, incautamente preparate a stimolare la cupidigia di stranieri monarchi; questo ed altro hanno procacciato i mercenarii all’Italia. Il bisogno, nei comuni e nei principi, di guerreggiarsi l’un l’altro, aveva tirato quella peste tra noi, e le grosse paghe avean fatto della milizia un gradito mestiere; laonde privati cittadini e gentiluomini agli sgoccioli radunavano spesso un certo numero di cavalieri e di fanti, coi quali andavano a soldo del migliore offerente.
Forastieri in principio, furono italiani dappoi. Italiano, per citarne uno fra tanti, era quell’Astorre Manfredi che comandava nel 1379 quella terribile compagnia della Stella, mandata da Bernabò Visconti a molestare il territorio dei Genovesi. Questi, per altro, il 24 di settembre di quel medesimo anno, la ruppero sulla spianata del Bisagno, tuttochè forte di ben quattromila uomini e saldamente appoggiata alla collina d’Albaro, menando prigione il maggior numero e deputando un commissario a giudicarli. Aveva egli dal Comune il mero e misto imperio e la podestà della spada, affinchè procedesse juris ordine servato et non servato, cioè a dire che potesse giudicare sommariamente. E così fece messer Giorgio Arduino, che tale aveva nome il fiero magistrato, mandando tutti que’ scellerati predoni alle forche.
Ma lasciamo in disparte le grandi compagnie, che non entrano nel nostro povero quadro, e ristringiamoci a parlare di quelle piccole masnade di venturieri, che, datisi al mestiere dell’armi, cominciavano ad essere caporali di lancia, e, venuti in fama di prodezza, riuscivano a far manipolo di gente, che poi conducevano a’ servigi di questo e di quello. La loro condotta era di tre sorte. Dicevasi che un condottiero serviva a soldo disteso, quando egli, con un dato numero di cavalli e di fanti, militava operosamente sotto il comando del capitano generale; era in quella vece condotto a mezzo soldo quando, senza obbligo di passare la mostra, e in forma di compagnia, guerreggiava a suo bell’agio le terre sopra le quali era mandato; da ultimo, stava in aspetto quando, per certa piccola paga, il principe, o comune che fosse, teneva impegnata a suo pro’ la compagnia del condottiero, per ogni caso di guerra.
A tal gente aveva fatto capo il Doge di Genova, per rafforzare l’esercito d’un buon nerbo di cavalli e di fanti. E sotto il comando di messer Pietro Fregoso erano venuti in condotta per tutto il tempo che avesse a durare la guerra, Firmiano Migliorati con dugento fanti, Francesco Bolognese con quattrocento, Vecchia da Lodi con cinquecento, Santino da Riva, lombardo egli pure, con altri cinquecento, Bombarda di Nè con trecento, Giovanni di Trezzo con trecento del pari e Pietro Visconte con dugento cinquanta. Cinquecento ne aveva Bartolomeo da Modena; dugento per ciascheduno Giovanni da Cuma, Soncino Corso e Carlo del Maino; trecento Cipriano Corso, duecento Antonello da Montefalco ed altrettanti il Vecchio Calabrese; cento il Giovine Calabrese, cento Battista di Rezzo, come Carlino Barbo, Bertone Maraviglia e Bertoncino il Poccio, da ultimo, ne aveva cinquecento egli solo.
Parecchi portavano anche condotta di lancie. Cinquanta ne comandava Firmiano Migliorati; venticinque Santino da Riva; dieci per ciascheduno Bartolomeo da Modena e Giovanni da Cuma; venticinque Beltramino da Riva.
E qui bisognerà fermarsi un tratto per dire che cosa fossero le lancie. Parlo pei meno intendenti di queste astruserie militari, che pure ricorrono tanto frequenti nelle storie italiane anteriori alla prevalenza dei cannoni e degli schioppi maneschi.
Nella cavalleria, più che nei fanti, era a que’ tempi il nerbo delle battaglie. Questi, se arcadori e balestrieri, incominciavano la pugna; i cavalieri vi facevano poscia lo sforzo decisivo. Sepolti, per così dire, entro a montagne di ferro, portati da cavalli smisurati e coperti anch’essi di ferro, correvano a furia gli uni sugli altri, e vincitore era facilmente colui che levasse il nemico d’arcione. Il ferire, essendo intatte le armature, non tornava agevole, salvo in un punto, cioè sotto l’allacciatura dell’elmo. E a ciò, se il cavaliere non reputava più utile imporre un riscatto al caduto, badavano i serventi del vincitore e gli altri fantaccini accorsi nella mischia.
Così poderosamente armato e bisognoso d’aiuti, il cavaliere aveva sempre un cavallo di riserbo, talvolta anche due, ed un manipolo di pedoni con sè. Potevano esser quattro e cinque, non mai meno di tre serventi, uno dei quali armato di balestra, e un altro di lancia, o di partigiana. Costoro si chiamavano anche saccomanni; gli altri si diceano paggi, o ragazzi, nel primo significato del vocabolo, che è quello di servi, adoperati in umili esercizi. E tutta questa famiglia dicevasi lancia, giusta il costume degl’inglesi venturieri calati in Italia, che tolsero il nome dall’arma principale del combattente; laddove, più anticamente, da noi i cavalieri erano detti militi, per antonomasia, quasi i soli che meritassero tal nome, o barbute, o elmetti, dalla più nobil forma dell’armatura del capo. Quest’elmo, un panzerone di ferro e un’anima d’acciaio sul petto, bracciali, cosciali e schinieri di ferro, erano le difese del cavaliere; daga, e spada soda, lancia a posta sul piè della staffa, erano l’armi di offesa.
Nomi diversi, secondo i tempi e le fogge del loro armamento, avevano i
fanti. Portavano giaco e cervelliera di ferro, spada e mazza, oppure
una picca di smisurata lunghezza. Dicevansi tavolaccini e palvesarii i
balestrieri che combattevano al riparo d’un tavolaccio, o d’un
palvese, scudi alti quanto la persona e terminati in punta, che si
conficcavano in terra. Le balestre (chi nol sa?) erano aste di legno,
cui s’adattavano archi di ferro; le maggiori avevano un piede, di
guisa che il balestriere non durava altra fatica che di tenderle,
appuntarle e scoccarle; altre, più grandi, e dette balestroni, o
spingarde, specialmente adoperate nella difesa, o nell’assedio delle
fortezze, si montavano la mercè d’una girella e scagliavano tre
verrettoni, e all’occorrenza anco pietre.
L’argomentò mi tirerebbe a parlare eziandio delle macchine; ma il troppo stroppia e fo punto. Tra fanti e cavalli, bombardieri, artefici e bagaglioni, erano forse quindicimila sotto i comandi del Fregoso, all’impresa del Finaro. Pochi erano i cavalieri in paragone degli altri; ma i luoghi montuosi e ristretti in cui era portata la guerra, non richiedevano gran nerbo di gente a cavallo. Del resto, in aiuto alle lancie, militavano con messer Pietro molti nobili genovesi, e tra essi quasi tutti i giovani della casata Fregosa.
Le prime bandiere giunsero in vista del Finaro il giorno che era stato indicato, cioè a dire il 5 del mese di dicembre. Le vedette collocate dal marchese al passo delle Magne, si ritrassero a Verzi e di là fino al Calvisio, per dare avviso dell’approssimarsi del nemico. Galeotto aspettava il Fregoso al passo di Val Pia, per sbarattare le prime compagnie che si fossero perigliate laggiù. Ma messer Pietro non avea fretta di calare nella valle; per quattro giorni intieri stette sul poggio di Castiglione, aspettando l’arrivo di tutta la sua gente; e frattanto gli artefici, per suo comando, prendevano a far bastita in quel luogo.
Dicevasi bastita, o battifolle, quell’edifizio che un esercito innalzava in prossimità del nemico, per comandare un passo contrastato, o una città assediata, ed era alcun che di simile al vallo degli antichi romani e al campo trincierato degli eserciti moderni. Facevasi di legno e di pietre, munivasi di steccato, di scarpa e di fosso tanto più profondo quanto più era consentito dal tempo e richiesto dalla poca eminenza dei luoghi. Colà dentro riparava l’esercito con tutte le sue salmerie ed ingegni di guerra, così per custodirsi da un colpo disperato del nemico ed aver tempo a mettersi in arme, come per tornarvi a rifugio e riordinarsi nel caso d’una sconfitta.
Messer Pietro era uomo avveduto e non gli accadeva mai di badare ad un negozio, che non ponesse mente in pari tempo a tutte quelle cose che potevano aiutarne il buon esito. La sua bastita non appariva una delle solite a farsi in somiglianti occasioni; capace era e fortissima, con quattro torri sugli angoli, come se anche di là dond’era venuto temesse egli un assalto. Que’ monti, che scendevano dirupati fin presso al mare, gli parean traditori, ed egli inoltre, quanto al senno di poi, non voleva rimorsi.
Quella bastita, del resto, anche avanzandosi egli col grosso delle schiere entro la valle del Finaro, doveva rimanere il suo ricettacolo, il suo emporio, la sua piazza forte. Però l’aveva innalzata in luogo così eminente e lontano, e fatta così ampia, così validamente munita. I Finarini, che stavano spiando tutto ciò dalle loro beltresche e battifredi rizzati sui colli di rimpetto, in cominciavano a beffarsi di questo Fabio temporeggiatore, e delle sue fabbriche tanto lontane.
— Scenda, — dicevano essi, — venga alla prova sotto le mura di Castelfranco e vedrà se, scompigliato al primo urto, gli riesce di tornare in salvo su quella bicocca. —
E messer Pietro, la mattina del 14, bravamente discese. Santino da Riva, colle sue lancie, correva sulla sponda sinistra del torrente di Pia, per assicurare le spalle dell’esercito dalla imboscate nemiche. I quattrocento balestrieri di Genova calarono in bell’ordine sotto il comando di Nicola Fregoso, giovin cugino di Pietro, e s’avviarono verso la foce del torrente. Giunti ad un luogo coltivato, che avea nome di Vigna Donna, si fermarono, con gran meraviglia dei difensori di Castelfranco, che si aspettavano un assalto e stavano ai parapetti, pronti con verrettoni, sassi, e pece bollente, a respingerli. Questo per la difesa del castello; ma dietro ai saglienti dei bastioni c’era preparato dell’altro, per attaccar battaglia sul lido. Erano colà forse due mila Finarini appostati, che dovevano piombare sul nemico, a mala pena si fosse avventurato all’assalto.
Ma messer Pietro non volle pigliarsi la briga di andarli a cercare. Piantatosi a Vigna Donna, accennò di volervi attender battaglia, e, poichè questa non gli fu data, di volervi dormire. E giunse difatti la sera, senza che egli si fosse scostato di là. Il luogo doveva piacergli di molto, poichè egli ci stava ancora la mattina vegnente; anzi ci avea messo casa. Il principio d’uno steccato appariva in quel luogo; il fosso era scavato in giro e il cavaticcio ammontato a rincalzo dei pali, minacciosamente aguzzi e appuntati all’ingiù. Quello era stato il lavoro di tutta la notte, e certamente messer Pietro ci aveva fatto vegliare la metà dell’esercito. Di torri non c’era ancor segno in quel luogo; chè sarebbero state opere inutili. Il palazzo di Gandolfo Ruffini, murato in quella vigna, era parso la man di Dio al prudente capitano, che n’avea fatto il mastio della sua nuova difesa. Una strada coperta, tutta irta di punte, metteva dal battifolle improvvisato fino alla bastita del poggio di Castiglione.
I difensori di Castelfranco incominciarono a capire il disegno di messer Pietro. Voleva esser sicuro del fatto suo, il capitano genovese, e dar battaglia colle spalle al coperto. E quanta riserva di pali faceva portar tuttavia da lunghe file di bagaglioni! Ormai ce n’erano tanti accatastati là dentro, da farne, non che una doppia, o tripla stecconata, una selva.
Così passò la giornata del 15; i Genovesi lavorando senza posa a rafforzare il battifolle e portando sempre nuovo legname; i Finarini aspettando un assalto da alcune compagnie di fanti, che proteggendo i lavori dei manovali, accennavano di avvicinarsi a Castelfranco. Erano giunti a due balestrate dalle mura, nel luogo detto di San Fruttuoso, poco stante dalla spiaggia del mare; ma non s’inoltravano di più.
— Che diavol fanno? — si chiedevano i difensori di Castelfranco l’un l’altro. — Oramai, il battifolle di Vigna Donna è diventato una legnaia.
— Provvedono forse ai casi loro per quest’inverno, che sarà freddo laggiù.
— T’appiccherà il fuoco messer Galeotto, statene certi; e di qui ci vogliamo goder la fiammata; —
Questi i ragionari sul parapetto. Intanto giungeva la notte, senz’altro di nuovo per tutto quel dì, tranne qualche colpo di balestra scambiato sul lido tra le vedette dei Finarini, appostati sotto Castelfranco, e alcuni più audaci scorridori nemici.
La notte fu buia e tempestosa; soffiava il libeccio e il mare frangeva rumoroso alla spiaggia. Tuttavia, dall’alto dei bastioni si udiva un continuo rumore nel campo, un alternarsi di voci, un cozzar di ferri, un cigolar di ruote, ed anche un picchiar di martelli e di badili, che indicavano una strana assiduità di lavoro.
Messere Antonio del Carretto, che con sessanta animosi ed esperti soldati difendeva il castello, venuto nel cuor della notte, com’era debito di buon capitano, a fare la sua passeggiata lunghesso le mura, non dubitò di attribuire quello strepito di carri allo avanzarsi delle macchine da fuoco, che il giorno vegnente avrebbero preso a fulminare la ròcca. Quanto ai badili e ai martelli, pensò che continuassero il lavoro del giorno addietro, e non vi badò più che tanto.
— A domani, dunque! — diss’egli. — L’assalto è imminente. —
E in questa credenza, mandò un soldato ad avvisare il cugino Galeotto, che i Genovesi portavano innanzi le artiglierie.
Venne finalmente l’alba, quantunque grigia, piagnolosa e svogliata. Ma i suoi incerti barlumi non rischiararono nessun apparecchio di macchine, e in quella vece si vide un nuovo steccato a San Fruttuoso, come la mattina antecedente lo si era veduto a Vigna Donna. E l’uno appariva collegato all’altro, come ambedue alla bastita di Castiglione.
Capirono allora i difensori del castello che cosa significasse la legnaia del giorno addietro, e stupefatti domandarono a sè stessi se i Genovesi intendevano di andar oltre a quel modo, sotto i loro occhi, fino alla vista della Marina.
La cosa non era del tutto improbabile. I Genovesi andavano meritamente famosi in tutta la Cristianità, ed anco in Turcheria, per la loro eccellenza nelle opere di legname usate alla espugnazione della città. Quest’arte l’avevano ereditata da Guglielmo Embriaco, di cui ho raccontato altrove le mirabili imprese.
Per altro, dal valoroso Capodimaglio avevano anche ereditato il costume di menare arditamente le mani, e non era da credere che volessero lavorar di accette e martelli più del bisogno. Certo, se avevano fatte tre bastite in cambio d’una, egli c’era il suo bravo perchè.
Ed erano riusciti una meraviglia, quei tre battifolli, quantunque edificati all’infretta. Per una lunga diagonale, dal poggio di Castiglione insino a San Fruttuoso, dove la spiaggia del mare incomincia a restringersi sotto l’eminenza di Castelfranco, si stendeva non interrotto un ciglione, protetto da fosso e steccato. Il marchese Galeotto, che era accorso di buon mattino al castello, non potè rattenersi dallo ammirare l’operosità e l’avvedutezza militare del suo avversario.
Per contro, il non vedere le artiglierie sugli approcci, diè grandemente da pensare al marchese. Il nemico se ne stava cheto nel campo; solo erano usciti pochi drappelli di balestrieri, correndo un tratto del lido, sulla fronte delle opere avanzate, e scambiando, come il giorno addietro, qualche colpo co’ suoi. Badaluccavano; e frattanto messer Pietro proseguiva qualche suo alto disegno, che a lui non venia fatto d’intendere. Forse non ne aveva alcuno; ma in guerra, e pel nemico che deve indagare ogni cosa e fondarsi su tutti i possibili e su tutti i probabili, averne e non averne è tutt’uno; sconcerta sempre e fa rimanere sospesi.
Ora, l’incertezza non garbava punto al marchese Galeotto; il quale volle averne l’intiero, andando sul nemico da due parti, di fronte e di fianco, dalla Marina e dalla valle di Pia. Il Fregoso poteva non aver altro in mente che di espugnare Castelfranco, chiave del marchesato dalla parte del mare, e forse traccheggiava, vuoi per compiere le sue opere di difesa, vuoi per aspettar gente, o artiglierie che gli mancassero ancora. In questo caso, un assalto dei nemici doveva tornargli molesto; ragion questa per testarlo di colta. O meditava, tenendo a bada i nemici sulla Marina, di andarli a pigliar dalle spalle sui monti, e l’assalto improvviso anche da quella banda riusciva a guastargli il disegno. Pareggiate in una data misura le forze, chi assalta ha sempre bel giuoco.
A pareggiare le forze, ed anche un pochino le sorti, che sogliono quanto quelle aver peso nella bilancia, non parve a Galeotto esserci partito migliore che quello di una incamiciata. Nel fitto delle tenebre la pochezza del numero non faceva danno, anzi tornava a vantaggio, purchè i meno avessero cuore; inoltre, nello scompiglio d’un assalto non aspettato, una linea così lunga di accampamento si difendeva men bene che a giorno chiaro, contro un numero tre volte maggiore.
Così pensando, sceglie cinquecento de’ suoi più animosi e provati; li fa calare a tarda sera dal monte che corre alle spalle di Castelfranco e si rovescia con essi sullo steccato di Vigna Donna. Dalla marina altri ne escono in numero di forse trecento, e li comanda Barnaba Adorno, che non ha voluto abbandonare il suo ospite, poichè il giorno delle tristi prove è giunto ancora per lui. Questi e gli altri hanno indossato una camicia sul giaco, per riconoscersi nella mischia a vicenda.
Tutto andò francamente come avea disegnato il marchese. Prima a dar dentro furono gli uomini di Barnaba Adorno, dalla parte di San Fruttuoso. Giunsero senza intoppo sino all’orlo del fosso, lo colmarono con fascine, tempestarono di colpi la stecconata, e fecero impeto nel battifolle. Ma lì, a poca distanza dalle prime difese, l’ingegno acuto di messer Pietro avea seminato i tranelli, facendo scavare carbonaie e bocche di lupo, nelle quali cascarono molti assalitori a rinfusa. Lo scompiglio fu grande e poco il danno degli assedianti, che tosto si fecero addosso ai malcapitati ed appiccarono la zuffa.
Messer Pietro, dati i comandi più urgenti a spronare il coraggio de’ suoi, e lasciato in quel luogo il cugino Nicola, si partì dallo steccato di San Fruttuoso per correre indietro, a Vigna Donna. Il suo disegno non era stato indovinato dal marchese, appunto perchè era il più semplice. Pietro aspettava quell’assalto notturno, e volea trarne profitto, per mostrare ai nemici la saldezza delle opere sue. Ora l’assalto dato a San Fruttuoso, sulla fronte ristretta e quasi cuspidata del campo genovese, non gli pareva che una finta, laddove il gran colpo doveva esser ferito sul fianco, alla bastita di Vigna Donna.
Nè s’ingannava. Sorprese e rovesciate la scolte, si scagliava appunto allora il marchese sullo steccato. Rami, sarmenti, pietre, e quanto poteano avere alle mani, tutto gittavano i suoi fanti animosi nel fosso, per far la colmata. Incitandoli coll’esempio, fu egli il primo a scrollare con braccio poderoso i pali, a romperne la traversa a replicati colpi di scure, balzar dentro del varco, faticosamente aperto nel palancato, e, menata a tondo l’arme villana, incignare gagliardamente l’attacco.
Ma se per avventura fu terribile il colpo, non riuscì la difesa men fiera. Al grido delle scolte, allo strepito dei nemici accorrenti, si erano levati in armi i soldati genovesi e colle partigiane spianate venivano incontro a quelle bianche fantasime, piombate allora nel campo. Dàlli, dàlli! San Giorgio e Fregoso! Ammazza, ammazza! San Giorgio e Carretto! E la mischia s’impegnò d’ambe la parti accanita.
Messer Pietro, uomo di partiti se altri fu mai, per mettere lo scompiglio in mezzo ai nemici e far vedere in pari tempo alla sua gente come pochi fossero costoro e in poco spazio ristretti, comandò di portare innanzi fascine incatramate, appiccarvi il fuoco e gittarle a tutta forza di là dalla chiusa. I molti che ancora non avevano potuto penetrarvi e che facean ressa al palancato, sopraffatti da quella pioggia di fuoco, dovettero dare indietro solleciti e sparpagliarsi pei campi; intanto una torbida luce rischiarò gli assalitori alle spalle e mostrò ai genovesi quanto poco di terreno avessero, con tutto il loro impeto, guadagnato i nemici. Frattanto il Picchiasodo, che non avea niente a fare del suo mestiere, e sempre si doleva di stare colle mani alla cintola, imbattutosi in una catasta di pali aguzzi che erano avanzati agli artefici, prese, colla fretta di un uomo che lavorasse a cottimo, a sfrombolarne gli assalitori. Volavano i tronchi l’un dopo l’altro, rombavano in aria, cadeano nel fitto dei combattenti, ammaccavano le cervelliere, rimbalzavano sulle braccia, chi coglievano di punta e chi di schiancio, facendo ognun d’essi il lavoro di quattro soldati. Anche il marchese Galeotto ebbe a saggiarne la forza, che uno di quegl’insoliti verrettoni gli portò via netta la scure dal pugno. Anselmo Campora seguitava a picchiare (e come sodo!) mostrando coi fatti di non averlo scroccato, il suo soprannome di guerra. E intanto, dàlli, dàlli, ammazza, ammazza, le grida cozzavano come i ferri; San Giorgio e Fregoso, San Giorgio e Carretto s’incontravano in aria, accompagnati salivano al cielo.
Il povero santo delle battaglie sicuramente udì quelle invocazioni notturne, dal luogo de’ suoi celesti riposi; ma io porto opinione che egli, per non sapere a cui porgere orecchio, tagliasse corto, dicendo che la notte è fatta per dormire, e si voltasse dall’altro lato, lasciando a’ suoi divoti la cura di levarsi d’impaccio da sè.
Grande fu l’uccisione da ambe le parti. Ma gli uomini di Galeotto non potevano, con tutta la loro maravigliosa prodezza, fare un passo più oltre, serrati com’erano e oppressi da una moltitudine di nemici. Oltre di che, dalla parte di San Fruttuoso era cessato il frastuono delle voci e dell’armi; segno che Barnaba non avea potuto sfondare la cerchia dei Genovesi e aprirsi l’adito fino ai compagni d’attacco.
Allora Galeotto comandò la ritirata, e, perchè non avesse a mutarsi in dirotta, con un pugno de’ suoi migliori la protesse egli medesimo fin oltre il fosso; indi, col favor delle tenebre, nè volendo messer Pietro arrisicare i soldati in una caccia notturna, potè ricondursi in salvo a Calvisio. I Genovesi profittarono delle ore che ancora avanzavano al romper dell’alba, per isgomberare il fosso e rifar lo steccato.
Passarono quattro o sei dì senza cose notevoli. Messer Pietro faceva le mostre di dormire. Sapeva prodi i Finarini e, da buon capitano, mirava a stancarli, a condurli allo stremo, senza spreco de’ suoi. Il Picchiasodo solea dire che messer Pietro faceva come la gatta di Masino, che chiudeva gli occhi per non veder passare i sorci; e frattanto si struggeva di quella inerzia apparente.
Un giorno, usando di quella dimestichezza che aveva col capitano generale (dimestichezza nata nel vivere un tal po’ brigantesco, che anni addietro aveva fatto con esso lui su quel di Novi) se ne lagnò apertamente con messer Pietro, padrone suo riverito.
— I pigionali della colombaia, — diceva egli, accennando ai difensori di Castelfranco, — son liberali a lor posta, mandandoci ad ogni tratto qualche regaluccio coi màngani, e a me la mi cuoce, di non poterli rimeritare con qualche pera zuccherina del nostro orto. Anche la signora Ninetta ne ha, son per dire, uno spasimo, e se la mi crepa un giorno o l’altro, state sicuro che gli è proprio di stizza. —
La signora Ninetta era, come il lettore arguto avrà indovinato alla prima, una bombarda, e aggiungerò la più bella del campo e la prediletta di Anselmo Campora, che amava caricarla e darle il fuoco egli stesso, senza aiuto di valletti.
— Chètati, via; — gli disse di rimando messer Pietro; — c’è tempo a tutto. Prima di metter mano alle artiglierie, dobbiamo impadronirci della Marina e piantarci saldamente a cavallo. Che diresti di me se, mentre tu fossi qua a sfrombolare quella colombaia, come la chiami tu per dispregio, non ricordando che l’hanno murata i Genovesi tuoi padri, io lasciassi calare quattromila uomini a far impeto sui tuoi passavolanti, cortane e falconi, in un luogo dove non potrei certo spiegare tutta la mia gente in battaglia?
— Voi dite sempre bene, messer Pietro, e meglio operate; — rispose il Picchiasodo; — ma infine, sapete, amor di padre....
— Sì, sì, lo capisco; — interruppe l’altro ridendo, — Dirai dunque alla signora Ninetta che stia di buon animo, e si risciacqui la bocca, che presto avrà da usare tutti i suoi vezzi e le sua moine più dolci. —
E messer Pietro mantenne la parola. Nella notte sopra l’Avvento, assicuratosi con una grossa guardia di fanti dalla parte di Calvisio, che il nemico non s’attentasse di molestarlo sui fianchi, s’inoltrò verso la Marina col grosso dell’esercito. Da Castelfranco udirono lo scalpiccìo di quella grande passata; ma, per la notte buia non potendo aggiustar la mira, poco o nissun danno arrecarono coi verrettoni e coi sassi alle spedite compagnie del Fregoso.
Il marchese Galeotto, col fiore de’ suoi combattenti, aspettava il nemico alle prime case della Marina. Furioso lo scontro; accanita la pugna; i Finarini fecero miracoli di valore per una intiera giornata. Quivi si segnalò Paolo Adorno, nipote di Barnaba, combattendo a corpo a corpo con Giovanni di Cuma, che fu balzato d’arcioni e campato a fatica dai suoi serventi e compagni.
Vantaggio di quella giornata, in apparenza, nessuno. I Finarini, a maggior sicurezza e fors’anco ad insidia, si ritrassero sotto le mura del Borgo; i Genovesi, padroni della Marina, non ardirono di mettervi il campo, e solamente vi collocarono alcuni drappelli per invigilare il nemico.
Per altro, messer Pietro si sentiva oramai da quella parte aver le mani più libere, e allora comandò ad Anselmo Campora di condurre innanzi le artiglierie, per battere finalmente il castello.
Erano queste artiglierie, con nome vecchio, una cosa nuova, cioè vere armi da fuoco, non più macchine da trarre per forza di contrappeso, o di tensione, come usavasi dapprima. Una polvere infiammabile, che alzava per la propria virtù esplosiva corpi leggieri in cui fosse rinchiusa, era conosciuta dugento e più anni addietro; ma per assai tempo si restrinse a far volare certi razzi, nè fu usata ad avventar palle e saette, se non intorno al 1300. I cannoni, le spingarde, gli schioppi, che furono le prime armi da fuoco, erano canne di bronzo, e di non grave dimensione, adattate ad un fusto di legno. Semplici in principio e quasi manesche, le nuove artiglierie s’ingrandirono man mano e si fecero più complicate. La bombarda, ad esempio, che fu la più grossa e che apparve dopo la prima metà del secolo XIV, constava di due parti disuguali; l’anteriore, chiamata tromba, era una specie di mortaio di forma conica, a cui s’adattava un gran sasso ritondato e ravvolto in pelle, o tela cerata; la posteriore consisteva in un cilindro, in cui si metteva la polvere, e dicevasi mascolo, per essere in quella il maschio della vite che collegava i due pezzi. Nè sempre la carica si faceva con un sasso, ma altresì con un cartoccio di scaglia, fasci di verrettoni, fuochi artifiziati, bigonci di sassi, canestre, sacchetti d’ogni minutaglia, o fosse di piombo, o di ferro.
Colla bombarda si apriva la breccia nelle muraglie e nei ripari nemici; ma, essendone i tiri troppo rari, usavasi tener lontani dalla breccia i difensori, facendo spesseggiare colà i colpi d’artiglierie minori, che erano bombardelle, falconi, colubrine, cerbottane, ribadocchini. Inoltre, una bombarda di mezzana grandezza dicevasi cortana; passavolante la bombarda più lunga.
Toglievasi la mira con due traguardi, collocati alle due estremità della tromba, e alzando e abbassando la parte anteriore del pezzo, con piuoli, o zeppe di legno. La vite di mira doveva essere un trovato del moltiforme ingegno di Lionardo da Vinci. La carica, poi, non si accendeva colla miccia, bensì con ferro rovente, in forma di uncino, che si accostava al focone. Ad ogni colpo fatto, la canna si rinfrescava, ungendola d’olio, od anco di aceto; più tardi l’acqua giustamente prevalse.
Usavasi anche il mortaio solo, senza la tromba, sotto il nome generico di bombarda; e forse fu questa la sua forma più antica, che sottentrò ai màngani, ai trabocchi, alle briccole, ingegni di vecchio stampo, che tutti traevano, come il mortaio, in arcata.
La difficoltà di maneggiare queste armi, il tempo soverchio che si spendeva a caricarle, ed anche in parte il pericolo che c’era a trattare la polvere, furon cagione che l’uso di que’ graziosi ordigni per lunga pezza stentasse a volgarizzarsi e che per quasi tutto il secolo XV l’arte della guerra non n’avesse mutamenti essenziali. In molti luoghi i trabocchi e le briccole durarono a fronte delle spingarde e dei falconetti. Genova, ad esempio, non ebbe bombarde fin dopo la guerra di Chioggia. Il Giustiniani lo nota espressamente in due luoghi, accennando la moltitudine delle bombarde veneziane «ritrovate di nuovo per questo tempo (1379)» e, aggiungendo più sotto, «l’uso delle quali non avevano ancora i Genovesi.»
Tre di questi ingegni poderosi furono adunque tirati avanti, per comando del capitano generale, e il buon mastro dei bombardieri li fece collocare di fronte al castello. Altri ne furono piantati lì presso, ma di minor mole, detti cerbottane e falconi, e la mattina del 10 di gennaio incominciò la serenata, come il Picchiasodo la chiamava, in quel suo stile faceto che i miei lettori conoscono.
Dominava il concerto la signora Ninetta, che ad ogni colpo gettava un sasso di cinquecento libbre. Il suo primo saluto andò a dirittura a cascare dentro il castello, come impromessa di altri, non meno aggiustati ed efficaci, che dovevano uscire dalla sua bocca d’oro.
E questi non si fecero molto aspettare. Anselmo Campora (ho già detto
che il cavalier servente della signora era lui in persona) levò una
zeppa di legno di sotto alla gola della, bombarda, le abbassò il mento
d’altrettanto spazio, le fece posar tra le labbra una di quelle
giuggiole che ho detto di sopra, tolse l’uncino rovente dal braciere,
l’accostò al focone, e tonfete, mandò il secondo saluto al castello.
La palla imbroccò il parapetto e, rotolando giù dalla cortina, si
trasse dietro una rovina di pietre. Un lembo di parapetto, colle sue
caditoie, era spiccato dal sommo delle mura.
Intanto che questo accadeva sotto Castelfranco, il Vecchia da Lodi, co’ suoi cinquecento fanti e una ventina di cerbottane, portate dagli scoppiettieri in ispalla e munite d’un piede da porle in terra quando occorresse di trarre, s’inoltrò dalla Marina fino ai prati dell’Altino, che sono a mezza via tra il Borgo e la spiaggia del mare. I lettori hanno già pratica del luogo; io aggiungerò che il Picchiasodo, saputo del comando dato al suo compagno d’armi, gli aveva raccomandato di salutargli tanto e poi tanto un certo ostiere suo amico, e di farsi dare un fiaschetto di quella malvasia, che teneva in serbo, per gli uomini di conto.
Ohimè, povero mastro Bernardo, quantum mutatis ab illo! La frasca e l’insegna ce le aveva tuttavia sul portone; ma da parecchie settimane non vendeva più vino e l’accoglienza era triste. Gli ultimi fiaschi glieli avevano bevuti gli uomini del marchese, tornando dal combattimento alla Marina, e se egli non si era ritirato ancora nel Borgo, ciò doveva attribuirsi ad amore del suo povero nido e ad una tal quale superstiziosa idea che la sua fuga dovesse tornare di mal augurio alla patria. Fino a tanto che io sarò qua, pensava egli nel suo corto cervello, non ci verranno a squadronare i genovesi; e dopo tutto, chi terrebbe d’occhio queste quattro panche e questi quattro caratelli vuoti?
Fu un brutto quarto d’ora per mastro Bernardo quello in cui i soldati genovesi comparvero all’Altino e fecero capo alla sua osteria. Ben si provò il dabben uomo a sorridere e a fare inchini a tutte quelle facce proibite (almeno, secondo lui, avrebbero dovuto esserlo in ogni paese ben governato); ma quando il comandante di tutti que’ diavoli scatenati gli ebbe detti i saluti e l’imbasciata del Picchiasodo, di quell’arnesaccio che lo aveva fatto cantare da quel babbio ch’egli era e che oramai sentiva di essere, il povero mastro Bernardo fece a dirittura una smorfia.
— Maledetta lingua! — borbottò egli tra i denti.
E borbottò ancora di più, quando, sotto pretesto di cercargli il vino che non aveva, quei furfanti si sparpagliarono qua e là per la casa, sguisciarono in cantina e gli sfondarono le botti, che non ci avevano colpa.
Per contro, siccome ogni ritto ha il suo rovescio, mastro Bernardo ebbe in quel medesimo giorno vendetta allegra di tanto dispetto. Sui prati dell’Altino, il Vecchi da Lodi si scontrò nei soldati del Finaro e lì, fino a tarda sera, altro che botti sfondate! Cento cinque genovesi restarono, tra morti e feriti, sul campo. Dei Finarini, che erano appostati in luoghi eminenti, o coperti, pochi furono feriti, e questi dalle cerbottane, coi lor tiri di rimbalzo e lontani.
San Giorgio, come si vede, tirava innanzi a dormire.
La mattina vegnente, il Vecchio Calabrese co’ suoi duecento uomini andava in aiuto al Vecchia di Lodi, e ambedue, con impeto temerario, s’inoltravano fin sotto le mura del Borgo. Simili spacconate eran comuni in que’ tempi. La grande mobilità delle fanterie leggiere, e la nissuna delle nuove artiglierie, che sole avrebbero potuto tenere in rispetto gli audaci, consentivano di correre molto paese innanzi e indietro, senza fare e senza ricevere gran danno. Questo, come disse il poeta, «era il costume dei braveggiatori, che fan poche faccende e gran rumori.»
Senonchè, stavolta i braveggiatori s’erano spinti troppo sotto, e balestroni, e spingarde, e cerbottane (che anco di quest’armi da fuoco ne aveano qualcheduna al Finaro) mandarono un tale diluvio di roba assaettata sui malvenuti, che questi furono costretti a voltar le calcagna, e molti, anzi, non fecero a tempo.
Ma di queste e d’altre maggiori perdite d’uomini, poco importava al capitano generale. Con simili scascamuccie e affrontamenti quotidiani, egli teneva a bada il nemico, e, meglio ancora, lo aveva sempre sotto la mano; frattanto serrava i panni addosso a quelli altri che difendevano Castelfranco.
Nello spazio di otto giorni, la signora Ninetta e le due altre comari che le facevano compagnia, gittarono su quel povero baluardo la bellezza di cento sessantatre nespole. Per una bombarda, a que’ tempi, sei o sette colpi al giorno erano un bel trarre, e ne ho detto le ragioni più sopra. Le mura erano così profondamente scombussolate, che non poteano più reggersi; e ad ogni nuovo colpo ne crollavano con alto frastuono larghissime falde. Già sui parapetti e lungo i ballatoi non si poteva più stare.
Come il Fregoso vide in tal guisa avviato il lavoro del Campora, mandò sotto le mura un araldo. Allo squillar della tromba, Antonio Del Carretto, il difensore del castello, si affacciò sulle macerie.
— Per comando dell’illustrissimo capitano generale dei Genovesi, messer Pietro Fregoso, vi è intimata la resa; — disse l’araldo; — fatelo, e sia pel vostro meglio; se no, tra due ore si dà la scalata e non isperi allora di aver salva la vita nessuno.
— Di ciò non mette conto parlare; — rispose Antonio, con piglio tra non curante e faceto. — La guerra è cosiffatta, e cui non garba il giuoco stia co’ frati e zappi l’orto. Dite piuttosto, che patti ci fa il vostro capitano, se noi si rende questo mucchio di pietre?
— Libera uscita, — soggiunse l’araldo, — e portando tutti con voi le armature; ciò consente messer Pietro Fregoso, in segno d’onoranza al valore. —
Il bravo Antonio rimase un tratto sopra pensiero. Gli cuoceva di dover cedere e tuttavia ben vedeva di non poter resistere più a lungo. Per sè, avrebbe forse rifiutato; ma il patto era onorevole pe’ suoi compagni, e certo, poichè la difesa avea toccato agli estremi, meglio valeva portare a Galeotto cinquanta animosi soldati, che seppellirglieli sotto le rovine d’un castello perduto.
Così pensando, chiese ancora che gli si concedesse tempo fino al giorno di poi; avrebbe reso il castello, se nello spazio di ventiquattr’ore non gli giungeva soccorso. Messer Pietro gli fu tanto cortese da recarsi egli in persona sotto le mura, per rispondergli che non poteva contentarlo. Galeotto era chiuso nel Borgo e i Genovesi padroni della vallata; cedesse adunque, accettasse i patti larghissimi da lui consentiti a un così prode nemico, e co’ suoi occhi medesimi, nel tragitto dalla Marina al Borgo, si sarebbe sincerato della sfidata condizione in cui era.
Antonio ben vide che non gli restava altro scampo e si arrese. Ebbe all’uscita tutti gli onori che un esercito vittorioso potesse rendere al valore sfortunato, e mentre nel campo di San Fruttuoso le bombardelle e i falconi facevano gazzarra per questo primo trionfo delle armi genovesi, egli si ridusse malinconico al Borgo, coi suoi sessanta compagni, la sera del 18 gennaio.
— E uno! — aveva detto il Picchiasodo, palpando amorosamente il collo della signora Ninetta mentre i difensori di Castelfranco passavano muti e dimessi davanti alla loro capitale nimica. — Or viene la volta di castel Gavone. —
L’incontro di Antonio col marchese Galeotto alle porte del Borgo fu commovente. Antonio, triste e raumiliato, quasi non ardiva alzar gli occhi a guardare il cugino; ma Galeotto gli andò incontro con piglio amorevole, lo abbracciò e di altro non ebbe cura che di confortarne lo spirito.
— Di che vi accorate, cugino, quando io trovo nella vostra difesa argomento a sperar bene del futuro? La resistenza di Castelfranco ci ha fatto guadagnare un mese di tempo. La lega dei nostri congiunti ha avuto agio a raccogliere gli aiuti, che mi si annunzia esser pronti a Garessio. Anche di Francia ne aspetto. Noi qui possiamo tener saldo un anno, e in un anno molte cose possono accadere a Genova e altrove. —
Le parole di Galeotto furono molto lodate, come quelle che facevano testimonianza d’animo grande e in pari tempo avveduto.
A rinfrancare vieppiù lo spirito de’ suoi, quella medesima notte egli fece dal Borgo una vigorosa sortita generale. Antonio gli aveva detto non esser gran gente nella vallata, e Galeotto ne approfittò. Ributtate le prime schiere genovesi, piombò sulla Marina prima che il nemico avesse potuto raccapezzarsi, e fu tale la furia, che egli pervenne senza contrasto alla riva del mare, dov’erano tirate in secco alcune feluche e fregate corriere. Tosto i soldati vi balzano dentro a farvi bottino, e per fermo v’appiccavano il fuoco, se l’impresa non portava via troppo tempo; indi, con larga preda e buon numero di prigioni, se ne tornano indietro.
Comandava la spedizione Francesco del Carretto, figlio a Corrado e cugino di quel Marco, signore di Osiglia, che segretamente se la intendeva coi Genovesi. Galeotto lo aveva nominato suo capitano generale, in omaggio alla Lega, di cui aspettava, siccome ho detto, gli aiuti.
Con questo colpo audace si ricattarono i Finarini della resa di Castelfranco. Già l’ho detto e ripetuto; san Giorgio ancora non avea preso partito. E lo spirito conturbato di mastro Bernardo aveva, nel giro di pochi dì, una seconda consolazione. A farlo pienamente felice mancava tuttavia che un certo Anselmo Campora fosse preso e impiccato per la gola.
Ma già, contenti in tutto, a questo mondo, trovarli!