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CAPITOLO VII.
Come Giacomo Pico parlasse a madonna Nicolosina
e qual risposta ne avesse.
Riposiamoci un tratto dai combattimenti e dai pensieri di guerra. Il castello Gavone, lontano ancora da queste gravi molestie, c’invita. Lassù, in una camera alta del torrione dell’Alfiere (che guarda alla marina da ponente, come il torrione della Madonna a levante, mentre gli altri due, del Marchese e della Polvere, guardano, nello stesso ordine, dalla parte di tramontana) c’è il nostro Giacomo Pico, seduto la maggior parte del giorno su d’una scranna a bracciuoli, nella strombatura d’una smilza finestra, dond’egli beve la tiepida luce del sole.
La perdita del sangue lo ha infiacchito, lo ha reso bianco in volto come un cencio lavato; ma infine, quel che gli ha tolto di forza e di fierezza, gli ha aggiunto, in una certa misura, di leggiadria. Dico in una certa misura, intendiamoci; che non aveste a pigliarlo in iscambio d’un fior di bellezza, nato lì per lì e sbocciato sotto la penna dello scrittore, per comodità delle sue invenzioni. Vo’ dire soltanto che il ruvido giovinotto s’era in quella occasione raggentilito di molto e che aveva fatto una ciera, da pigliarci amore le donne a cui piacciono le pallidezze e i languori.
Madonna Nicolosina e madonna Bannina, figlia e madre, come sapete, consolavano spesso di lor presenza il ferito. La Gilda andava e veniva, aliava a guisa di farfalla, e trovava modo, ora con un pretesto, ora con un altro, di essergli sempre dattorno. Nè ciò gli sarebbe dispiaciuto (perchè una bella ragazza non fu veduta mai di mal occhio da alcuno) se a lui da molti giorni non avesse pigliato la smania di restar solo, almeno per dieci minuti, con madonna Nicolosina.
E questo, per l’appunto, questo che desiderava più ardentemente, non gli era anche riuscito. In quella vece, e più d’una volta, era rimasta sola con lui la Gilda, desiderio e tormento del suo amico Tommaso Sangonetto. La fortuna è cieca, avrebbe notato costui, se lo avesse risaputo. Ma il lettore, che già conosce un cantuccio del cuore di Gilda, penserà con ragione che non fosse tutta fortuna, quella che faceva trovare la ragazza a quattr’occhi col ferito. Senonchè, la povera Gilda sprecava ingegno e fatica; Giacomo Pico non le aveva mai detto pur una di quelle parole, che ella si aspettava sempre da lui.
Se la Gilda avesse avuto un miccino d’esperienza degli uomini, avrebbe saputo che quando uno di questi bipedi implumi è presso ad una donna non brutta, nè spiacente, e non incomincia a coniugarle quel verbo, gli è segno evidente che l’ha coniugato, o pensa di coniugarlo ad un’altra, E la Gilda, a guardarsi nulla nulla dintorno, avrebbe capito altresì dove fosse l’argomento delle coniugazioni di Giacomo Pico. Di belle ragazze, al castello, non ce n’eran che due.
Tornando al ferito, il lettore avrà argomentato di leggieri che, se egli poteva pensare ai colloquii e mandare dal profondo dell’anima le sue giaculatorie alla giovine castellana, il suo non era un mal di morte per fermo. Diffatti, la ferita, non essendo delle più gravi, si andava rimarginando, e la gioventù, questa, gran medichessa che la sa più lunga di tutto il dotto collegio, aveva secondato le cure del cerusico Rambaldo, che era, per altro, la prima lancetta del marchesato.
Ma ohimè, se una piaga si era risanata, un’altra s’era inciprignita; e questa era la piaga fatta nel cuore di Giacomo dagli occhi inconsapevoli di madonna Nicolosina.
Così, mentre il corpo si rinvigoriva di giorno in giorno, l’animo si struggeva nel desiderio di potersi aprire alla donna de’ suoi pensieri, o almeno di conoscere che cosa pensasse ella di lui. Amorevole e sollecita gli era parsa bensì in tutti que’ giorni e più assai che non fosse mai stata con lui negli anni andati, quando la tenera età, non che scusare, consentiva ogni dimestichezza maggiore; ma anche qui non c’era da cavarne un costrutto, essendo l’affettuosa cura un uffizio di pietà, naturalissimo nella donna, per chi soffre d’un male visibile, a cui ella possa portare rimedio, o sollievo. Ora, se egli avesse potuto dirle di quell’altro suo male invisibile che portava nel cuore, come sarebbe stata accolta la sua confessione da lei? Questo era il busilli.
A tutta prima, vedendola giungere all’Altino, aveva argomentato in cuor suo.... Che cosa? Nulla e tutto. Nicolosina era pallida, ansante, confusa; una immensa pietà le traspariva dallo sguardo smarrito; una ineffabile tenerezza governava i moti convulsi di quella labbra smorte, che per lunga pezza non poterono profferire una parola, una sola parola, E più tardi, quali cure affettuose! quale umanità più che fraterna negli atti! come pendeva ansiosa dai responsi di messer Rambaldo, che era venuto al letto del povero ferito! con quanta sollecitudine gli occhi della leggiadra castellana si partivano dalle labbra del discepolo d’Esculapio per andarsi a posare sul viso smorto di lui!
Che pensare di ciò? Un giorno gli venne in mente che ella sapesse la cagione del suo duello col Fregoso. Volea sincerarsene; ma le parole gli morirono sul labbro. E poi, come si è detto, madonna Nicolosina non era mai sola al suo capezzale.
E voleva altresì domandare del Cascherano. Che c’era egli di vero in quella chiacchiera di mastro Bernardo, che aveva fatto nascere il guaio? Di certo, l’ostiere, anco ingannandosi sul conto de’ due forastieri, non aveva inventato il personaggio e il matrimonio di pianta. E forse, anzi senza il forse, la Gilda ne sapeva l’intiero. Ma il chiederne a lei non avrebbe dato a divedere che troppo gli premeva di madonna Nicolosina? Tanto faceva aprirsi a dirittura con questa e dirle spiattellato: madonna, io muoio d’amore per voi.
Fosse almeno capitato il Sangonetto a trovarlo; si sarebbe raccomandato a lui, che pigliasse lingua da alcuno. Ma il Sangonetto aveva preso il largo; in vece sua, era diventato un pezzo grosso; tornato a mala pena dalle Langhe colla promessa degli aiuti, aveva spiccato il volo per altri lidi. Nessuno sapeva per dove; egli stesso, andato per pochi istanti a vedere l’infermo e trovar modo di bisbigliare una parolina alla Gilda (che lo vedea volentieri come il fumo negli occhi) non ne avea pur rifiatato. Vanaglorioso ed ingrato, il nostro Tommaso già sentiva la carica.
Diremo noi brevemente dove fosse andato; in Francia, alla corte di Carlo VII, il re di cui avea detto Lahire, che perdeva «allegramente» il suo regno, e a cui il fiore dei cavalieri francesi e una meravigliosa pulzella dovevano riconquistarlo più tardi; ci era andato, non già come ambasciatore, bensì col più umile e più sollecito ufficio di corriere, e portava, da buon corriere, una lettera.
In essa, Galeotto rammentava l’ossequio dei Carretti e la loro divozione ai reali di Francia; ricordava come un Nicolò, suo zio paterno, combattendo per Carlo e pel nome francese, fosse stato ucciso in battaglia dagl’Inglesi invasori; soggiungeva essere egli stato mai sempre nemico acerbo ai Fregosi, i quali, essendo Barnaba Adorno doge di Genova, avevano ingannato Sua Maestà, pigliandone molte migliaia di fiorini contro la promessa d’impadronirsi di Genova e darla a lui; e l’avevano presa e l’avevano tenuta per sè. Vendicasse adunque lo scorno patito, soccorrendo il Finaro contro i Fregosi. Questi erano odiatissimi a Genova, di guisa che sarebbe tornato agevole al re, combattendo i Fregosi e avendo dalla sua il Finaro, insignorirsi di quella repubblica. Anche Galeotto, come si scorge di qui, vendeva la pelle dell’orso. Costume dei tempi!
Andava dunque il Sangonetto con grande celerità e presentava la lettera. Essa piacque oltremodo al re, che s’era allacciata al dito la gherminella di Giano Fregoso e stimò d’avere gran sorte, se poteva, con poco disagio suo, dare a quel cattivo pagatore una grande molestia. A pronta dimostrazione dell’animo suo verso il marchese Galeotto, mandò subito al Finaro un prode italiano, allora ai servigi di Francia, messer Giovanni Sanseverino, con venticinque lancie, ed altri aiuti promise. Que’ cavalli intanto dovevano essere la mano di Dio pel marchesato, che molti invero non avrebbe potuto nutrirne, o adoperarne in quelle strette sue gole, ma di un certo numero avea pure mestieri, per contrapporli ai cavalli nemici e sostenere all’uopo gli assalti dei fanti.
Ed ecco perchè Giacomo Pico non aveva più visto il Sangonetto, nè potuto sciogliere uno dei nodi che più gli stavano a cuore. Intanto i giorni passavano; la guerra, non pure era cominciata senza di lui, ma vigorosamente condotta fino alla resa di Castelfranco, senza che egli potesse ancora uscir fuori e nelle aspre fatiche del campo acquetare un tratto le acerbe battaglie del cuore.
Ben presto, dal vano della sua alta finestra, potè vedere co’ suoi occhi il nemico. Una bastita per tutto l’esercito genovese era innalzata da due giorni a Monticello, proprio alla vista del borgo, e due grosse bombarde v’erano collocate a difesa. Tre battifolli subito dopo erano edificati più avanti, l’uno sul poggio di Maria, l’altro nella vigna di Nicolò Giudice, il terzo all’Argentara, sul fianco stesso della terra assediata. Quest’ultimo, per altro, non fu costrutto dai Genovesi senza grande spargimento di sangue.
Dicevasi allora che tante fabbriche militari si facessero per arricchire i Fregosi. Nicola, cugino di messer Pietro, intascava per ogni nuova bastita dugento fiorini, e questi in prezzo dell’opera sua, mentre assai più gliene erano pagati per l’opera degli artieri, ai quali non ne dava neanco cinquanta. Ma queste forse erano ciarle dei malevoli. Anche i nemici dicevano che tante bastite non servissero a nulla; eppure, la mercè di questi saldi ripari, l’esercito genovese aveva potuto farsi tant’oltre, in luoghi così malagevoli per natura, e pericolosi, poi, se tenuti da un forte e risoluto nemico.
In tal guisa era stretto il Finaro, che, a detta del Picchiasodo, non poteva uscirne un uccello a volo, che nol vedessero i Genovesi, ed egli inoltre poteva contare le casseruole e i tegami appesi alla parete nelle cucine degli assediati.
Questo era forse un vanto soverchio; ma certo la vicinanza dei nemici doveva parere già troppo molesta a Galeotto, che, insieme col fratello Giovanni, usciva ogni giorno a battaglia. Francesco, il capitano generale, non era più con esso loro; andato verso Garessio, per affrettar la venuta degli aiuti che mandava la lega, avea fatto come il corvo dell’Arca; non s’era più visto, e gli aiuti promessi, nemmeno.
Tardi ricordò Galeotto che il suo capitano generale era cugino di Marco, del tiepido signore di Osiglia; più tardi ancora riseppe che Genova a Marco e ai cugini suoi prometteva di dare la parte loro del marchesato, quella stessa che i loro antenati Emanuele ed Aleramo avevano posseduta. E quando ciò seppe, argomentò che dai congiunti suoi delle Langhe non aveva più nulla a sperare, e che le vie di Calizzano e di Osiglia, donde si sentiva sicuro alle spalle, non gli teneano più fede.
Non si smarrì tuttavia, non si perdette d’animo; che anzi, il sapersi solo, accrescendogli la malleveria dell’impresa, gli aggiunse le forze della disperazione. Sì, veramente, con mani e con piedi, come aveva scritto al doge di Genova, era egli inteso a difendersi. E quella sua baldanza inanimiva i Finarini, li incuorava non solo ad affrontare arditamente i pericoli, ma a sopportare con fermezza i danni della guerra.
E questi pur troppo erano gravi. Dal poggio di Maria, le cortane e le spingarde nemiche gittarono trecento pietre nel Borgo; trecento ne gittarono esse sole, e di gran peso, le tre bombarde maggiori, che tutte traevano a giusta mira contro la torre della Rasana, la più forte che fosse sulla cinta dei muri.
E Galeotto a rispondere con un’altra sortita, più vigorosa a gran pezza delle altre, Barnaba e Paolo Adorno lo seguono; Giovanni suo fratello, Giacomo figlio d’Oddonino, Lazzarino figlio d’Urbano, ed altri giovani egregi del suo parentado, si tengono ad onore di combattere, come semplici soldati, al suo fianco. Scende una grossa schiera da Calvisio, per la valle di Pia, e molesta i Genovesi alle spalle; si voltano essi per rincacciare gli audaci, ed ecco, sono assaliti di fronte, al battifolle del poggio di Maria, a quello dell’Argentara, con una furia che mai la maggiore. Basti il dire che in questo parapiglia improvviso, Anselmo Campora fu ferito accanto alla signora Ninetta di cui si fece riparo al corpo, mentre da solo sosteneva l’assalto di cinque nemici. Ne uscì, per altro, ad onor suo, con una di quelle che egli dicea graffiature e che altri avrebbe chiamato sberleffi belli e buoni, quantunque non belli, nè buoni. Ma la sua dama fu salva dalle ingiurie nemiche, e questo era per lui l’essenziale.
Gran danni soffersero i fanti delle tre podesterie intorno a Genova e dei vicariati di Spezia e di Chiavari. Il loro comandante, Carlino da Voltaggio, fu preso e condotto prigione, malgrado gli sforzi fatti da’ suoi per liberarlo. I passi erano angusti e in molti uomini si facea come in pochi; anzi, per la confusione che nasce dal numero, assai meno che in pochi. Il battifolle del poggio di Maria fu corso e ricorso dai Finarini; così quello dell’Argentara; prigioni potevano farne non pochi; ma perchè avrebbero portato tante bocche inutili dentro del Borgo? Li lasciarono adunque e tornarono nelle mura, carichi di bottino e di gloria.
Messer Pietro Fregoso, per la prima volta dacchè era venuto all’impresa del Finaro, si morse le labbra, e sino a far sangue; tanto fu la sua stizza per l’audacia del marchese e per la nissuna vigilanza de’ suoi.
In quel mezzo, giungeva il Sanseverino colle venticinque lancie e la promessa di nuovi aiuti di Francia. Galeotto, cresciuto mirabilmente d’ardire, disegnò tosto in cuor suo una bellissima impresa; che era quella di andare egli in persona a tentare un colpo su Noli, per togliere quel fortissimo luogo alla protezione dei Genovesi e in pari tempo impedir loro la ritirata, e intercettare le salmerie.
Ma qui, siccome col Sanseverino è tornato anche il nostro Tommaso Sangonetto, e Giacomo Pico ha potuto avere qualche utile ragguaglio da lui, sarà acconcio di tornare al castello Gavone e a quella camera alta, che è nella torre dell’Alfiere.
Le notizie raccattate da Tommaso Sangonetto intorno alla faccenda del Cascherano, erano più acconcie a mettere in pace, che non a turbare lo spirito inquieto di Giacomo Pico. Quel giorno incominciava bene per lui; il marchese Galeotto si disponeva a partire per alla volta di Verzi, donde, col favor della notte, per la via meno battuta d’Isasco, sarebbe piombato su Noli. Però non è a dire il rimescolamento che c’era nel castello per tutti gli apparecchi della partenza, e lo scompiglio che esso arrecava in tutte le consuetudini quotidiane della famiglia. Basti notare che madonna Bannina, tutta intorno al marito, non era comparsa nella torre dell’Alfiere, e madonna Nicolosina vi andò sola, ad una cert’ora del giorno, per salutare l’amico di casa e vedere se non avesse mestieri di nulla.
Il caso non poteva favorire meglio di così il nostro innamorato.
Madonna Nicolosina era un occhio di sole, l’ho già detto a suo luogo. Bionda i capegli, bianca la carnagione e svelta della persona come Diana, forse al pari della divina cacciatrice aveva il cuore muto all’amore; all’amicizia non già, che questa è natural sentimento di un’anima buona, laddove quello è singolare portato, rarissimo fiore, nutrito di tutti i sensi più delicati e riposti, che solo un felice concorso d’inesplorati e inavvertiti nonnulla può far muovere d’improvviso e riardere in noi.
E buona era Nicolosina, onesta e sincera come un cavaliere senza macchia e senza paura. Ho detto come un cavaliere, e giustamente; diffatti, sotto quella bionda e rosea parvenza di donna, egli c’era alcun che di virile; la lealtà, per esempio, e l’alterezza, spogliate di quella grazia languida, che la natura ha dato, insidia innocente, ma non meno pericolosa, alla più bella metà del genere umano.
Nata in altissimo stato, sentiva altamente di sè; superbia naturale e scusabile, che del resto non aveva pure occasione a mostrarsi, in mezzo ad un popolo di riverenti vassalli, i quali niente potevano vedere di strano in una dignità d’apparenze così celestiali e ammantata di tanta soavità, di tanta amorevolezza pietosa. Umana ed affabile, come sono così utilmente per sè e per altri i grandi della terra, quando si compiacciono d’esser tali, non c’era caso che la giovine castellana facesse patire anima nata, per alcuno di que’ capricci e fantasie di comando, che pure son tanto frequenti nelle giovani donne, male avvezzate, anche in condizioni più umili, da cieco amor di congiunti, o da libero ossequio di cavalieri cortesi.
La bellissima fanciulla entrò nella camera di Pico, senza timore, o peritanza di sorta. Non era ella in casa sua? Forse per la prima volta andava da sola in quel luogo; ma come nella accompagnatura non c’era stato mai un deliberato proposito, così nel giunger sola non ci poteva essere un’ombra di vergogna, o di dubbio.
Bensì Giacomo Pico, al vederla comparir tutta sola, si scosse. Il sangue turbato gli si ridusse con rapido moto al cuore, indi risospinto gli corse più veloce alle tempie. Ebbe allora come un bagliore negli occhi, diede in un grido di meraviglia, e, appoggiandosi forte ai bracciuoli della scranna, si alzò da sedere.
— Ah, ah! — sclamò ella, ridendo del suo riso argentino. — Per la prima volta, messer Giacomo, vi vedo un po’ di buon sangue sul volto. Ma sedete, vi prego; non vi scomodate per me.
— Non è più tempo di star seduti, madonna Nicolosina; — diss’egli sospirando. — Tutti i giorni si combatte, laggiù, ed io sono stato già troppo in disparte.
— Ma per giusta cagione, mi sembra; e con vostra buona pace, rimarrete ancora per qualche giorno tranquillo, messer paladino! — incalzò la fanciulla, con accento d’affettuoso rimprovero. — Il cerusico Rambaldo lo vuole e lo vogliamo anche noi, che non aveste a far ricadute!
— Che serve, madonna? — ripigliò Giacomo Pico, crollando malinconicamente la testa. — Sono un povero disgraziato a cui forse metterebbe più conto il morire.
— E perchè? — dimandò ella ansiosa. — Forse alcuna cosa vi manca, per viver felice tra noi? Parlate, messer Giacomo, parlate! Lo sapete pure, come qui tutti vi amano.
— Tutti! — ripetè egli, sorridendo a fior di labbro.
— Sì, tutti; ne dubitate? — replicò la giovinetta, rizzando il capo, con alto di leggiadra alterezza. — Sappiamo il debito nostro. Mio padre non è debitore a voi della vita? E quanti hanno vita e stato da lui, non vi sono obbligati del pari?
— Ah, non è di ciò che intendo parlare; — disse Giacomo Pico. — Non vo’ che mi si ami per gratitudine, io!
— Oh tristo! — sclamò Nicolosina, con accento di lieve corruccio. — E non è un nobile sentimento forse?
— Sì, — rispose egli confuso; — ma infine....
— Infine, — proseguì ella, — voi siete l’amico nostro, il servitor più fedele e più caro; mio padre....
— E sempre vostro padre! — interruppe Giacomo Pico, stizzito di non poter uscire da quella cerchia di affetti tranquilli e di accenni al suo umile stato.
Qui fu per madonna Nicolosina il caso di pigliare il broncio davvero.
— Messer Giacomo, e come? — chiese ella, tirandosi indietro un passo e guardandolo severamente. — Non amereste par avventura mio padre?
— Voi mi uscite di proposito, madonna Nicolosina! — gridò il giovine, riscaldandosi a sua volta. — Ah, questo è troppo ed io ho troppo sofferto. Fossi morto almeno, di quella stoccata, più pietosa a gran pezza delle vostre parole! E perchè, voi che mi parlate ora in tal guisa, siete accorsa a togliermi di laggiù, ov’io sarei presto uscito di pena?
— Non mi fate colpa di un uffizio di carità, ve ne prego; — rispose ella turbata. — Chi soffre ha diritto alle nostre cure, e più ancora quando egli soffre per nostro servizio.
— Ah, — soggiunse egli amaramente, — voi dunque non mi amate? —
La fanciulla lo guardò stupefatta. Egli incalzò la dimanda e fu per afferrarle una mano; ma ella lo rattenne con un gesto severo.
— Messer Giacomo, — soggiunse poscia, con accento impresso di dignità e di tristezza ad un tempo, — mi farete pentire d’esser venuta a darvi il buon dì. —
Giacomo Pico, il ruvido soldato, fu scosso da quelle meste parole. Ma non era della sua natura il trattenersi a mezzo di nessuna cosa che avesse impreso a fare. Quella occasione, poi, egli l’aveva spiata con tanta cura, attesa con tanto desiderio! Se egli l’avesse lasciata sfuggire quel dì, sarebbe forse tornata? Non lo sperava egli per fermo.
— Perdonate, — diss’egli, chiudendosi rabbiosamente sul petto quella mano che la giovinetta aveva respinta da sè, — ma io vi amo, vi ho sempre amata; eravate bambina ed io già vedevo in voi quella che siete oggi per me, la più bella, la più cara, la più desiderata fra le donne. Avevo sempre taciuto, sperando di ottenervi con opere eccelse, come ricompensa dovuta al valore. Stolto! Il primo venuto, perchè conte e signor di castella, mi aveva a vincer la mano! E quando, al mio ritorno dai signori della lega, seppi che andavate sposa a questo conte di Osasco, vedete, m’ha dato volta il cervello, non ho potuto padroneggiarmi più oltre. Ah, così fosse stato egli, com’io lo credevo, quando mi abbattei nel Fregoso; che forse in cambio d’esser passato fuor fuori, l’avrei ucciso io, e dato un avviso salutare a quanti ardissero ancora di contendervi a me.
— Ah! — esclamò la fanciulla, percossa. — Non era uno scontro col nemico di mio padre?
— No, col mio nemico, col mio rivale. Così almeno ho creduto; — rispose egli impetuoso.
Un senso di compassione profonda ricercò il cuore di madonna Nicolosina.
— Fo male a dirvelo, — ripigliò ella gravemente, — perchè l’atto vostro, se pensavate di far contro ai disegni di mio padre, non fu di amico, quale egli sempre vi tenne. Ma infine, sappiatelo, io non andrò sposa al conte di Osasco.
— Lo sapevo; — disse Giacomo Pico.
Nicolosina lo guardò, in atto di sorpresa.
— Lo sapevate? — dimandò ella, — Ma allora...?
— Oh, solamente stamane l’ho udito; — soggiunse egli tosto. — Il marchese Galeotto lo ha liberato dalla sua parola, non potendo oggi, in mezzo alle angustie e ai pericoli di una guerra, accettare dicevolmente una domanda, che era stata fatta nei giorni della sua prosperità.
— Così è per l’appunto; — diss’ella sospirando. — Povero padre.
— Ah, vostro padre ha nobilmente operato. Ma quell’altro, il vile, che fu sul punto di ottenervi, s’è pure affrettato ad accettare lo scampo!
— Non parlate così, messer Giacomo! Sebbene è giusto che la cosa debba aver questo fine, è debito nostro di dire che egli non ha risposto nulla. Ed è brutto, assai brutto, accusare gli assenti.
— Voi dunque rimpiangete quelle nozze! Amavate dunque il conte di Osasco, senza conoscerlo ancora?
— Messer Giacomo, — rispose la giovinetta offesa nella sua verecondia, — io non ho a dirvi se l’amo, o no; bene ho a dirvi che una fanciulla deve rispetto a’ suoi genitori e al nome che porta, e che voi dimenticate l’una cosa e l’altra in un punto.
— Ah sì! — sclamò il Bardineto, che sentiva la sferza e non era d’indole da patirla, nè da riconoscere in cuor suo d’averla meritata. — Io debbo tacere. Ama, povero sciocco, e taci! Servi, vassallo, e taci! Combatti, oscuro soldato, e taci! È il debito tuo. I tuoi padroni hanno voluto così; sul tuo corpo hanno diritto e sull’anima tua, questi superbi signori. Dite, madonna, non è egli proprio così?
— No, poichè chiedete il mio avviso, non è proprio così; — rispose Nicolosina, con risolutezza di cui qualche ora prima non sarebbe stata capace. — Avrei potuto partirmi di qui, fors’anco dovuto; rimango invece per difender me e la mia casa contro la vostra ingiustizia. Che sia il diritto dei signori sui loro vassalli e come stabilito, non so; ho imparato dal libro di Dio che tutti siam pari davanti a lui, nella speranza dei cieli, ma che ciò non muta e non scioglie i vincoli d’autorità con cui si governa la terra. Qui, poi, non vi disprezza nessuno; qui tutti vi son grati de’ vostri alti servigi; nol sarebbero, se vi tenessero in conto di un oscuro soldato, o di un vil servitore. E, viva Dio, checchè diciate, messer Giacomo Pico, checchè pensiate voi dei potenti (e come lo siamo vel dica la presenza de’ nostri giurati nemici alle porte di questo povero borgo) ingrati voi non potete dire i discendenti di Aleramo e della figlia di Ottone. —
Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Giacomo. Ferito da quell’accenno, che gli parve superbo, nè badando alla commozione vivissima che accendeva il volto della fanciulla, o vedendola in quel rossore più bella, così le rispose, infiammato d’amore e di sdegno.
— Sì, lo ricordo, lo vedo, quale distanza corre tra noi. E perciò ricuso la gratitudine vostra, nobile e accetto presente tra uguali, povera ricompensa ai minori, senza il suggello di quell’amore che toglie ogni distanza.... che dico, la toglie?.... che non ne conosce nessuna. Questo amore io v’ho chiesto, madonna; questo io vi chiedo ancora, a mani giunte, in ginocchio. Credete che io non valga quanto un cavalier di corona? Ma chi era il primo d’ogni illustre legnaggio, se non per avventura un oscuro soldato, che col valore del suo braccio incatenò la fortuna? Uditemi, Nicolosina; è nella vostra medesima casa l’esempio, se pure la storia dice il vero di voi. Chi era Aleramo, innanzi che egli piacesse agli occhi di Adelasia, della bella figliuola di Ottone? E chi fu l’avo del primo imperator di Lamagna, se non un barbaro discendente degli schiavi di Roma? Ho meditato lungamente le storie, madonna, e non ho trovato la ragione per che io debba esser da meno di chicchessia, poniamo d’un conte d’Osasco. E notate; da me non aspetterete mai cosa di cui il mio breve passato non sia impromessa sicura; ho il mio destino nel pugno. Ma voi mi siete necessaria, Nicolosina, voi ricompensa e stimolo a più nobili imprese. Così sta scritto lassù; perchè ricusereste l’ufficio che vi è assegnato dal cielo? —
Così folleggiava il Bardineto, ebbro d’amore e di rabbia, allorquando un improvviso fruscìo si udì per le scale. Madonna Nicolosina, che già stava per dargli risposta, si rattenne e gli fe’ cenno di non parlare più oltre.
Poco stante, l’uscio si aperse e una donna comparve nel vano. Era la Gilda.
La ragazza, che pure s’aspettava di trovare la sua giovine signora nella torre dell’Alfiere, rimase lì tutta impacciata e confusa, accorgendosi, con molta e non certamente grata sorpresa, d’essere capitata in mal punto. Questo le era dimostrato aperto dall’aria scontenta con cui la sua comparsa era stata accolta da Giacomo, e dal rossore di madonna Nicolosina, che, giovine com’era e non avvezza a quelle battaglie, non sapeva, e neppure cercava, nascondere il suo turbamento.
Perciò, come ho detto, rimase impacciata sull’uscio, senza fare un passo avanti, nè indietro, e balbettò, così per aver aria di dir qualche cosa, alcune parole vuote di senso.
Non meno impacciata di lei, madonna Nicolosina ebbe mestieri di tutta la virtù dell’animo suo in quel punto.
— Che cosa vuoi? — dimandò ella, in apparenza tranquilla, ma reprimendo a stento la sua commozione.
— Niente, madonna; — rispose la Gilda umilmente. — Ero venuta a vedere se messer Giacomo non avesse bisogno di nulla.
— Per ora no; — soggiunse Nicolosina; — ci sono io.... e debbo dire qualcosa a messer Giacomo Pico. —
Questo aveva potuto il sentimento della propria dignità in quell’anima vergine, di farle indovinare che il miglior modo di cansare il pericolo di un falso giudizio era quello di affrontarlo con sicura alterezza. Tanto è vero che le profonde commozioni temprano, meglio dei lunghi insegnamenti, la umana natura. La fanciulla era morta quel giorno; la donna nasceva.
La Gilda chinò il capo, in atto d’obbedienza, e si mosse. Una sua occhiata furtiva al Bardineto voleva dire a lui tutti i dubbi che le passavano per la mente; ma egli non vi badò più che tanto, e la povera ancella se ne andò raumiliata.
Per altro, giunta a mezzo della scala, si pentì d’esser discesa. E domandò allora a sè stessa che cosa avesse a dire la sua signora di così grave a Giacomo Pico, che ella non potesse ascoltare, e che cosa significasse quel turbamento di ambedue. Dimande queste che, nel cervello di una ragazza innamorata e gelosa, non hanno mestieri di aspettare a lungo una conveniente risposta.
Or dunque, è facile argomentare che cosa facesse la Gilda. Raccolti prudentemente i lembi della veste, che non avessero a strisciare lunghesso il muro, in punta di piedi e rattenendo il respiro, tornò sopra i suoi passi, e giunta al pianerottolo, stette origliando alla porta.
Frattanto il Bardineto, almanaccando a suo modo su quella risoluzione di madonna Nicolosina, aveva dato una rifiatata di contentezza, vedendo partire l’ancella invece della padrona, come da principio gli era parso che dovesse accadere.
— Ah, rimanete? — diss’egli, esprimendo nel fervido accento tutte le pazze speranze che gli grillavano d’improvviso nel cuore.
— Sì, rimango; — rispose la giovinetta con piglio solenne; — rimango, checchè possa altri pensarne; rimango, perchè questo colloquio, giunto per vostra cagione tant’oltre, non può, non deve restarsi interrotto. Fu il primo; sarà anche l’ultimo. —
Giacomo Pico trasaltò. La sua allegrezza era in un punto svanita. Volle parlare, ma ella gli ruppe le parole sul labbro.
— Lasciatemi finire. Io v’ho ascoltato; mi avete chiesto una risposta; abbiatela ora, senza sdegno e senza ingiuria, da me. Io non ho avuto finora e non vo’ avere che amicizia per voi. Siatene amico, ve ne prego. Vedete intanto il bel frutto delle vostre fantasie; che dirà di noi quella povera fanciulla, che or ora è uscita di qui? Ella vi ama; me lo ha confessato. Amatela anche voi, messer Giacomo; ella lo merita; non fate che io, senza volerlo, senza pure saperlo, abbia rapito il cuor vostro alla mia povera ancella. —
Il Bardineto alzò sdegnosamente le spalle.
— Di ciò soltanto vi duole? — gridò egli, che, nella stizza ond’era tutto invasato, non doveva imbroccarne più una. — O forse mi date l’ancella vostra a dispregio?
— Nè di ciò mi duole, nè io fo d’alcuno la poca stima che dite. Ma via, non torniamo agl’ingrati discorsi. Ancora una volta volete essermi amico?
— No; — rispose egli con ruvidezza; — o tutto o nulla. Questa impresa si leggerà nel mio scudo, quando io ne porti uno inquartato, da contendere di nobiltà coi più celebrati e superbi. E vedrò allora.... — soggiunse il Bardineto, infiammandosi, — vedrò allora se non vorrete esser mia!
— Dimenticatemi, messer Giacomo Pico; — disse a lui di rimando Nicolosina, più afflitta tuttavia che ferita da quelle acerbe parole. — Siete violento e scortese. Se tutti gli uomini vi rassomigliano, io non amerò nessuno sulla terra.
— Il primo che ardirà di amarvi, lo ucciderò come un cane! — gridò il Bardineto, con piglio feroce.
— Mi farete la solitudine intorno? — replicò ella sdegnata, guardandolo in aria di sfida. — Suvvia, tentate la prova! —
Il Bardineto non vedeva più lume.
— Voi amate qualcheduno; — le disse, con voce soffocata dalla rabbia; — confessatelo!
— Sapete che non amo voi; ciò vi basti. —
In quelle asciutte parole l’animosa fanciulla aveva fatto il supremo sforzo della sua alterezza offesa. Gli occhi le si offuscarono dalle lagrime, si sentì venir meno, e le sue mani andarono instintivamente contro la parete, a cercarvi un appoggio.
Egli le si accostò, come per sorreggerla.
— Non mi toccate! — gridò ella, respingendolo. E atterrita, spinse l’uscio con tanta precipitazione che la Gilda si tenne perduta. La poveretta ebbe a mala pena il tempo di rannicchiarsi in un angolo, dietro il battente.
Giacomo Pico si morse le labbra, e freddo all’aspetto, ma coll’inferno nell’anima, stette muto, accigliato, a guardarla, dopo essersi tirato indietro d’un passo.
Fu per parecchi istanti tra i due giovani un alto silenzio. Si udiva soltanto il respiro affannoso di madonna Nicolosina e lo scricchiolare dalla scranna, di cui Giacomo aveva afferrato la spalliera, per pigliare un contegno.
Finalmente la giovinetta si riebbe, scosse la sua bionda testa, rasciugò le lagrime e così parlò, con accento mutato, al suo fiero amatore.
— Messer Giacomo Pico, io amo mio padre e non accrescerò i suoi dolori, raccontandogli il nostro colloquio. Io stessa dimenticherò le vostre parole; altro di voi non ricorderò che l’antica amicizia e i servigi. —
Ciò detto e senza aspettare la risposta che stava per darle il Bardineto, uscì dalla camera e scese con passo leggiero le scale.