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CAPITOLO VIII.
Dove si vede che non arriva sempre tardi
chi arriva dopo.
Come si rimanesse Giacomo Pico e che torbidi pensieri gli girassero per la fantasia, lascio argomentare ai discreti lettori. Intanto seguitiamo madonna Nicolosina, che triste, assai triste, ma col cuore un tal po’ sollevato, scende la scala dell’Alfiere.
Diffatti, quella partenza era una liberazione per lei, dopo la lunga oppressura di tutto ciò che aveva dovuto udire e rispondere. Certo è gran dolore il perdere un amico; ma questo dolore non è poi senza conforti; dirò di più, è il solo che n’abbia uno sollecito, vo’ dire il conforto di avere finalmente conosciuto a parte a parte l’anima della persona in cui s’era riposta ogni fede. Strana consolazione, cotesta, di avere a conoscere pienamente il nostro simile, solo in quel giorno che non possiamo più durarla nell’usata dimestichezza con lui!
Posta in chiaro questa bisogna, niente premeva di più a madonna Nicolosina che di sapere che cosa ne pensasse Gilda, quella sua povera ancella, da cui pochi giorni addietro aveva udita la confessione di un amore profondo per Giacomo. Dico che avrebbe desiderato sapere; ma senza imbattersi così presto nella Gilda, a cui lì per lì non avrebbe saputo che dire. La forza di mandarla via a mezzo del suo colloquio col Bardineto, l’aveva avuta. Il suo diritto e la necessità di finirla in una volta con lui, volevano pure così. Ma ora, a cose fatte, la pietà ripigliava il suo posto nel cuore di Nicolosina, e non le bastava l’animo di raccontare a quella povera ragazza i particolari di un dialogo, che doveva tornarle sommamente spiacevole.
Il lettore sa che la Gilda, rispetto a ciò, non aveva più niente di nuovo a conoscere. Ma la sua giovine padrona, che non l’aveva veduta nel suo nascondiglio, poteva temere d’abbattersi in lei, prima di essersi consigliata maturamente tra sè, intorno a quello che dovesse raccontarle, o lasciarle indovinare, de’ suoi discorsi col Pico. Epperciò, fatte le prime scale, invece di ritirarsi nelle sue stanze, ove forse poteva essere tornata l’ancella, tirò innanzi verso la gran sala, dove sperava di trovare suo padre e di avere in altre cure un momento di tregua allo spirito.
Il marchese Galeotto non era colà, dove la sua bella figliuola era andata a cercarlo. Uscito fuori della postierla a tramontana del castello, ordinava laggiù, al coperto da ogni vigilanza nemica, gli uomini che aveva scelti a compagni nella impresa su Noli. Questo diceva a madonna Nicolosina un donzello, da lei incontrato in quel mentre sull’uscio.
Ed ella fu allora per tornarsene indietro. Ma appunto allora, sul pianerottolo per cui doveva passare la fanciulla, compariva un giovinotto, non mai veduto prima al Finaro.
Vestiva nobilmente, quantunque più da soldato che da uomo di corte. Ma in que’ tempi mal sicuri, chi non era, per necessità, o per elezione, soldato? Egli poi doveva venire da lungi, e la polvere, ond’era tuttavia coperto il suo mantello di scarlatto grigio, lo diceva da pochi istanti sceso d’arcione. Giovanissimo, biondo i capegli e bianco la carnagione, lo si sarebbe tolto per una fanciulla in abiti virili, se non lo avessero chiarito del sesso forte le basette che gli adombravano il labbro fine e vermiglio; per un paggio, se gli sproni d’oro che gli fregiavano i talloni, non avessero fatto testimonianza del suo grado di cavaliere. E così leggiadro all’aspetto, colla sua spada al fianco e il biondo capo scoperto (che il tôcco di velluto, onde usava coprirsi, lo aveva allora per mano) lo si sarebbe detto piuttosto l’arcangelo Michele, venuto in un mezzo incognito a visitare il suo buon servo Galeotto, marchese del Finaro, se al tempo di cui si narra fosse durato il costume di simiglianti discese degli alati figliuoli di Dio.
Madonna Nicolosina doveva passare dinanzi a lui, per ricondursi nelle sue stanze; e passando, come il savio lettore indovina, doveva anche vederlo. Ora il vederlo e il pensare tra sè ch’egli era un bellissimo giovine, fu una cosa sola per lei, ed anche la più naturale del mondo. Un bel viso, segnatamente se accompagnato da prestanza di membra e impresso di quella serena nobiltà che spesso può stare da sola e far anco piacere ad altri chi non somigli in tutto o in parte all’Apollo dal Belvedere, un bel viso, io dico, ha sempre avuto una simile accoglienza presso i cuori ben fatti.
Per altro, se madonna Nicolosina aveva il cuore ben fatto, era anche d’animo riguardoso e severo. Epperciò, data una fuggevole occhiata al forastiero e involontariamente pensato ciò che vi ho detto, raccolse modestamente la ciglia a terra, mentre la sua bionda testolina accennava ad un mezzo saluto.
Questa era cortesia necessaria, in risposta ad un leggiadro inchino del forastiero. Il quale, del resto, nel curvare la fronte, non abbassò altrimenti le ciglia, ma le tenne alte, ferme, diritte su lei, come quegli che non volea perdere nulla di quella rara veduta.
Ho detto che madonna Nicolosina era bellissima tra le belle. Di lui v’ho raccontato pur dianzi. Aggiungo per ambedue, che mai sulle porte del paradiso si scontrò una coppia d’angioli più leggiadra di queste due creature umane, ravvicinate dal caso su per le scale del castello Gavone.
Che fanno gli angioli, allorquando s’incontrano per via? Spiriti d’amore, debbono sentirsi fratelli, vedersi assai volentieri l’un l’altro e dirselo cogli atti, se non colle parole, a vicenda. Forse (e qui un povero profano par mio non può far altro che ragionare in via d’induzione) si toccano leggermente, sfiorano col sommo delle ali la casta dolcezza d’un bacio.
Ma là non erano angioli, bensì due figliuoli degli uomini, con tutti i riguardi, con tutti i vincoli, con tutte le noie, che un cerimonioso costume e una puntigliosa morale, detta con giusto rappicciolimento etichetta, impongono ai bistrattati nipoti d’Adamo. Ed ecco perchè madonna Nicolosina, abbassò gli occhi facendo un mezzo saluto al forastiero, ed egli, dopo aver fatto un inchino, si tenne rispettosamente indietro, ma guardandola senza misura, bisogna pur dirlo, e divorandola quasi degli occhi.
La bella visione passò, cara e gioconda come un raggio di sole per mezzo alle nuvole, inebbriante come una fragranza di gelsomini, portata a noi dalla brezza. E come fu passata, il giovane forastiero senti una stretta al cuore, e, colla stretta, un desiderio infinito di rattenerla, di vedere anche una volta quel suo angelico viso, di udire il suono della sua voce.
Non vi è egli mai girato per la fantasia, vedendo una bellissima donna passarvi rasente per istrada, o soavemente composta a verecondia come la Beatrice di Dante, o splendida di consapevoli vezzi come la tormentatrice di Francesco Petrarca, non vi è egli mai girato per la fantasia di bisbigliarle all’orecchio: fermati, angelo, o demonio, io ti amo?
Io, per me, tengo che questo giuoco lo abbiano in tasca un po’ tutti. Senonchè, soltanto gli sciocchi ardiscono spiattellarlo sul volto ad una sconosciuta che passa, col pretesto che ad ogni donna torni gradita la giaculatoria, anche buttata là, a bruciapelo, come si direbbe un’ingiuria. Gli assennati, in quella vece, guardano e tacciono, pensando che, se la donna è di alto grado, sarebbe offesa un omaggio così audacemente reso, e se non lo è, parrebbe atto di poca stima, o nessuna, trattarla diversamente da una di quelle che vanno per la maggiore.
Tutt’altro da questi che ho detto, appariva il caso del giovine forastiero. Egli non era per istrada, ma in casa, e, secondo tutte le più ragionevoli apparenze, in casa di lei. Colà, una parola sola poteva considerarsi come appiglio ad una onesta dimanda. Avesse anche detto dell’altro, poteva soggiungere il perchè e il percome della sua ammirazione per lei. E poi, e poi, bisognava saper le cagioni della sua venuta al castello; bisognava intendere che dubbi gli avesse fatti nascere in mente l’apparizione di quella divina creatura; bisognava capire come gli fosse mestieri di chiarirli senza indugio; indi, se proprio era il caso, dargli biasimo del suo ardimento.
Imperocchè, già s’indovina, il giovinotto si disponeva a fare qualche cosa d’insolito. Era stato in forse, aveva titubato un istante; ma il desiderio aveva soverchiato la ragione, e si era mosso per tener dietro a madonna. Ella forse dal canto suo si aspettava cotesto; senza volerlo, senza avvedersene, aveva rallentato il passo. Arcani del cuore!
— Perdonate! — disse il giovine, inoltrandosi verso di lei.
La fanciulla si volse, cortese in atto, a guardarlo, aspettando che proseguisse. E così fece egli, dopo un istante di pausa, mettendo nelle sue parole tutto il dolce che seppe.
— Madonna, è audacia senza pari la mia; fo male a trattenervi in tal guisa; ma siete così bella! —
Un amabile rossore tinse d’improvviso le guancie della giovinetta, che fu confusa, non adontata, da quelle inaspettate parole. Tanto è vero, dopo tutto, tanto è vero quello che dicon gli sciocchi, che certi omaggi non tornano mai sgraditi alle donne! ma intendiamoci, purchè non siano buttati là da uno sciocco, e con sguaiata maniera.
— Non vi offendete, vi prego; — incalzò il giovine tendendo le mani in atto supplichevole. — Ho a chiedervi cosa che troppo mi preme, ed una vostra umana risposta mi è necessaria. Infine.... ecco lo stato dell’anima mia. O voi siete madonna Nicolosina del Carretto, o ch’io sono il più sventurato degli uomini. —
Queste parole furono dette con tanto candore e insieme con tanta foga giovanile, che ella aperse, in uno scoppio d’ilarità involontaria, le labbra e mostrò le trentadue perle orientali, legate nel solito corallo da quei gioiellieri bizzarri, che sono sempre stati i romanzieri e i poeti. Rise, a farla più spiccia; e in verità, a quelle parole, e dette a quel modo, non potea dicevolmente far altro che ridere.
Lo scoppio, dopo tutto, fu breve, come si conveniva a costumata fanciulla, e si tramutò in un sorriso benevolo, come portava la gentilezza dell’indole sua, e come richiedeva quell’aria malinconica, ond’era impresso il volto del giovane forastiero.
— Sì, diffatti. — rispose ella, chetandosi, — mi chiamo Nicolosina del Carretto. E in che poss’io tornarvi utile, messere?
— Ah, basta, se forse non ho detto già troppo; — ripigliò il cavaliere arrossendo. — Grazie, madonna; grazie! A me non resta che di andare da vostro padre, dal magnifico marchese del Finaro.
— Egli non è qui, ora; — soggiunse Nicolosina; — ma poco indugierà a ritornare. Siate il benvenuto tra noi. Nella gran sala troverete alcuno dei gentiluomini della sua corte, che vi farà compagnia. —
Così dicendo, gli additava la porta dond’ella era uscita pur dianzi.
Ma il giovine non si muoveva. Si sarebbe detto, a vederlo, che il pavimento sotto di lui fosse tutto una pania. Senonchè, a guardare madonna Nicolosina o que’ suoi occhi divini, si capiva subito che la pania non era per terra e che egli non era invescato dai piedi.
Il dialogo, per altro era lì lì sulle ventitrè ore, e di certo moriva, se non giungeva un terzo interlocutore in aiuto. Era questi il Picchiasodo, ma da lontano, con un colpo di bombarda, che fece tremare, nella loro intelaiatura di piombo, i vetri onde pigliava luce la scala. Traeva egli dal poggio di Maria contro le mura e le torri del borgo sottostante. E cinque o sei di questi saluti erano mandati ogni giorno dal ferreo labbro della signora Ninetta.
— Triste cosa la guerra! — esclamò il forastiero, notando un atto di sgomento che ella non aveva potuto reprimere.
— Ah sì, messere, triste cosa! — rispose la giovinetta sospirando. — Il Finaro, pur troppo, non fa lieta accoglienza a’ suoi visitatori cortesi.
— Madonna, e perchè? — diss’egli di rimando. — Ognuno di costoro si recherebbe a ventura di partecipare ai pericoli e ai danni di questa nobile terra, come ho fede che presto dovrebbe partecipare al trionfo e alle gioie del vostro gloriosissimo padre. Inoltre, perchè tacerlo? con voi, madonna, anche assalito da tutte le armi della potente repubblica genovese, il castel Gavone sarebbe un luogo di delizie per esso. Vi parlo liberamente, come vogliono i casi che qui mi hanno condotto; non ve ne adontate! Che più? posso io dirvi tutto, aprirvi il mio cuore? —
E la guardava, così dicendo, con occhi tanto amorevoli, che la povera Nicolosina fu sul punto di lasciarlo proseguire. Un sentimento di verecondia la rattenne.
— No, ve ne prego, messere; — rispose ella nobilmente. — E vi dirò cosa, a mia volta, che parrà imitata dalle vostre parole di poco fa; — soggiunse poscia, con un certo sorriso leggiadramente malizioso; — o voi siete il conte d’Osasco, o ch’io vi ho già troppo ascoltato.
— Lo sono; — diss’egli, arrossendo al pari di lei in quel punto; — e come lo avete voi indovinato? —
Ingenua domanda! E come gli uomini più accorti, messi al cospetto d’una semplice donna, tornano spesso fanciulli! Nicolosina avrebbe potuto rispondergli che, ottocento sessant’anni prima di lei, un’altra donna, la bella figliuola del duca di Baviera, aveva riconosciuto Autari, il re dei Longobardi, tra que’ medesimi ambasciatori che egli mandava a chiederla in moglie; questo argomentando dal fatto, che il mentito messaggiero aveva osato stringerle la mano, mentre ella gli profferiva la coppa ospitale. Chi altri, se non il suo futuro sposo, avrebbe ardito diportarsi seco lei in quel modo?
Nicolosina non gli rispose colla storia alla mano, che a dir vero non l’aveva presente. Per altro, come era simile il caso, doveva riuscire simigliante il concetto.
— Chi altri, — domandò ella per contro, — chi altri, se non il conte di Osasco m’avrebbe parlato in tal guisa? Ma dite, messere, come siete voi qui? Non avete ricevuto la lettera che v’ha mandata mio padre?
— L’ho avuta; — rispose egli inchinandosi, — ma potevo io accettare la libertà che il marchese Galeotto così nobilmente mi offriva! Vi avevo chiesta, o madonna, sulla fede della vostra bellezza ed ero grato ai vostri di avere accolto con benevolenza la domanda di tale che non è imperatore, pur troppo, nè principe, per reputarsi degno di voi. Sono venuto a chiedervi ancora una volta, e sono felice, dopo avervi veduta, che il mio cuore e il mio debito di gentiluomo non si trovino oggi a contrasto, come sarebbero stati veramente, e con grave danno del cuore, se la divina che ho incontrato pur dianzi non fosse stata madonna Nicolosina del Carretto. Voi sorridete? È bello ora il vostro sorridere e mi dà argomento a sperare. Or dunque, io porto la sua lettera al marchese vostro padre e venti lancie, che spero non gli torneranno sgradite. Anch’io combatterò pel Finaro; non mi concederete voi il premio della vostra mano? —
Nicolosina stette un momento sovra pensieri. Le sovvenne del colloquio avuto poc’anzi lassù, nella torre dell’Alfiere, e una nube di tristezza scese ad offuscarle lo spirito. Ma ella era donna di sensi gagliardi e si riebbe tosto di quello sgomento. Dopo tutto, che avrebbe mai osato Giacomo Pico? E non avrebbe ella saputo custodire la sua felicità contro ogni insidia, o minaccia?
— Conte di Osasco, — diss’ella, porgendogli la sua bella mano, su cui egli fu pronto ad imprimere il più ardente dei baci, — se mio padre accetta la vostra generosa profferta, anche domani, nella chiesa di san Biagio, sotto i colpi delle artiglierie nemiche. —
Ed ecco per qual modo s’aguzza lo spirito alle ragazze da marito. I grandi casi e le forti commozioni sono la più pronta e la più efficace delle scuole.
Il conte d’Osasco, dal canto suo, aveva ragione a reputarsi felice. E non sapeva tutto, ancora; non sapeva, verbigrazia, d’esser giunto dopo un altro e di averlo al primo lancio superato. Del resto si giunga prima, o poi, l’essenziale è di giungere in tempo. E Carlo di Cascherano, conte di Osasco, giungeva in tempo altresì per conquistarsi il cuore di Galeotto, a cui la sua venuta, dopo la lettera che lo liberava dalla parola data, doveva parer generosa oltre ogni dire.
Questi, che stava allora fuor del castello, a disporre la sua gente per l’impresa di Noli, com’ebbe udito delle venti lancie che erano venute al borgo per la strada di Cova, pensò che fossero un nuovo presente del re di Francia, o d’alcuno de’ suoi generi, che ne aveva parecchi, e in alto stato; tra gli altri Onorato Lascaris, signore di Ventimiglia e di Tenda, e Alberto Pio, principe di Carpi, allora in Torino a’ servigi del duca di Savoia. E per sincerarsi della cosa, tornò subitamente al castello, dove gli venne veduto il conte d’Osasco, un altro genero, sul quale egli non faceva assegnamento veruno.
L’ebbe per augurio felice, e si compiacque eziandio con paterna allegrezza del leggiadro aspetto del giovine, la cui bell’anima si dipingeva sul bellissimo volto.
Una gioia mite, ma profonda, regnava in tutta la corte del Finaro. I radi ma sicuri colpi della signora Ninetta non ottennero quel dì tutta l’attenzione che il nostro infaticabile Anselmo Campora poteva con giusto orgoglio ripromettersi. Barnaba Adorno, cogli altri fuorusciti del suo casato, e i signori del Carretto, tra i quali Giovanni, fratello a Galeotto, e madonna Bannina, festeggiavano tutti il giovine Carlo, il leggiadro cherubino di Osasco. La gran sala del castello era piena di tutti i gentiluomini che ufficio di guerra non trattenesse alle mura, e le nobili dame gustavano in quell’ora di geniale convegno un fugace riflesso dei loro trionfi cessati, degli ozi antichi e delle memori splendidezze dal castello Gavone.
A un tratto, con alto stupore di tutti, non escluso Tommaso Sangonetto, il quale, nella sua qualità d’ambasciatore posticcio, avea creduto di potersi imbrancare co’ grandi, comparve nella sala Giacomo Pico.
La faccia del Bardineto era scura, aggrondato il sopracciglio, il labbro chiuso, il portamento più contegnoso che l’occasione non dimandasse, o che a lui vassallo non fosse consentito lassù. Ma il suo pallore, che ricordava la pugna sostenuta e facea fede d’una lunga malattia, non lasciava por mente a cotesto, e gli occhi della nobile comitiva si volsero a lui, schiettamente amorevoli.
Primo, il marchese Galeotto lo salutò con un grido di lieta meraviglia, e, andatogli incontro, lo prese per mano, facendogli le più oneste accoglienze e congratulandosi seco lui del risanamento ottenuto. E il Bardineto ne tolse appiglio a soggiungere che troppo oramai era egli rimasto inoperoso e più di quello che veramente gli bisognasse; però, con licenza del marchese, avrebbe ripigliato il suo uffizio di soldato. Sapeva della partenza disegnata alla volta di Noli; laonde, non avea voluto lasciarsi sfuggire la buona occasione e domandava di entrare nel numero degli eletti, che stava per condurre il suo signore a quella impresa, così piena di rischi e di gloria.
— Ed io pure, padre mio, che tale ben posso chiamarvi; — soggiunse il Cascherano, con impeto di onesta baldanza. — Per aver parte a’ vostri pericoli sono appunto venuto, e, sebbene giunto l’ultimo tra questi degni e fedeli gentiluomini vostri, mi dorrebbe di non essere il primo a seguirvi. —
Giacomo Pico, diede un’occhiata sospettosa a colui che parlava in tal guisa, chiamando il marchese Galeotto col nome di padre. Nicolosina, che spiava attentamente, quantunque in aria di noncuranza, ogni atto del Bardineto, notò quell’occhiata e il cuore le diede un sobbalzo.
— Gran giorno per me! — diceva frattanto il marchese, a cui splendevano d’inusata luce i grandi occhi azzurri, che dovevano andar famosi nella storia del suo tempo. — Giacomo Pico, il nostro valoroso compagno d’armi, torna oggi a brandire la spada, e il conte di Osasco viene a chiedermi la sua parte, non pure nelle allegrezze, ma altresì nei pericoli della mia casa. Sì, Giacomo, tu verrai con me a questa impresa, in cui la tua avvedutezza e il tuo braccio non saranno soverchi. A voi, conte e figliuol mio, presento Giacomo Pico di Bardineto, il più fedele dei miei servitori. —
Il sospetto di Giacomo si mutava per quelle parole in certezza. Per altro, non fu molto sorpreso da quella improvvisa venuta. Respinto da Nicolosina, tutto doveva egli aspettarsi, e niente aveva a recargli stupore. Infine, e non era meglio così? In un giorno solo aveva udito la sua sentenza da lei e veduto il suo fortunato rivale. Tristi cose ambedue; ma almeno, ogni vana speranza andava in dileguo; ogni dubbio svaniva. Soltanto chi vede intiero il suo danno può degnamente provvedere a’ suoi casi. E Giacomo Pico avea provveduto.
Carlo di Osasco fece un passo verso di lui e gli sporse amichevolmente la mano. Giacomo fremeva un pochino e forse sarebbe rimasto freddo, rispondendo al cortese invito con un mezzo inchino che non dicesse nulla. Ma proprio in quel punto gli venne veduta madonna Nicolosina, tranquilla in apparenza o noncurante di lui. Se l’avesse veduta in atto supplichevole, chi sa? Il cuore umano è così bizzarro nei suoi moti, che egli forse avrebbe vacillato ne’ fieri propositi. Quella apparente freddezza, quella inflessibilità marmorea della donna a cui s’era umiliato poche ore prima nell’espansione dell’affetto e della preghiera, lo raffermarono ne’ suoi biechi disegni. E si avanzò allora verso il conte d’Osasco, gli prese la mano e la strinse, la strinse così forte, come se volesse stritolarla.
Parve quello al conte un saluto di soldato, ruvido sì, ma sincero. La pallidezza del volto e l’aria contegnosa parvero agli altri effetto della perdita del sangue e dell’impiccio di trovarsi in così numerosa brigata, dopo esser rimasto forse due mesi nella solitudine della sua cameretta. E nessuno pose più mente a lui, salvo chi aveva argomento a temere di qualche sua sfuriata, e salvo Tommaso Sangonetto, che conosceva il segreto dell’amor suo e s’aspettava anch’egli qualche frutto della sua stravaganza.
Avvicinatosi a quest’ultimo, e col sorriso sul labbro, Pico gli parlò sottovoce, mentre faceva le mostre di salutarlo.
— Stanotte saremo a Noli; — diceva. — Farò di salire con questo bel forastiero sui merli. Chi sa che ad ambedue non tocchi la medesima scala? La sorte e così capricciosa!
— Ah, Giacomo, non far ragazzate, ti prego! — rispose il Sangonetto, con una ansietà, la cui espressione subitanea non isfuggì al vigile sguardo di madonna Nicolosina.
— Non temere; — soggiunse Pico. — Vedrai!
— Già, non vedrò niente, io! — ripigliò Il Sangonetto. — Sono ambasciatore, non uomo d’armi, e le scale a piuoli mi darebbero il capogiro. Ho preso il tuo posto; non te ne lagnare. Io non sono ambizioso; finita, bene o male, la guerra, torno ciliegia e tu sarai da capo il fico dell’orto.
— Ah sì! — sclamò il Bardineto, digrignando i denti. — Se tu aspetti ch’io serva ancora questa razza d’ingrati!... —
Mentre egli così parlava, Nicolosina aveva tratto in disparte suo padre e gli venìa favellando, con aria d’affettuosa preghiera.
— Capisco; — rispose Galeotto ridendo; — tu non vuoi che il tuo leggiadro sposo, appena giunto tra noi, vada a correre il rischio d’una piombatura sul capo. E sia, lo pregherò; ma vorrà egli accettare?
— Se tu glielo domandi, padre mio, perchè no? Non è egli uffizio ragguardevole, e non l’hai tu fin qui lasciato, certo per mancanza di uomini da ciò, a men degne persone?
— Per san Giorgio, figliuola mia, questo è un biasimo che mi date. E invero, l’ho anche un po’ meritato! — soggiunse Galeotto, accarezzando con tenerezza paterna i biondi capegli di madonna Nicolosina.
E voltosi poscia al Cascherano, gli disse:
— Cavaliere, tra pochi momenti si parte. Ma se io ora vi chiedessi un sacrifizio?
— Quale? — dimandò ansiosamente il Cascherano.
— Ho mestieri di un prode cavaliero, — soggiunse il marchese, — che corra speditamente infino ad Asti, e con eloquente parola induca il balìvo di Tresnay a venire colle sue genti in aiuto del Finaro, come mi fu promesso dal buon re Carlo di Francia e ancora testè dall’illustrissimo signor duca di Orleans, giunto a mala pena di qua dalle Alpi. Per lo passato, in simiglianti negozi, mi fu utilissima l’opera diligente e sollecita di Giacomo Pico. Lui ferito e costretto al riposo, adoperai il nostro bravo Sangonetto; ma oramai colla buona volontà di lui ho fatto già troppo a fidanza....
— Magnifico messere, — disse allora il conte d’Osasco, — se è cosa che vi preme....
— Assaissimo; — interruppe il marchese; — e subito, se ci amate, dovrete salire in arcione. —
Madonna Nicolosina respirò, vedendo l’atto di consentimento del giovine. Giacomo Pico, in quella vece, si morse le labbra. Nel tardo mutar di consiglio del marchese Galeotto egli scorgeva la mano di Nicolosina e i sospetti che certo l’avevano guidata a chiedere l’allontanamento del conte.
— Non ho io forse una maschera al volto? — diss’egli tra sè. — E deve ella credere che io mi strugga d’amore e di rabbia per lei? —
La deliberazione improvvisa del marchese Galeotto non poteva piacere nemmanco al nostro Tommaso, che vedeva andarsene in fumo tutte le sue ambizioni. Imperocchè egli non era sincero col Bardineto, quando gli diceva di dover tornare ciliegia.
— Magnifico messere.... — balbettò egli, ingrullito; — ed io?
— Con me e col tuo valoroso amico all’impresa di Noli; — rispose amorevole il marchese Galeotto. — È giusto che io non tolga ai miei buoni vassalli l’occasione d’illustrarsi con qualche atto di singolare prodezza. E tu, mio buon Tommaso, n’hai certo una voglia spasimata.
— Se l’ho, magnifico messere!... Certo, che l’ho; l’hanno tutti! — farfugliò il Sangonetto, che non sapeva a qual santo votarsi. — Ringrazio il mio illustre signore e la fortuna che mi ha destinato ad accompagnarlo sul campo della gloria. —
Cotesto ad alta voce e cercando di dare nella rotondità della frase un concetto della sua eloquenza d’ambasciatore fallito.
Ma dentro di sè, il prode Tommaso Sangonetto masticava ben altro.
— Ah per l’anima di.... L’ha a contare, le mie prodezze, il marchese! Già, o come vuol fare? Dopo l’Avemaria, tant’è la tua come la mia, ed egli non vedrà proprio un bel niente. Io le conosco, le mura di Noli; ritte, puntigliose, accigliate, su quei loro greppi impraticabili, con quelle torri che escon fuori di riga ad ogni cinquanta passi e vi mandan giù l’ira di Dio!... No, no, l’appoggi un altro, la mia scala; io sto a vedere chi casca. Dopo tutto, o che? io l’amo, quella repubblica; si governano da sè; non ci hanno marchesi, nè conti; non pigliano gatte a pelare; non domandano che di pescare tranquilli le più saporite triglie di tutta l’Italia. Ottimi cittadini! Li piglio a proteggere. —