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O talpe insigni in maschera di linci
Che mutate le chiaviche in bigonce,
E, al prossimo scocciando il quindi e il quinci,
Avete l’ opre mie sventrate e conce;
O gallinaceo stuol che salti e squinci
Barbareggiando in strofettucce acconce,
E fai col ritmo, onde ogni secol vinci,
Rizzar le rille e lacrimar le cionce;
E voi, degni di marmi alti e di bronzi,
Che cangiate in romanzi i documenti,
I mocci in fiabe ed in bozzetti i peti,
Sol per voi, sol pei vostri ardui decreti
Italia avrà (crepate, invide genti)
Un tron di fango ed un trofeo di stronzi.
E’ chiaro che in questa satira il Rapisardi intende stigmatizzare con vocaboli appropriati l’aberrazione verista che dominò nella letteratura ai suoi tempi, bestialmente "trascorrendo dalla taverna alla suburra". La prima quartina del presente sonetto è riportata in Lettera a Gaetano Trezza (Epistolario, pag. 262).