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DIALOGO QUARTO
INTERLOCUTORI:
Smitho. Teofilo, filosofo. Prudenzio, pedante.
Frulla.
Smi. Volete, ch’io vi dica la causa?
Teo. Ditela pure!
Smi. Perchè la divina scrittura, il senso de la quale ne deve essere molto raccomandato, come cosa, che procede da intelligenze superiori, che non errano, in molti luoghi accenna e suppone il contrario.
Teo. Or quanto a questo, credetemi, che, se li dei si fussero degnati d’insegnarci la teorica de le cose de la natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accostarei a la fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto de la certezza di mie ragioni e proprii sentimenti. Ma come chiarissimamente ognuno può vedere, ne li divini libri in servizio del nostro intelletto, non si trattano le dimostrazioni e speculazioni, circa le cose naturali, come se fusse filosofia; ma in grazia nella nostra mente ed affetto, per le leggi si ordina
la pratica circa le azioni morali. Avendo dunque il divino legislatore questo scopo avanti gli occhi, nel resto non si cura di parlar secondo quella verità, per la quale non profittarebbono i volgari, per ritrarsi dal male, ed appigliarsi al bene, ma di questo il pensiero lascia agli uomini contemplativi, e parla al volgo di maniera, che secondo il suo modo d’intendere e di parlare venghi a capire quel ch’è principale.
Smi. Certo è cosa conveniente, quando uno cerca di far istoria e donar leggi, parlar secondo la comune intelligenza, e non esser sollecito in cose indifferenti. Pazzo sarebbe l’istorico, che, trattando la sua materia, volesse ordinar vocaboli stimati nuovi, e riformar i vecchi, e far di modo, che il lettore sii più trattenuto a osservarlo ed interpretarlo come grammatico, che intenderlo come istorico. Tanto più uno, che vuol dare a l’universo volgo la legge e forma di vivere, se usasse termini, che le capisse lui solo ed altri pochissimi, e venisse a far considerazione e caso di materie indifferenti dal fine, a cui sono ordinate le leggi, certo parrebbe, che lui non drizza la sua dottrina al generale ed a la moltitudine, per la quale sono ordinate quelle, ma a’ savii e generosi spirti, e quei, che sono veramente uomini, li quali senza legge fanno quel che conviene. Per questo disse Alcazele, filosofo, sommo pontefice e teologo macumetano, che il fine de le leggi non è tanto di cercar la verità de le cose e speculazioni, quanto la bontà de’costumi, profitto de la civilità, convitto di popoli, e pratica per la comodità de l’umana conversazione, mantenimento di pace ed aumento di repubbliche. Molte volte dunque, ed a molti propositi è una cosa da stolto ed ignorante, più tosto riferir le cose secondo la verità, che secondo l’occasione e comodità. Come, quando il sapiente disse, nasce il sole e tramonta, gira per il mezzo giorno, e s’inchina a l’aquilone, avesse detto: la terra si raggira a l’oriente, e si tralascia il sole, che tramonte, s’inchina a’ doi tropici del cancro verso l’austro, e Capricorno verso l’aquilone, sarebbono fermati gli auditori a considerare, come costui dice la terra muoversi? che novelle son queste? l’arebbono al fine stimato un pazzo, e sarebbe stato da dovero un pazzo. Pure per satisfare a l’importunità di qualche rabbino impaziente e rigoroso, vorrei sapere, se col favore de la medesma scrittura questo, che diciamo, si possa confirmare facilissimamente.
Teo. Vogliono forse questi riverendi, che, quando Mosè disse, che Dio tra gli altri luminari ne ha fatti dui grandi, che sono il sole e la luna, questo si debba intendere assolutamente, perchè tutti gli altri siino minori de la luna? o veramente secondo il senso volgare ed ordinario modo di comprendere e parlare? Non sono tanti astri più grandi, che la luna? non possono essere più grandi, che il sole? Che manca alla terra, che non sii un luminare più bello e più grande che la luna, che, medesmamente ricevendo nel corpo dell’Oceano ed altri mediterranei mari il gran splendore del sole, può comparir lucidissimo corpo a gli altri mondi chiamati astri, non meno che quelli appajono a’ noi tante lampeggianti faci? Certo che non chiami la terra un luminare grande o piccolo, e che tali dica essere il sole e la luna, è stato bene e veramente detto nel suo grado; perchè dovea farsi intendere secondo le parole e sentimenti comuni, e non far come uno, che qual pazzo e stolto usa de la cognizione e sapienza. Parlare con i termini de la verità, dove non bisogna, è voler, che il volgo e la sciocca moltitudine, da la quale si richiede la pratica, abbia il particular intendimento; sarebbe come volere, che la mano abbia l’occhio, la quale non è stata fatta da la natura per vedere, ma per oprare, e consentire a la vista. Così, ben che intendesse la natura de le sustanze spirituali, a che fine dovea trattarne, se non quanto che alcune di quelle hanno affabilità e ministerio con gli uomini, quando si fanno ambasciatrici? Ben che avesse saputo, che a la luna ed altri corpi mondani, che si veggono e che sono a noi invisibili, convenga tutto quel che conviene a questo nostro mondo, o al meno il simile, vi par che sarebbe stato ufficio di legislatore di prendersi e donar questi impacci a’ popoli? Che ha da far la pratica de le nostre leggi e l’esercizio de le nostre virtù con quell’altri? Dove dunque gli uomini divini parlano, presupponendo ne le cose naturali il senso comunemente ricevuto, non denno servire per autorità, ma più tosto, dove parlano indifferentemente, e dove il volgo non ha risoluzione alcuna. In quello voglio, che s’abbia riguardo a le parole de gli uomini divini, anco a gli entusiasmi de’ poeti, che con lume superiore ne han parlato, e non prendere per metafore quel che non è stato detto per metafora, e per il contrario prendere per vero quel ch’è stato detto per similitudine. Ma questa distinzione del metaforico e vero non tocca a tutti di volerla comprendere, come non è dato ad ognuno di posserla capire. Or se vogliamo voltar l’occhio de la considerazione a un libro contemplativo, naturale, morale e divino, noi trovaremo questa filosofia molto favorita e favorevole. Dico ad un libro di Giobbe, qual’è uno de’ singularissimi, che si possan leggere, pieno d’ogni buona teologia, naturalità e moralità, colmo di sapientissimi discorsi, che Mosè come un sacramento, ha congiunto ai libri de la sua legge. In quello un de’ personaggi, volendo descrivere la provida potenza di Dio, disse quello formar la pace ne gli eminenti suoi, cioè sublimi figli, che son gli astri, li dei, de’ quali altri son fuochi, altri sono acque, come noi diciamo, altri soli, altri terre, e questi concordano, perchè, quantunque siino contrarii, tutta via l’uno vive, si nutre e vegeta per l’altro, mentre non si confondono insieme; ma con certe distanze gli uni si muovono circa gli altri. Così vien distinto l’universo in fuoco ed acqua, che sono soggetti di doi primi principii formali ed attivi, freddo e caldo. Que’ corpi, che spirano il caldo, son li soli, che per sè stessi son lucenti e caldi; que’ corpi, che spirano il freddo, son le terre, le quali, essendo parimente corpi eterogenei, son chiamate più tosto acque, atteso che tai corpi per quelle si fanno visibili, onde meritamente le nominiamo da quella ragione, che ne sono sensibili, sensibili dico, non per sè stessi, ma per la luce de’ soli sparsa ne la lor faccia. A questa dottrina è conforme Mosè, che chiama firmamento l’aria, nel quale tutti questi corpi hanno la persistenza e situazione, e per li spazii del quale vengono distinte e divise le acque inferiori, che son queste, che sono nel nostro globo, da l’acque superiori, che son quelle de gli altri globi, dove pure si dice esserne divise l’acque da l’acque. E se ben considerarete molti passi de la scrittura divina, li dei e ministri de l’altissimo son chiamati acque, abissi, terre e fiamme ardenti. Chi lo impediva, che non chiamasse corpi neutri, inalterabili, immutabili, quinte essenze, parti più dense de le spere, berilli carbuncoli, ed altre fantasie, de le quali come indifferenti niente manco il volgo s’arebbe possuto pascere?
Smi. Io per certo molto mi muovo da l’autorità del libro di Giobbe e di Mosè, e facilmente posso fermarmi in questi sentimenti reali più tosto, che in metaforici ed astratti: se non che alcuni pappagalli d’Aristotele, Platone ed Averroe, da la filosofia de’ quali son promossi poi ad esser teologi, dicono, che questi sensi son metaforici, e così in virtù di lor metafore le fanno significare tutto quel che li piace, per gelosia de la filosofia, ne la quale son allevati.
Teo. Or quanto siino costanti queste metafore, lo possete giudicar da questo, che la medesma scrittura è in mano di Giudei, Cristiani e Macumetisti, sette tanto differenti e contrarie, che ne partoriscono altre innumerabili contrarissime e differentissime, le quali tutte vi san trovare quel proposito, che le piace e meglio le vien comodo, non solo il proposito diverso e differente, ma ancor tutto il contrario, facendo d’un sì un no, e d’un no un sì, come verbi grazia in certi passi, dove dicono, che Dio parla per ironia.
Smi. Lasciamo di giudicar questi! Son certo, che a loro non importa, che questo sii, o non sii metafora: però facilmente ne potranno far star in pace con nostra filosofia.
Teo. Da la censura di onorati spirti, veri religiosi, ed anco naturalmente uomini da bene, amici de la civile conversazione e buone dottrine non si de’ temere; perchè, quando bene aran considerato, trovaranno, che questa filosofia non solo contiene la verità, ma ancora favorisce la religione più che qual si voglia altra sorte di filosofia; come quelle, che poneno il mondo finito, l’effetto e l’efficacia de la divina potenza finiti, le intelligenze e nature intellettuali solamente otto o dieci, la sostanza de le cose esser corrottibile, l’anima mortale, come che consista più tosto in un’accidentale disposizione, ed effetto di complessione e dissolubile contemperamento ed armonia, l’esecuzione de la divina giustizia sopra l’azioni umane per conseguenza nulla; la notizia di cose particolari a fatto rimossa da le cause prime ed universali ed altri inconvenienti assai, li quali non solamente come falsi acciecano il lume de l’intelletto, ma ancora, come neghittosi ed empii, smorzano il fervore di buoni affetti.
Smi. Molto son contento di aver questa informazione de la filosofia del Nolano. Or veniamo un poco a li discorsi fatti col dottor Torquato, il quale son certo che non può essere tanto più ignorante, che Nundinio, quanto è più presuntuoso, temerario e sfacciato.
Fru. Ignoranza ed arroganza son due sorelle individue in un corpo ed in un’anima.
Teo. Costui con un enfatico aspetto, col quale il divûm pater vien descritto ne la metamorfosi seder in mezzo del concilio de li dei, per fulminar quella severissima sentenza contra il profano Licaone, dopo aver contemplato la sua aurea collana.
Pru. Torquem auream, aureum monile.
Teo. Ed a presso rimirato al petto del Nolano, dove più tosto arebbe possuto mancar qualche bottone, dopo essersi rizzato, ritirate le braccia da la mensa, scrollatosi un poco il dorso, sbruffato con la bocca alquanto, acconciatasi la berretta di velluto in testa, intorcigliatosi il mustaccio, posto in arnese il profumato volto, inarcate le ciglia, spalancate le narici, messosi in punto con un riguardo di rovescio, poggiatasi al sinistro fianco la sinistra mano, per donar principio a la sua scrima, appuntò le tre prime dita de la destra insieme, e cominciò a trar di mandritti, in questo modo parlando: Tunc ille philosophorum protoplastes? Subito il Nolano, sospettando di venire ad altri termini, che disputazione, gl’interroppe di parlare, dicendogli: quo vadis, domine, quo vadis? quid si ego philosophorum protoplastes? quid si nec Aristoteli, nec cuiquam, magis concedam, quam mihi ipsi concesserint? ideone terra est centrum mundi immobile? Con queste ed altre simili persuasioni, con quella maggior pazienza, che posseva, l’esortava a portar propositi, con i quali potesse inferire dimostrativa — o probabilmente in favore de gli altri protoplasti contra di questo nuovo protoplaste. E voltatosi il Nolano a li circostanti, ridendo con mezzo riso: costui, disse, non è venuto tanto armato di ragioni, quanto di parole e scommi, che si muojono di freddo e di fame. Pregato da tutti, che venisse a gli argumenti, mandò fuori questa voce: unde igitur stella Martis nunc major, nunc vero minor apparet, si terra movetur?
Smi. O Arcadia! è possibile, che sii in rerum natura sotto titolo di filosofo e medico.
Fru. E dottore e Torquato.
Smi. Che abbia possuto tirar questa conseguenza? Il Nolano che rispose?
Teo. Lui non si spantò per questo, ma gli rispose, che una de le cause principali, per le quali la stella di Marte appare maggiore e minore a volte a volte, è il moto de la terra e di Marte ancora per li proprii circoli, onde avviene che ora siino più prossimi, ora più lontani.
Smi. Torquato che soggiunse?
Teo. Diamandò subito de la proporzione da’ moti de li pianeti e la terra.
Smi. Ed il Nolano, ebbe tanta pazienza, che vedendo un sì presuntuoso e goffo, non voltò le spalle, ed andarsene1 a casa, e dire a colui, che l’avea chiamato, che —
Teo. Anzi rispose, che lui non era andato per leggere, nè per insegnare ma per rispondere; e che la simmetria, ordine, e misura de’ moti celesti si presuppone tal qual’è, ed è stata conosciuta da antichi e moderni, e che lui non disputa circa questo, e non è per litigare contra li matematici, per togliere le lor misure e teorie, a le quali sottoscrive e crede; ma il suo scopo versa circa la natura e verificazione del soggetto di questi moti. Oltre disse il Nolano: s’io metterò tempo per rispondere a questa dimanda, noi staremo qua tutta la notte senza disputare, e senza ponere giammai li fondamenti de le nostre pretensioni contra la comune filosofia; perchè tanto gli uni quanto gli altri condoniamo tutte le supposizioni, pur che si conchiuda la vera ragione de le quantità e qualità de’ moti: ed in questi siamo concordi. A che dunque beccarci il cervello fuor di proposito? Vedete voi, se da le osservanze fatte e da le verificazioni concesse possiate inferire qualche cosa, che conchiuda contra noi, e poi arete libertà di proferire le vostre condannazioni.
Smi. Bastava dirgli, che parlasse a proposito.
Teo. Or qua nessuno de’ circostanti fu tanto ignorante, che col viso e gesti non mostrasse aver capito, che costui era una gran pecoraccia aurati ordinis.
Fru. I. e. il tosone.
Teo. Pure per imbrogliar il negozio, pregorno il Nolano, ch’esplicasse quello che lui volea difendere, perchè il prefato dottor Torquato argumentarebbe. Rispose il Nolano, che lui s’avea troppo esplicato, e che, se gli argumenti de gli avversarii erano scarsi, questo non procedeva per difetto di materia, come può essere a tutti ciechi manifesto. Pure di nuovo gli confirmava, che l’universo è infinito, e che quello consta d’una immensa eterea regione, e veramente un cielo, il quale è detto spazio e seno, in cui sono tanti astri, che hanno fissione in quello, non altrimenti che la terra: e così la luna, il sole, od altri corpi innumerabili sono in questa eterea regione, come veggiamo essere la terra; e che non è da credere altro firmamento, altra base, altro fundamento, ove s’appoggino questi grandi animali, che concorrono a la costituzion del mondo, vero soggetto, ed infinita materia de la infinita divina potenza attuale: come bene ne ha fatto intendere tanto la regolata ragione e discorso, quanto le divine revelazioni, che dicono, non essere numero de’ ministri de l’Altissimo, al quale migliaja di migliaja assistono, e dieci centinaja di migliaja gli amministrano. Questi sono li grandi animali, de’ quali molti con lor chiaro lume, che da’ lor corpi diffondono, ne sono di ogni contorno sensibili: de’ quali altri son effettualmente caldi, come il sole ed altri innumerabili fuochi, altri son freddi, come la terra, la luna, Venere ed altre terre innuraerabili. Questi per comunicar l’uno a l’altro, e participar l’un da l’altro il principio vitale, a certi spazii, con certe distanze, gli uni compiscono li lor giri circa gli altri come è manifesto in questi sette, che versano circa il sole, de’ quali la terra è uno, che movendosi circa il spazio di 24 ore dal lato chiamato occidente verso l’oriente, cagiona l’apparenza di questo moto de l’universo circa quella, ch’è detto moto mondano e diurno. La quale imaginazione è falsissima, contra natura ed impossibile: essendo che sii possibile, conveniente, vero e necessario, che la terra si muova circa il proprio centro, per participar la luce e tenebre, giorno e notte, caldo e freddo; circa il sole per la participazione de la primavera, estade, autunno, inverno; verso i chiamati poli ed oppositi punti emisperici, per la rinovazione di secoli e cambiamento del suo volto: a fin che, dov’era il mare, sii l’arido, ove era torrido, sii freddo, ove il tropico, sii l’equinoziale, e finalmente sii di tutte cose la vicissitudine, come in questo, così ne gli altri astri, non senza ragione da gli antichi veri filosofi chiamali mondi. Or mentre il Nolano dicea questo, il dottor Torquato cridava: Ad rem, ad rem, ad rem! Al fine il Nolano si mise a ridere, e gli disse, che lui non gli argomentava, nè gli rispondeva, ma che gli proponeva, e però ista sunt res, res, res, e che toccava al Torquato a presso d’apportar qualche cosa ad rem.
Smi. Perchè questo asino si pensava essere tra goffi e balordi, credeva, che quelli passassero questo suo ad rem per un argumento e determinazione, e così un semplice crido con la sua catena d’oro satisfar a la moltitudine.
Teo. Ascoltate davantaggio! Mentre tutti stavano ad aspettar quel tanto desiderato argumento, ecco che voltato il dottor Torquato ali commensali dal profondo de la sufficienza sua sguaina e li viene a donar sul mostaccio un adagio erasmiano; Anticyram navigat.
Smi. Non possea parlar meglio un asino, e non possea udir altra voce, chi va a praticar con gli asini.
Teo. Credo, che profetasse, ben che non intendesse lui medesmo la sua profezia, che il Nolano andava a far provisione d’elleboro, per risaldar il cervello a questi pazzi barbareschi.
Smi. Se quelli, che v’eran presenti, come erano civili, fussero stati civilissimi, gli arebbono attaccato in loco de la collana un capestro al collo, e fattogli contar quaranta bastonate in commemorazione del primo giorno di quaresima.
Teo. Il Nolano gli disse, che il dottor Torquato lui non era pazzo, perchè porta la collana, la quale se non avesse a dosso, certamente il dottor Torquato non valerebbe più, che per suoi vestimenti, i quali però vagliono pochissimo, se a forza di bastonate non gli saran spolverati sopra. E con questo dire si alzò di tavola, lamentandosi, ch’il signor Folco non avea fatta provisione di miglior suppositi.
Fru. Questi son i frutti d’Inghilterra; e cercatene pur quanti volete, che li trovarete tutti dottori in grammatica, in questi nostri giorni, ne’ quali in la felice patria regna una costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione mista con una rustica incivilità, che farebbe prevaricar la pazienza di Giobbe. E se non il credete, andate in Oxonia e fatevi raccontar le cose intravenute al Nolano, quando pubblicamente disputò con que’ dottori in teologia in presenza del Prencipe Alasco Polacco, ed altri de la nobiltà inglese! Fatevi dire, come si sapea rispondere a gli argomenti; come restò per quindici sillogismi quindici volte, qual pulcino entro la stoppa quel povero dottor; che come il corifeo de l’academia ne puosero avanti in questa grave occasione! Fatevi dire, con quanta incivilità e discortesia procedea quel porco, e con quanta pazienza ed umanità quell’altro, che in fatto mostrava essere Napoletano nato, ed allevalo sotto più benigno cielo! Informatevi, come gli han fatte finire le sue pubbliche letture, e quelle de immortalitale animae, e quelle de quintuplici sphaera!
Smi. Chi dona perle a’ porci, non si de’ lamentar, se gli son calpestate. — Or seguitate il proposito del Torquato!
Teo. Alzati tutti di tavola, vi furono di quelli, che in lor linguaggio accusavano il Nolano per impaziente, in vece che doveano aver più tosto avanti gli occhi la barbara e salvatica discortesia del Torquato, e propria. Tutta volta il Nolano, che fa professione di vincere in cortesia quelli, che facilmente posseano superarlo in altro, si rimesse, e come avesse tutto posto in obblio, disse amichevolmente al Torquato: Non pensar, fratello, ch’io per la vostra opinione voglia o possa esservi nemico; anzi vi son così amico, come di me stesso. Per il che voglio che sappiate, ch’io prima ch’avessi questa posizione per cosa certissima, alcuni anni a dietro la tenni semplicemente vera; quando ero più giovane, e men savio, la stimai verisimile; quando ero più principiante ne le cose speculative, la tenni sì fattamente falsa, che mi maravigliavo d’Aristotele, che non solo non si sdegnò di farne considerazione, ma anco spese più de la metà del secondo libro del cielo e mondo, sforzandosi dimostrar che la terra non si muova. Quando ero putto ed a fatto senza intelletto speculativo, stimai, che creder questo era una pazzia, e pensavo, che fusse stato posto avanti da qualcuno per una materia sofistica e caziosa, ed esercizio di quelli oziosi ingegni, che vogliono disputar per gioco, e che fan professione di provar e difendere, che il bianco è nero. Tanto dunque io posso odiar voi per questa cagione, quanto me medesmo, quando ero più giovane, più putto, men saggio, e men discreto. Così in loco ch’io mi dovrei adirar con voi, vi compatisco, e priego Idio, che, come ha donato a me questa cognizione, così, se non gli piace di farvi capace del vedere, al meno vi faccia posser credere, che sete ciechi: e questo non sarà poco, per rendervi più civili e cortesi, meno ignoranti e temerarii. E voi ancora mi dovete amare, se non come quello, che sono al presente più prudente e più vecchio, al meno come quel, che fui più ignorante e più giovane, quando ero in parte ne li miei più teneri anni, come voi sete in vostra vecchiaja. Voglio dire, che, quantunque mai sono stato conversando e disputando così salvatico, malcreato ed incivile, sono stato però un tempo ignorante, come voi. Così avendo io riguardo al stato vostro presente conforme al mio passato, e voi al stato mio passato conforme al vostro presente, io vi amarò, e voi non m’odiarete.
Smi. Essi, poi che sono entrati in un’altra specie di disputazione, che dissero a questo?
Teo. In conclusione, che loro erano compagni d’Aristotele, di Tolomeo e molti altri dottissimi filosofi. Ed il Nolano soggiunse, che sono innumerabili sciocchi, insensati, stupidi ed ignorantissimi, che in ciò sono compagni non solo di Aristotele e Tolomeo, ma di essi loro ancora, i quali non possono capire quel che il Nolano intende, con cui non sono, nè possono esser molti consenzienti, ma solo uomini divini e sapientissimi come Pitagora, Platone ed altri. Quanto poi a la moltitudine, che si gloria di aver filosofi dal canto suo, vorrei, che consideri, che per tanto che sono que’ filosofi conformi al volgo, han prodotta una filosofia volgare, e per quel ch’appartiene a voi, che vi fate sotto la bandiera d’Aristotele, vi dono avviso, che non vi dovete gloriare, quasi intendessivo quel che intese Aristotele, e penetrassivo quel che penetrò Aristotele: perchè è grandissima differenza tra il non sapere quel che lui non seppe: e saper quel che lui seppe: perchè dove quel filosofo fu ignorante, ha per compagni non solamente voi, ma tutti vostri simili, insieme con i scafari2 e facchini londrioti; dove quel galantuomo fu dotto e giudizioso, credo e son certissimo, che tutti insieme ne sete troppo discosti. Di una cosa fortemente mi maraviglio, che, essendo voi stati invitati e venuti per disputare, non avete giammai posto tali fondamenti, e proposte tali ragioni, per le quali in modo alcuno possiate conchiudere contra me, nè contra il Copernico, e pur vi sono tanti gagliardi argumenti e persuasioni. Il Torquato, come volesse ora sfoderare una nobilissima dimostrazione, con una augusta maestà dimanda: Ubi est lux solis? Il Nolano rispose, che lo imaginasse, dove gli piace, e concludesse qualche cosa, perchè l’auge si muta e non sta sempre nel medesmo grado de l’eclittica: e non può veder, a che proposito dimanda questo. Torna il Torquato a dimandar il medesmo, come il Nolano non sapesse rispondere a questo. Rispose il Nolano: quot sunt sacramenta ecclesiae? Est circa vigesimum cancri, et oppositum circa decimum vel centesimum capricorni, o sopra il campanile di San Paolo?
Smi. Possete conoscere, a che proposito dimandasse questo?
Teo. Per mostrar a que’ che non sapean nulla, che lui disputava, e che diceva qualche cosa, ed oltre tentare tanti quomodo, quare, ubi, sin che ne trovasse uno, al quale il Nolano dicesse, che non sapea, sin a questo, che volse intendere, quante stelle sono de la quarta grandezza. Ma il Nolano disse, che non sapeva altro, che quello, ch’era al proposito. Questa interrogazione de l’auge del sole conchiude in tutto e per tutto, che costui era ignorantissimo di disputare. Ad uno, che dice la terra muoversi circa il sole, il sole star fisso in mezzo di quest’erranti lumi, dimandare, dov’è l’auge del sole? è a punto come se uno dimandasse a quello de l’ordinario parere: dov’è l’auge de la terra? E pur la prima lezione, che si dà ad uno, che vuole imparar d’argumentare, e di non cercare e dimandar secondo i proprii principii, ma quelli, che son concessi da l’avversario. Ma a questo goffo tutto era il medesmo, perchè così arebbe saputo tirar argumenti da que’ suppositi che sono a proposito, come da que’ che son fuor di proposito. Finito questo discorso, cominciorno a ragionar in inglese tra loro, e dopo aver alquanto trascorso insieme, ecco comparir su la tavola carta e calamajo. Il dottor Torquato distese quanto era largo e lungo un foglio, prese la piuma in mano, tira una linea retta per mezzo del foglio da un canto a l’altro, in mezzo forma un circolo, a cui la linea predetta passando per il centro, facea diametro, e dentro un semicircolo di quello scrive Terra, e dentro l’altro scrive Sol. Dal canto de la terra forma otto semicircoli, dove ordinatamente erano li caratteri di sette pianeti, e circa l’ultimo scritto: octava sphaera mobilis, e ne la margine: Ptolemaeus. Tra tanto il Nolano disse a costui, che volea far di questo, che sanno sin ai putti? Torquato rispose: Vide, tace et disce! ego docebo te Ptolemaeum et Copernicum.
Smi. Sus quandoque Minervam.
Teo. Il Nolano rispose, che, quando uno scrive l’alfabeto, mostra mal principio di voler insegnar grammatica ad un, che ne intende più che lui. Seguita a far la sua descrizione il Torquato, e circa il sole, ch’era nel mezzo, forma sette semicircoli con simili caratteri, circa l’ultimo scrivendo: sphaera immobilis fixarum, e ne la margine: Copernicus. Poi si volta al terzo circolo, ed in un punto de la sua circonferenza forma il centro d’un epiciclo, al quale avendo delineata la circonferenza, in detto centro pinge il globo de la terra, ed a fin che alcuno non s’ingannasse pensando, che quello non fusse la terra, vi scrive a bel carattere: terra, ed in un loco de la circonferenza de l’epiciclo distantissimo dal mezzo, figurò il carattere de la luna.
Quando vidde questo il Nolano: ecco, disse, che costui mi volea insegnare del Copernico quello, che il Copernico medesmo non intese, e più tosto, sarebbe fatto tagliar il collo, che dirlo, o scriverlo; Perchè il più grande asino del mondo saprà, che da quella parte sempre si vedrebbe il diametro del sole eguale, ed altre molte conclusioni seguitarebbono, che non si possono verificare. Tace, tace! disse il Torquato, tu vis me docere Copernicum? Io curo poco il Copernico, disse il Nolano, e poco mi curo, che voi o altri l’intendano; ma di questo solo voglio avvertirvi, che prima che vegnate ad insegnarmi un’altra volta, che studiate meglio. Ferno tanta diligenza i gentiluomini, che v’eran presenti, che fu portato il libro del Copernico, e guardando ne la figura, viddero, che la terra non era descritta ne la circonferenza de l’epiciclo, come la luna; però volea Torquato, che quel punto, ch’era in mezzo de l’epiciclo ne la circonferenza de la terza spera, significasse la terra.
Smi. La causa de l’errore fu, che il Torquato avea contemplate le figure di quel libro, e non avea letto li capitoli, e se pur li ha letti, non l’ha intesi.
Teo. Il Nolano si mise a ridere, e dissegli, che quel punto non significava altro, che la pedata del compasso, quando si delineò l’epiciclo de la terra e de la luna, il quale è tutto uno ed il medesmo. Or, se volete veramente sapere, dov’è la terra, secondo il senso del Copernico, leggete le sue parole! Lessero, e ritrovarno, che dicea, la terra e la luna essere contenute come da medesmo epiciclo ecc., e così rimasero masticando in lor lingua, sin tanto che Nundinio e Torquato, avendo salutato tutti gli altri, eccetto ch’il Nolano, se n’andorno, e lui inviò uno a presso, che da sua parte salutasse loro. Que’ cavalieri, dopo aver pregato il Nolano, che non si turbasse per la discortese incivilità e temeraria ignoranza de’ lor dottori, ma che avesse compassione a la povertà di questa patria, la qual rimasta vedova de le buone lettere, per quanto appartiene a la professione di filosofia e reali matematiche, ne le quali mentre sono tutti ciechi, vengono questi asini, e ne si vendono per oculati, e ne porgono vessiche per lanterne, con cortesissime salutazioni lasciandolo, se ne andaro per un cammino; noi ed il Nolano per un altro ritornammo tardi a casa, senza ritrovar di que’ rintuzzi ordinarii, perchè la notte era profonda, e gli animali cornupeti e calcitranti non ne molestare al ritorno, come a la venuta; perchè prendendo l’alto riposo s’erano ne le lor mandre e stalle ritirati.
Pru. Nox erat, et placidum carpebant fessa soporem
Corpora per terras, sylvaeque et saeva quierant
Aequora, cum medio volvuntur sidera lapsu,
Cum tacet omnis ager, pecudes etc.
Smi. Orsù, abbiamo assai detto oggi. Di grazia Teofilo, ritornate domani, perchè voglio intendere qualch’altro proposito circa la dottrina del Nolano. Perchè quella del Copernico, ben che sii comoda a le supputazioni, tutta volta non è sicura ed ispedita, quanto a le ragioni naturali, le quali son le principali.
Teo. Ritornarò volentieri un’altra volta.
Fru. Ed io.
Pru. Ego quoque. Valete!