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DIALOGO TERZO
INTERLOCUTORI:
Smitho. Teofilo, filosofo. Prudenzio, pedante. Frulla.
Teo. Or il dottor Nundinio, dopo essersi posto in
punto de la persona, rimenato un poco la schiena, poste le due mani su la tavola, riguardatosi un poco circumcirca, accomodatosi alquanto la lingua in bocca, rasserenati gli occhi al cielo, spiccato dai denti un dilicato risetto, e sputato una volta, comincia in questo modo.
Pru. In haec verba, in hosce prorupit sensus.
Prima proposta di Nundinio.
Teo. Intelligis, domine, quae diximus? E gli dimanda, s’intendea la lingua inglese. Il Nolano rispose, che no e disse il vero.
Fru. Meglio per lui, perchè intenderebbe più cose dispiacevoli ed indegne, che contrarie a queste. Molto giova esser sordo per necessità, dove la persona non sarebbe sorda per elezione. Ma facilmente mi persuaderei, che lui la intenda: ma per non togliere tutte l’occasioni, che se gli porgono per la moltitudine de gl’incivili rincontri, e per posser meglio filosofare circa i costumi di quei, che gli si fanno innanzi, finga di non intendere.
Pru. Surdorum alii natura, alii physico accidente, alii rationali voluntate.
Teo. Questo non v’imaginate di lui! perchè, ben che sii a presso un anno, che ha praticato in questo paese, non intende più che due, o tre ordinarissime parole, le quali sa che sono salutazioni, ma non già particolarmente quel che voglion dire: e di quelle, se lui ne volesse proferire una, non potrebbe.
Smi. Che vuol dire, ch’ha sì poco pensiero d’intendere nostra lingua?
Teo. Non è cosa, che lo costringa, o che l’inclini a questo, perchè coloro, che son onorati e gentiluomini, con li quali lui suol conversare, tutti san parlare o latino, o francese, o spagnuolo, o italiano; i quali, sapendo, che la lingua inglese non viene in uso, se non dentro quest’isola, si stimarebbono salvatici, non sapendo altra lingua, che la propria naturale.
Smi. Questo è vero per tutto, ch’è cosa indegna non solo ad un ben nato inglese, ma ancora di qual si voglia altra generazione, non saper parlare più che d’una lingua. Pure in Inghilterra, come son certo, che anco in Italia e Francia, son molti gentiluomini di questa condizione, coi quali, chi non ha la lingua del paese, non può conversare senza quella angoscia che sente un, che si fa, ed a cui è fallo interpretare.
Teo. È vero, che ancora son molti, che non son gentiluomini d’altro, che di razza, i quali per più loro e nostro espediente è bene che non siano intesi, nè visti ancora.La seconda proposta di Nundinio.
Smi. Che soggiunse il dottor Nundinio?
Teo. Io dunque, disse in latino, voglio interpretarvi quello che noi dicevamo, ch'è da credere, il Copernico non esser stato d’opinione, che la terra si movesse, perché questa è una cosa inconveniente ed
impossibile; ma che lui abbia attribuito il moto a quella più tosto, che al cielo ottavo, per la comodità de le supputazioni. Il Nolano disse, che, se Copernico per questa causa sola disse la terra muoversi, e non ancora per quell'altra, lui ne intese poco e non assai. Ma è certo, che il Copernico la intese, come la disse, e con tutto suo sforzo la provò.
Smi. Che vuol dir, che costoro sì vanamente buttorno
quella sentenza su l’opinione di Copernico, se non la possono raccogliere da qualche sua proposizione?
Teo. Sappi, che questo dire nacque dal dottor Torquato, il quale di tutto il Copernico, ben che posso credere, che l'avesse tutto voltato, ne avea ritenuto il nome de l’autore del libro, dello stampatore, del loco, ove fu impresso, de l'anno, il numero de’ quinterni e de le carte, e per non essere ignorante in grammatica, avea intesa certa epistola superliminare attaccata non so da che asino ignorante e presuntuoso; il quale, come volesse iscusando favorir l'autore, o pur affine che anco in questo libro gli altri asini, trovando ancora le sue lattuche e frutticelli, avessero occasione di non partirsene a fatto digiuni, in questo modo li avvertisce avanti che comincino a leggere il libro e considerar le sue sentenze: «Non dubito, che alcuni eruditi» — ben disse alcuni, de’ quali lui può esser uno — «essendo già divolgata la fama de le nuove supposizioni di questa opera, che vuole, la terra esser mobile, ed il sole starsi saldo e fisso in mezzo de l’universo, non si sentano fortemente offesi, stimando, che questo sia un principio per ponere in confusione l'arti liberali già tanto bene ed in tanto tempo poste in ordine. Ma se costoro vogliono meglio considerar la cosa, trovaranno, che questo autore non è degno di riprensione; perchè è proprio a gli astronomi raccorre
diligente - ed artificiosamente l’istoria de’moti celesti,
non possendo poi per ragione alcuna trovar le vere cause di quelli, li è lecito di fingersene e formarsene a sua posta per principii di geometria, mediante i quali tanto per il passato, quanto per avvenire si possano calculare; onde non solamente non è necessario, che le supposizioni siino vere, ma nè anco verisimili. Tali denno esser stimate l'ipotesi di questo
uomo, eccetto se fusse qualcuno tanto ignorante de l’ottica e geometria, che creda, che la distanza di quaranta gradi e più, la quale acquista Venere discostandosi dal sole, or da l'una, or da l’altra parte, sii cagionata dal movimento suo ne l’epiciclo; il che, se fusse vero, chi è sì cieco, che non veda quel che ne seguirebbe contra ogni esperienza, che il diametro de la stella apparerebbe quattro volte, ed il corpo de la stella più di sedici volte più grande, quando è vicinissima de l'apposito de l’auge, che quando è lontanissima, dove si dice essere in auge? Vi sono ancora d’altre supposizioni non meno inconvenienti, che questa, quali non è necessario riferire.» E conclude al fine: «Lasciamoci dunque prendere il tesoro di queste supposizioni, solamente
per la facilità mirabile ed artificiosa del computo; perchè, se alcuno queste cose finte prenderà per vere, uscirà più stolto da questa disciplina, che non v’è entrato.» Or vedete, che bel portinajo! Considerate, quanto bene v’apra la porta per farvi entrar dentro a la partecipazion di quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper computare, e misurare, e geometrare, e perspettivare non è altro che un passatempo da pazzi ingegnosi! Considerate, come fedelmente serve al padron di casa! Al Copernico non ha bastato dire solamente, che la terra si muove, ma ancora protesta e conferma quello, scrivendo al papa, e dicendo, che le opinioni de'filosofi son molto lontane da quelle del volgo, indegne d’essere seguitate, degnissime d’esser fuggite, come contrarie al vero e dirittura; ed altri molti espressi indizii porge de la sua sentenza; non ostante ch’al fine par, ch’in certo modo vuole a comun giudizio tanto di quelli, che intendono questa filosofia, quanto de gli altri, che son puri matematici, che, se per gli apparenti inconvenienti non piacesse tal supposizione, conviene ch’anco a lui sii concessa libertà di ponere il moto de la terra, per far dimostrazione più ferme di quelle, ch’han fatte gli antichi, i quali furno liberi nel fingere tante sorte e modelli di circoli, per dimostrar li fenomeni de gli astri. Da le quali parole non si può raccorre, che lui dubiti di quella che sì costantemente ha confessato e provato nel primo libro, sufficientemente rispondendo ad alcuni argomenti di quei, che stimano il contrario; dove non solo fa ufficio di matematico, che suppone, ma anco di fisico, che dimostra il moto de la terra. Ma certamente al Nolano poco si aggiunge, che il Copernico, Niceta Siracusano Pitagorico, Filolao, Eraclide di Ponto, Ecfanto Pitagorico, Platone nel Timeo, ben che timida — ed incostantemente, perchè l’avea più per fede, che per scienza, ed il divino Cusano nel secondo suo libro de la dotta ignoranza, ed altri in ogni modo rari soggetti, l’abbino detto, insegnato e confirmato prima: perché lui lo tiene per altri proprii e più saldi principii, per i quali, non per autoritate, ma per vivo senso e ragione, ha così certo questo, come ogni altra cosa, che possa aver per certa.
Smi. Questo è bene. Ma di grazia, che argumento è quello, che apporta questo superliminario del Copernico. perchè gli pare, ch’abbia più che qualche verisimilitudine, se pur non è vero, che la stella di Venere debba aver tanta varietà di grandezza, quanta n’ha di distanza?
Teo. Questo pazzo, il quale teme ed ha zelo, che alcuni impazzano con la dottrina del Copernico, non so, se ad un bisogno avrebbe possuto portar più inconvenienti di quello che per aver apportato con tanta solennità stima sufficiente a dimostrar, che pensar quello sii cosa da un troppo ignorante d’ottica e geometria. Vorrei sapere, di quale ottica e geometria intende questa bestia, che mostra pur troppo, quanto sii ignorante de la vera ottica e geometria lui e quelli, da’ quali have imparato. Vorrei sapere, come da la grandezza de’corpi luminosi si può inferir la ragione de la propinquità e lontananza di quelli? e per il contrario, come da la distanza e propinquità di corpi simili si può inferire qualche proporzionale varietà di grandezza? Vorrei sapere, con qual principio di prospettiva, o di ottica noi da ogni varietà di diametro possiamo definitivamente conchiudere la giusta distanza, o la maggior e minor differenza? Desiderarei intendere, se noi facciamo errore, che poniamo questa conclusione: da l’apparenza de la quantità del corpo luminoso non possiamo inferire la verità de la sua grandezza, nè di sua distanza; perché, sì come non è medesma ragione del corpo opaco e corpo luminoso, così non
è medesma ragione d’un corpo men luminoso, ed altro più luminoso, ed altro luminosissimo, a ciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro. La mole d’una testa d'uomo a due miglia non si vede; quella molto più piccola di una lucerna, o altra cosa simile a fiamma, si vedrà senza molta
differenza, se pur con differenza, discosta sessanta miglia; come da Otranto di Puglia si veggono al spesso le candele d’Avellona, tra quai paesi tramezza gran tratto del mare ionio. Ognuno, che ha senso e ragione, sa, che, se le lucerne fussero di lume più perspicuo a doppia proporzione, come ora son viste ne la distanza di settanta miglia, senza variar
grandezza, si vedrebbono ne la distanza di cento quaranta miglia; a tripla di ducento e dieci; a quadrupla di ducento ottanta, medesmamente sempre giudicando ne l’altre addizioni di proporzioni e gradi; perchè più presto da la qualità ed intensa virtù de la luce, che da la quantità del corpo accceso, suole mantenersi la ragione del medesmo diametro e mole di corpo. Volete dunque, o saggi ottici ed accorti
perspettivi. che, se io veggo un lume distante cento stadii aver quattro dita di diametro, sarà ragione, che distante cinquanta stadii debbia averne otto, a la distanza di venticinque, sedici, di dodici e mezzo trenta due, e così via discorrendo, sin tanto che vicinissimo venghi ad essere di quella grandezza, che pensate?
Smi. Tanto che secondo il vostro dire, ben che sii falsa, non però potrà essere improbata, per le ragioni geometriche, la opinione di Eraclito efesio, che disse, il sole essere di quella grandezza, che si offre a gli occhi; al quale sottoscrisse Epicuro, come appare, ne la sua epistola a Sofocle, e ne l’undecimo libro De natura, come riferisce Diogene Laerzio, dice, che, per quanto lui può giudicare, la grandezza del sole, de la luna e d’altre stelle è tanta, quanto a’nostri sensi appare; perchè, dice, se per la distanza perdessero la grandezza, a più ragione perderebbono il colore; e certo, dice, non altrimenti doviamo giudicare di que' lumi, che di questi, che sono a presso noi.
Pru. Illud quoque Epicureus Lucretius testatur quinto de Natura libro:
Nec nimio solis major rota, nec minor ardor
Esse potest, nostris quam sensibus esse videtur.
Naia quibus e spatiis dunque ignea lumina possunt
Adjicere, et calidum membris adflare vaporem,
Illa ipsa intervalla nihil de corpore limant
Flammarum, nihilo ad speciem est contractior ignis.
Luna quoque sive Notho fertur, sive lumino lustrans,
Sive suam proprio jactat de corpore lucem.
Quicquid id est nihilo, fertur majore figura.
Postremo quoscunque vides hinc aetheris ignes,
Dum tremor est clarus, dum cornitur ardor eorum,
Scire licet perquam pauxillo posse minores
Esse, vel exigua majores parte brevique,
Quandoquidem, quoscunque in torris cernimus ignes,
Perparvum quiddam interdum mutare videntur,
Alterutram in partem filum, cum longium absint.
Teo. Certo, voi dite bene, che con l’ordinarie e proprie ragioni in vano verranno i perspettivi e geometri a disputar con li Epicurei; non dico, li pazzi, qual è questo luminare del libro di Copernico, ma di quelli più saggi ancora; e veggiamo, come potran concludere, che a tanta distanza, quanta è il diametro de l’epiciclo di Venere, si possa inferir ragione di tanto diametro del corpo del pianeta, ed altre cose simili. Anzi voglio avvertirvi d’un’altra cosa. Vedete, quanto è grande il corpo de la terra; sapete, che di quello non possiamo veder se non quanto è l’orizonte artificiale?
Smi. Così è.
Teo. Or, credete voi, che, se vi fusse possibile di ritirarvi fuor de l’universo globo de la terra in qualche punto de l’eterea regione, sii dove si vuole, che mai avverrebbe, che la terra vi paja più grande?
Smi. Penso di no; perchè non è ragione alcuna, per la quale de la mia vista la linea visuale debba esser forte più ed allungar il semidiametro suo, che misura il diametro de l’orizonte.
Teo. Bene giudicate. Però è da credere, che, discostandosi più l’orizonte, sempre si diminuisca. Ma con questa diminuzione de l’orizonte notate, che ne si viene ad aggiungere la confusa vista di quello, ch’è oltre il già compreso orizonte, come si può mostrare ne la presente figura: dove l’orizonte artificiale è 1 1, al quale risponde l’arco del globo A A. L’orizonte de la prima diminuzione è 2 2, al quale risponde l’arco del globo B B. L’orizonte de la terza diminuzione è 3 3, al quale risponde l’arco C C. L’orizonte de la quarta diminuzione è 4 4, al quale risponde l’arco D D, e così oltre, attenuandosi l’orizonte, sempre crescerà la comprensione de l’arco, in sino a la linea emisperica, ed oltre; a la quale distanza o circa quale posti, vedreimo la terra con quelli medesmi accidenti, coi quali veggiamo la luna aver le parti lucide, ed oscure, secondo che la sua superficie è aquea e terrestre. Tanto che, quanto più si stringe l’angolo visuale, tanto la base maggiore si comprende de l’arco emisperico, e tanto ancora in minor quantità appare l’orizonte, il qual vogliamo che tutta via perseveri a chiamarsi orizonte, ben che secondo la consuetudine abbia una sola propria significazione. Allontanandoci dunque, cresce sempre la comprensione de l’emispero ed il lume, il quale, quanto più il diametro si diminuisce, tanto davantaggio si viene a riunire; di sorte che, se noi fussimo più discosti da la luna, le sue macchie sarebbono sempre minori, sin a la vista d’un corpo piccolo e lucido solamente.
Smi. Mi par aver intesa cosa non volgare e non di poca importanza. Ma di grazia, venghiamo al proposito de l’opinion di Eraclito ed Epicuro, la qual dite che può star costante contra le ragioni perspettive, per il difetto de’ principii già posti in questa scienza! Or per scoprir questi difetti, e veder qualche frutto de la vostra invenzione, vorrei intendere la risoluzione di quella ragione, con la quale molto dimostrativamente si prova, ch’il sole non solo è grande, ma anco più grande, che la terra. Il principio della qual ragione è, che il corpo luminoso maggiore, spargendo il suo lume in un corpo opaco minore, de l’ombra conoidale produce la base in esso corpo opaco, ed il cono oltre quello nella parte opposita, come ne la seguente figura: M, corpo lucido da la base di C, la quale è terminata per H I, manda il cono de l’ombra a N punto. Il corpo luminoso minore, avendo formato il cono nel corpo opaco maggiore, non conoscerà determinato loco, ove ragionevolmente possa designarsi la linea de la sua base, e par che vada a formar una conoidale infinita, come quella medesma figura A, corpo lucido dal cono de l’ombra ch’è in C, corpo opaco, mandò quelle due linee C D, C E, le quali sempre più e più dilatando la ombrosa conoidale, più tosto corrono in infinito, che possino trovar la base che le termini. La conclusione di questa ragione è, che il sole è corpo più grande, che la terra, perchè manda il cono de l’ombra di quella sin a presso a la spera di Mercurio, e non passa oltre. Chè, se il sole fusse corpo lucido minore, bisognarebbe giudicare altri menti; onde seguitarebbe, che, trovandosi questo luminoso corpo ne l’emispero inferiore, verrebbe oscurato il nostro cielo in più gran parte, che illustrato, essendo dato o concesso, che tutte le stelle prendono lume da quello.
Teo. Or vedete, come un corpo luminoso minore può illuminare più de la metà d’un corpo opaco più grande. Dovete avvertire quel che veggiamo per esperienza. Posti dui corpi, de’ quali l’uno è opaco e grande, come A, l’altro piccolo lucido, come B, se sarà messo il corpo lucido ne la minima1 e prima distanza, come è notato ne la seguente figura: verrà ad illuminare secondo la ragione de l’arco piccolo C D, stendendo la linea B 1. Se sarà messo ne la seconda distanza maggiore, verrà ad illuminare secondo la ragione de l’arco maggiore E F, stendendo la linea B 2. Se sarà ne la terza e maggior distanza, terminarà secondo la ragione de l’arco più grande G H, terminato da la linea B 3. Dal che si conchiude, che può avvenire, che il corpo lucido B, servando il vigore di tanta lucidezza, che possa penetrare tanto spazio, quanto a simile effetto si richiede, potrà col molto discostarsi comprendere al fine arco maggior, che il semicircolo: atteso che non è ragione, che quella lontananza, ch’ha ridutto a tale il corpo lucido che comprenda il semicircolo, non possa oltre pro, moverlo a comprendere davantaggio. Anzi vi dico di più, che, essendo ch’il corpo lucido non perde il suo diametro, se non tardissima - e difficilissimamente, ed il corpo opaco, per grande che sia, facilissimamente ed improporzionalmente il perde. Però sì come per progresso di distanza da la corda minore C D è andato a terminare la corda maggiore E F, e poi la
massima I K, la quale è diametro, così, crescendo più e più la distanza, terminarà l’altra coda minore oltre il diametro, sin tanto ch’il corpo opaco tramezzante non impedisca la reciproca vista de li corpi diametralmente opposti. E la causa di questo è, che l’impedimento, che dal diametro procede, sempre con esso diametro si va diminuendo più e più, quanto l’angolo B si rende più acuto. Ed è necessario al fine, che l’angolo sii fatto tanto acuto, — perchè ne la fisica divisione d’un corpo finito è pazzo, chi crede farsi progresso in infinito, o l’intenda in atto, o in potenza, — che non sii più angolo, ma una linea, per la quale dui corpi visibili oppositi possono essere a la vista l’un dell’altro, senza che in punto alcuno quel ch’è in mezzo, vaglia impedire; essendo che questo ha persa ogni proporzionalità e differenza diametrale, la quale nei corpi lucidi persevera. Però si richiede, che il corpo opaco, che tramezza, rilegna tanta distanza dall’un e l’altro, per quanta possa aver persa la detta proporzione e differenza del suo diametro: come si vede ed è osservato ne la terra, il cui diametro non impedisce, che due stelle diametralmente opposte si veggano l’una l’altra, così come l’occhio senza differenza alcuna può veder l’una e l’altra dal centro emisperico N e da li punti de la circonferenza A N 0, avendoti imaginato in tal bisogno, che la terra per il centro sii divisa in due parti uguali, a fin che ogni linea perspettivale abbia il suo loco. Questo si fa manifesto facilmente ne la presente fig.: dove per quella ragione, che la linea A N essendo diametro, fa l’angolo retto nella circonferenza, dov’è il secondo loco, lo fa acuto, nel terzo più acuto, bisogna, ch’al fine divenghi a l’acutissimo, ed al fine a quel termine, che non appaja più angolo, ma linea; e per conseguenza è distrutta la relazione e differenza del semidiametro, e per medesma ragione la differenza del diametro intiera A 0 si distruggerà. Là onde al fine è necessario, che dui corpi più luminosi, i quali non sì tosto perdeno il diametro, non saranno impediti, per non vedersi reciprocamente, non essendo il lor diametro svanito, come quello di non lucido, o men luminoso corpo tramezzante. Concludesi dunque, che un corpo maggiore, il quale è più atto a perdere il suo diametro, ben che stia per linea rettissima al mezzo, non impedirà la prospettiva di dui corpi quanto si voglia minori, pur che serbino il diametro de la sua visibilità, il quale nel più gran corpo è perso. Qua per disrozzir uno ingegno non troppo sollevato, a fin che possa facilmente introdursi a comprendere l’apportata ragione, e per ammollar al possibile la dura apprensione, fategli esperimentare, che, avendosi posto un stecco vicino a l’occhio, la sua vista sarà di lutto impedita a veder il lume della candela posta in certa distanza: al qual lume quanto più si viene accostando il stecco, allontanandosi da l’occhio, tanto meno impedirà de la veduta, sin tanto che, essendo sì vicino, e giunto al lume, come prima già era vicino e giunto a l’occhio, non impedirà forse tanto, quanto il stecco è largo. Or giungi a questo, che ivi rimagna il stecco, ed il lume altre tanto si discosti; verrà il stecco ad impedir molto meno. Così più e più aumentando la equidistanza de l’occhio e del lume dal stecco, al fine senza sensibilità alcuna del stecco vedrai il lume solo. Considerato questo, facilmente quanto si voglia grosso intelletto potrà essere introdutto ad intendere quel che poco avanti è detto.
Smi. Mi par, quanto al proposito, mi debba molto essere satisfatto; ma mi rimane ancora una confusione ne la mente, quanto a quel che prima dicesti: come noi, alzandoci da la terra e perdendo la vista dell’orizonte, di cui il diametro sempre più e più si va attenuando, vedreimo questo corpo essere una stella. Vorrei, che a quel tanto, ch’avete detto, aggiungessivi qualche cosa circa questo; essendo che stimai, molte essere terre simili a questa, anzi innumerabili, e mi ricordo d’aver visto il Cusano, di cui il giudizio so che non riprovate, il quale vuole, che anco il sole abbia parti dissimilari, come la luna e la terra; per il che dice, che, se attentamente fissaremo l’occhio al corpo di quello, vedremo in mezzo di quel splendore più circonferenziale, che altrimenti, aver notabilissima opacità.
Teo. Da lui divinamente detto ed inteso, e da voi assai lodabilmente applicato! Se mi ricordo, io ancor poco fa dissi, che, per tanto che il corpo opaco perde facilmente il diametro, il lucido difficilmente avviene, che per la lontananza s’annulla e svanisce l’apparenza de l’oscuro; e quella de l’illuminato diafano, o d’altra maniera lucido, si fa come ad unire; e di quelle parti lucide disperse si forma una visibile continua luce. Però, se la luna fusse più lontana, non eclissarebbe il sole, e facilmente potrà ogni uomo, che sa, considerare in queste cose, che quella più lontana sarebbe anco più luminosa; ne la quale se noi fussimo, non sarebbe più luminosa a gli occhi nostri: come, essendo in questa terra, non veggiamo quel suo lume, che porge a quei, che sono ne la luna, il quale forse è maggior di quello, che lei ne rende per i raggi del sole nel suo liquido cristallo diffusi. De la luce particolare del sole non so per il presente, se si debba giudicar secondo il medesmo modo, o altro. Or vedete, sin quanto siamo trascorsi da quella occasione; mi par tempo di rivenire a l’altre parti del
nostro proposito.
Smi. Sarà bene d’intendere l’altre pretensioni, le quali lui ha possute apportare.
La terza proposta del dottor Nundinio.
Teo. Disse a presso Nundinio, che non può essere verisimile, che la terra si muove, essendo quella il mezzo e centro dell’universo, al quale tocca essere fisso e costante fundamento d’ogni moto. Rispose il Nolano: che questo medesmo può dir colui, che tiene il sole essere nel mezzo de l’universo, e per tanto immobile e fisso, come intese il Copernico ed altri molti, che hanno donato termine circonferenziale a l’universo; di sorte, che questa sua ragione, se pur è ragione, è nulla contra quelli, e suppone i proprii principii. È nulla anco contra il Nolano, il quale vuole, il mondo essere infinito, e però non esser corpo alcuno in quello, al quale semplicemente convegna essere nel mezzo, o ne l’estremo, o tra que’ due termini; ma per certe relazioni ad altri corpi e termini intenzionalmente appresi.
Smi. Che vi par di questo?
Teo. Altissimamente detto! perchè, come di corpi naturali nessuno si è verificato semplicemente rotondo, e per conseguenza aver semplicemente centro, così anco dei moti, che noi veggiamo sensibile - e fisicamente ne’ corpi naturali, non è alcuno, che di gran lunga non differisca dal semplicemente circulare e regolare circa qualche centro; forzinsi quanto si voglian color, che fingono queste borre ed empiture d’orbi disuguali, di diversità de’ diametri, ed altri empiastri e recettarii, per medicar la natura, sin tanto che venga al servizio di maestro Aristotele, o d’altro a conchiudere, che ogni moto è continuo e regolare circa il centro. Ma noi, che guardiamo, non alle ombre fantastiche, ma a le cose medesme noi, che veggiamo un corpo aereo, etereo, spirituale, liquido, capace loco di moto e di quiete, sino immenso ed infinito, — il che dobbiam affermare almeno, perchè non veggiamo fine alcuno sensibilmente nè razionalmente, — sappiamo certo, che, essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve secondo la capacità sua corporale
e modo suo essere infinitamente infinito. E son certo che non solamente a Nundinio, ma ancora a tutti, i quali sono professori de l’intendere, non è possibile giammai di trovar ragione semiprobabile, per la quale sia margine di questo universo corporale, e per conseguenza ancora gli astri, che nel suo spazio si contengono, siino di numero finito: ed oltre essere naturalmente determinato centro e mezzo di quello.
Smi. Or Nundinio aggiunse qualche cosa a questo; apportò qualche argomento, o verisimilitudine, per inferire, che l’universo prima sii finito; secondo, che abbia la terra per suo mezzo; terzo, che questo mezzo sii in tutto e per tutto immobile di moto locale.
Teo. Nundinio, come colui, che quello, che dice, lo dice per una fede e per una consuetudine, e quello, che niega, lo niega per una dissuetuidine e novità, come è ordinario di que’, che poco considerano e non sono superiori alle proprie azioni, tanto razionali, quanto naturali, rimase stupido ed attonito, come quello, a cui di repente appare nuovo fantasma,
Come quello poi, che era alquanto più discreto e men borioso e maligno, ch’il suo compagno, tacque e non aggiunse parole, ove non posseva aggiungere ragioni.
Fru. Non è così il dottor Torquato, il quale o a torto, o a ragione, o per dio, o per il diavolo la vuol sempre combattere, quando ha perso il scudo da difendersi, e la spada da offendere; dico, quando non ha più risposta, nè argumento, salta ne’ calci de la rabbia, acuisce l’unghie de la detrazione, ghigna i denti de le ingiurie, spalanca la gorgia dei clamori, a fin che non lasci dire le ragioni contrarie, e quelle non pervengano a l’orecchie de’ circostanti, come ho udito dire.
Smi. Dunque non disse altro?
Teo. Non disse altro a questo proposito, ma entrò in un’altra proposta.
Quarta proposta del Nundinio.
Perchè il Nolano per modo di passaggio disse essere terre innumerabili simile a questa, or il dottor Nundinio, come bon disputante, non avendo, che cosa aggiungere al proposito, comincia a dimandar fuor di proposito, e da quel che diceamo de la mobilità o immobilità di questo globo, interroga de la qualità de li altri globi, e vuol sapere, di materia fusser quelli corpi, che son stimati di quinta essenzia, d’una materia inalterabile od incorrottibile, di cui le parti più dense son le stelle.
Fru. Questa interrogazione mi par fuor di proposito, ben che io non m’intendo di logica.
Teo. Il Nolano per cortesia non gli volse improperar questo; ma dopo avergli detto, che gli arebbe piaciuto, che Nundinio seguitasse la materia principale, o che interrogasse circa quella, gli rispose, che gli altri globi, che sono terre, non sono in punto alcuno differenti da questo in specie, solo in esser più grandi e piccioli, come ne le altre specie d’animali, per le differenze individuali, accade inequalità; ma quelle spere, che son foco, come è il sole, per ora, crede che differiscono in specie, come il caldo e freddo, lucido per sè e lucido per altro.
Smi. Perchè disse creder questo per ora, e non lo affirmò assolutamente?
Teo. Temendo che Nundinio lasciasse ancora la questione, che nuovamente aveva tolta, e si afferrasse ed attaccasse a questa, lasciò, che, essendo la terra un animale, e per conseguenza un corpo dissimilare, non deve esser stimata un corpo freddo per alcune parti, massimamente esterne, ed eventilate da l’aria; che per altri membri, che son li più di numero e di grandezza, debba esser creduta e calda e caldissima lasciò ancora, che, disputando con supponere in parte i principii de l’avversario, il quale vuol essere stimato e fa professione di Peripatetico, ed in un’altra parte in principii proprii, e li quali non son concessi, ma provati, la terra verrebbe ad esser così calda, come il sole in qualche comparazione.
Smi. Come questo?
Teo. Perchè, per quel che abbiamo detto, dal svanimento
de le parti oscure ed opache del globo, e da la unione de le parti cristalline e lucide si viene sempre a le regioni più e più distanti a diffondersi più e più di lume. Or se il lume è causa del calore, come con esso Aristotele molti altri affermano, i quali vogliono, che anco la luna ed altre stelle per maggior e minor partecipazione di luce son più e meno
calde, onde quando alcuni pianeti son chiamati freddi, vogliono che s’intenda per certa comparazione e rispetto,
avverrà, che la terra con li raggi, ch’ella manda a le lontane parti de l’eterea regione, secondo la virtù de la luce venghi a comunicar altrettanto di virtù di calore. Ma a noi non consta, che una cosa per tanto ch’è lucida, sii calda; perchè veggiamo a presso di noi molte cose lucide, ma non calde. Or per tornare a Nundinio, ecco che comincia a mostrar i denti, allargar le mascelle, stringer gli occhi, rugar le ciglia, aprir le narici, e mandar un crocito di cappone per la calla del polmone, a ciò che con questo riso li circostanti stimassero, che lui la intendeva bene, lui aveva ragione, e quell’altro dicea cose ridicole.
Fru. E che sia il vero vedere, come lui, se ne rideva?
Teo. Questo accade a quello, che dona confetti a porci. Dimandato, perchè ridesse? rispose, che questo dire ed imaginarsi, che siino altre terre, che abbino medesme proprietà ed accidenti, è stato tolto da le vere narrazioni di Luciano. Rispose il Nolano, che se, quando Luciano disse la luna essere un’altra terra così abitata e colta, come questa, venne a dirlo, per burlarsi di que’ filosofi, che affermorno essere molte terre (e particolarmente la luna, la cui similitudine con questo nostro globo è tanto più sensibile, quanto è più vicina a noi) lui non ebbe ragione, ma mostrò essere ne la comune ignoranza e cecità; perchè se ben consideriamo, trovaremo la terra e tanti altri corpi, che son chiamati astri, membri principali de l’universo, come danno la vita e nutrimento a le cose, che da quelli togliono la materia, ed a’ medesmi la restituiscano, così e molto maggiormente hanno la vita in sè, per la quale con una ordinata e natural volontà da intrinseco principio si muovono a le cose, e per li spazii convenienti ad essi. E non sono altri motori estrinseci, che col muovere fantastiche spere vengano a trasportar questi corpi come inchiodati in quelle; il che se fusse vero, il moto sarebbe violento fuor de la natura del mobile, il motore più imperfetto, il moto ed il motore solleciti e laboriosi, ed altri molti inconvenienti s’aggiungerebbono. Considerisi dunque, che, come il maschio si muove a la femmina, e la femmina al maschio ogni erba ed animale, qual più e qual meno espressamente, si muove al suo principio vitale, come al sole ed altri astri; la calamita si muove al ferro, la paglia a l’ambra, e finalmente ogni cosa va a trovar il simile, e fugge il contrario. Tutto avviene dal sufficiente principio interiore, per il quale naturalmente viene ad esagitarsi, e non da principio esteriore, come veggiamo sempre accadere a quelle cose, che son mosse o contra, o estra la propria natura. Muovonsi dunque la terra e gli altri astri secondo le proprie differenze locali dal principio intrinseco, ch’è l’anima propria. Credete, disse Nundinio, che sii sensitiva quest’anima? Non solo sensitiva, rispose il Nolano, ma anco intellettiva; non solo intellettiva, come la nostra, ma forse anco più. Qua tacque Nundinio e non rise.
Pru. Mi par, che la terra, essendo animata, deve non aver piacere, quando se le fanno queste grotte e caverne nel dorso, come a noi viene dolor e dispiacere, quando ne si pianta qualche dente là; o ne si fora la carne.
Teo. Nundinio non ebbe tanto del Prudenzio, che potesse stimar questo argomento degno di produrlo, ben che gli fusse occorso: perchè non è tanto ignorante filosofo, che non sappia, che s’ella ha senso, non l’ha simile al nostro; se quella ha le membra, non le ha simili a le nostre; se ha carne, sangue nervi, ossa, e vene, non sono simili a le nostre; se ha il core non l’ha simile al nostro: cosí di tutte l’altri parti, le quali hanno proporzione a li membri d’altri ed altri, che noi chiamiamo animali, e comunemente son stimati solo animali. Non è tanto buono Prudenzio, e mal medico, che non sappia, che a la gran mole de la terra questi sono insensibilissimi accidenti, li quali a la nostra imbecillità sono tanto sensibili; e credo che intenda, che non altrimenti, che negli animali, quali noi conoscemo per animali, le loro parti sono in continua alterazione e moto, ed hanno un certo flusso e riflusso, dentro accogliendo sempre qualche cosa da l’estrinseco, e mandando fuori qualche cosa da l’intrinseco: onde s’allungano l’unghie, si nutriscono i pili, le lane, ed i capelli, si risaldano le pelli, s’induriscono i cuoii; cosí la terra riceve l’efflusso ed influsso delle parti, per quali molti animali, a noi manifesti per tali, ne fan vedere espressamente la lor vita: come è piú che verisimile, essendo che ogni cosa participa di vita, molti ed innumerabili individui vivono non solamente in noi, ma in tutte le cose composte, e quando veggiamo alcuna cosa, che si dice morire, non doviamo tanto credere quella morire, quanto ch’ella si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia, rimanendone le cose, che quella incorrono, sempre immortali, piú quelle, che son dette spirituali, che quelle dette corporali, e materiali, come altre volte mostraremo. Or per venire al Nolano, quando vide Nundinio tacere, per risentirsi a tempo di quella derisione nundinica, che comparava le posizioni del Nolano a le vere narrazioni di Luciano, espresse un poco di fiele e gli disse, che disputando onestamente non dovea ridersi, e burlarsi di quello, che non può capire; chè se io, disse il Nolano, non rido per le vostre fantasie, nè voi dovete per le mie sentenze; se io con voi disputo con civiltà e rispetto, al meno altretanto dovete far voi a me, il quale vi conosco di tanto ingegno, che se io volessi difendere per verità le dette narrazioni di Luciano, non sareste sufficiente a distruggerle. Ed in questo modo con alquanto di collera rispose al riso, dopo aver risposto con più ragioni a la dimanda.
Quinta proposta di Nundinio.
Importunato Nundinio sì dal Nolano, come da gli altri che, lasciando le questioni del perchè, e come, e quale, facesse qualche argomento. —
Pru. Per quomodo et quare quilibet asinus novit disputare.
Teo. Al fine fe’ questo, del quale ne son pieni tutti cartoccini, che, se fusse vero, la terra muoversi verso il lato, che chiamiamo oriente, necessario sarebbe, che le nuvole de l’aria sempre apparissero discorrere verso l’occidente, per ragione del velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spazio di ventiquattro ore deve aver compito sì gran
giro. A questo rispose il Nolano, che questo aere, per il quale discorrono le nuvole e li venti, è parte de la terra; perchè sotto nome di terra vuol lui e deve essere così al proposito, che s’intenda tutta la macchina, e tutto l’animale intiero, che consta di sue parti dissimilari: onde li fiumi, li sassi, li mari, tutta l’aria vaporosa e turbulenta, la quale è rinchiusa ne gli altissimi monti, appartiene a la terra, come membro di quella, o pur come l’aria, ch’è nel pulmone ed altre cavità de gli animali, per cui respirano, si dilatano le arterie, ed altri effetti necessarii a la vita s’adempiscono. Le nuvole dunque da gli accidenti, che son nel corpo de la terra si muovono e son come ne le viscere di quella, così come le acque. Questo lo intese Aristotele nel primo de la Meteora, dove dice, che questo aere, ch’è circa la terra umido e caldo per le esalazioni di quella, ha sopra di sè un altro aere, il quale è caldo e secco, ed ivi non si trovan nuvole: e questo aere è fuori de la circonferenza de la terra, e di quella superficie, che la definisce, a fin che venga ad essere perfettamente rotonda; e che la generazion de’ venti non si fa se non nelle viscere e luoghi della terra; però sopra gli alti monti nè nuvole, nè venti appajono, ed ivi l’aria si muove regolatamente in circolo, come l’universo corpo. Questo forse intese Platone allor che disse, noi abitare ne le concavità e parti oscure de la terra, e che quella proporzione abbiamo a gli animali, che vivono sopra la terra, la quale hanno li pesci a noi abitanti in un umido più grosso. Vuol dire, che in certo modo quest’aria vaporosa è acqua, ed il puro aere, che contiene più felici animali, è sopra la terra, dove, come questa Amfitrite è acqua a noi, così questo nostro aere è acqua a quelli. Ecco dunque onde si può rispondere a l’argomento riferito dal Nundinio; perchè così il mare non è ne la superficie, ma ne le viscere de la terra, come l’epate fonte de gli umori in noi, questa aria turbulenta non è fuori, ma è come nel polmone de gli animali.
Smi. Or, onde avviene, che noi veggiamo l’emispero intiero, essendo che abitiamo ne le viscere de la terra?
Teo. Da la mole de la terra globosa non solo ne la ultima superficie, ma anco in quelle, che sono interiori, accade, che a la vista de l’orizonte così una convessitudine doni loco a l’altra, che non può avvenire quell’impedimento, qual veggiamo, quando tra gli occhi nostri ed una parte del cielo s’interpone un monte, che, per esserne vicino, ne può togliere la perfetta vista del circolo de l’orizonte: la distanza dunque di cotai monti, i quali seguono la convessitudine de la terra, la quale non è piana, ma orbicolare, fa, che non ne sii sensibile, l’essere entro le viscere de la terra; come si può alquanto considerare ne la presente figura,
dove la vera superficie de la terra è A B C, entro la quale superficie vi sono molte particolari del mare, ed altri continenti, come per esempio M, dal cui punto non meno veggiamo l’intiero emispero, che dal punto A ed altri de l’ultima superficie. Dal che a ragione è da dui capi, e da la grandezza de la terra, e da la convessitudine circonferenziale di quella; per il che M punto non è in tanto impedito, che non possa vedere l’emispero: perchè gli altissimi monti non si vengono ad interporre al punto M, come la linea M B; — il che credo accaderebbe, quando la superficie de la terra fosse piana — ma come la linea M C — M D. La quale non viene a cagionar tale impedimento, come si vede in virtù de l’arco circonferenziale. E nota davantaggio, che sì come si riferisce M a C e M a D, così anco K si riferisce a M; onde non deve esser stimato favola quel che disse Platone de le grandissime concavità e seni de la terra.
Smi. Vorrei sapere, se quelli, che sono vicini agli altissimi monti, patiscono questo impedimento?
Teo. No, ma quei, che sono vicini a monti minori, perchè non sono altissimi li monti, se non sono medesmamente grandissimi in tanto, che la loro grandezza è insensibile a la nostra vista: di modo, che vengono con quello a comprendere più e molti orizonti artificiali, ne’ quali gli accidenti de gli uni non possono donar alterazione a gli altri. Però per gli altissimi non intendiamo, come l’Alpe e li Pirenei e simili, ma come la Francia tutta, ch’è tra dui mari, settentrionale Oceano, ed australe Mediterraneo; da quai mari verso l’Alvernia sempre si va montando, come anco da le Alpe e li Pirenei, che son stati altre volte la testa d’un monte altissimo, la qual, venendo tuttavia fracassata dal tempo, che ne produce in altra parte per la vicissitudine de la rinovazione de le parti de la terra, forma tante montagne particolari, le quali noi chiamiamo monti. Però quanto a certa instanzia, che produsse Nundinio de li monti di Scozia, dove forse lui è stato, mostra, che lui non può capire quello, che s’intende per gli altissimi monti; perchè secondo la verità tutta questa isola Britannia è un monte, che alza il capo sopra l’onde del mare Oceano, del qual monte la cima si deve comprendere nel loco più eminente de l’isola: la qual cima, se giunge a la parte tranquilla de l’aria, viene a provare, che questo sii uno di que’ monti altissimi, dov’è la regione di forse più felici animali. Alessandro Afrodisio ragiona del monte Olimpo, dove per esperienza de le ceneri di sacrificii mostra la condizion del monte altissimo e de l’aria sopra i confini e membri de la terra.
Smi. M’avete sufficientissimamente satisfatto, ed altamente aperto molti secreti de la natura, che sotto questa chiave sono ascosi. Da quel, che rispondete a l’argomento tolto da venti e nuvole, si prende ancora la risposta de l’altro che nel secondo libro del cielo e mondo apportò Aristotele, dove dice, che sarebbe impossibile, che una pietra gittata a l’alto potesse per medesma rettitudine perpendicolare tornare al basso; ma sarebbe necessario, che il velocissimo moto de la terra se la lasciasse molto a dietro verso l’occidente. Perchè essendo questa projezione dentro la terra, è necessario, che col moto di quella si venga a mutar ogni relazione di rettitudine ed obbliquità: perchè è differenza tra il moto de la nave, e moto di quelle cose, che sono nella nave: il che se non fusse vero, seguitarebbe, che, quando la nave corre per il mare, giammai alcuno potrebbe trarre per dritto qualche cosa da un canto di quella a l’altro, e non sarebbe possibile, che un potesse far un salto, o ritornare co’ piè, onde li tolse. Con la terra dunque si muovono tutte le cose, che si trovano in terra. Se dunque dal loco estra la terra qualche cosa fusse gittata in terra, per il moto di quella perderebbe la rettitudine. Come appare ne la nave2, la qual, passando per il fiume, se alcuno, che si ritrova ne la sponda di quello, venga a gittar per dritto un sasso, verrà fallito il suo tratto, per quanto comporta la velocità del corso. Ma posto alcuno sopra l’arbore di detta nave, che corra quanto si voglia veloce, non fallirà punto il suo tratto: di sorte che per dritto dal punto, ch’è ne la cima de l’arbore, o ne la gabbia al punto, ch’è ne la radice de l’arbore, o altra parte del ventre e corpo di detta nave, la pietra o altra cosa grave gittata non vegna. Così se dal punto de la radice al punto de la cima de l’arbore, o de la gabbia, alcuno ch’è dentro la nave, gitta per dritta una pietra, quella per la medesma linea ritornarà a basso, muovasi quanto si voglia la nave, pur che non faccia de gl’inchini.
Smi. Da la considerazione di questa differenza si apre la porta a molti ed importantissimi secreti di natura, e profonda filosofia, atteso ch’è cosa molto frequente e poco considerata, quanta sii differenza da quel, che uno medica sè stesso, e quel che vien medicato da un altro. Assai n’è manifesto, che prendemo maggior piacere e satisfazione, se per propria mano venemo a cibarci, che se per l’altrui braccia. I fanciulli allor che possono adoprar li proprii instrumenti, per prendere il cibo, non volentieri si servono de gli altrui; quasi che la natura in certo modo li faccia apprendere, che, come non v’è tanto piacere, non v’è anco tanto profitto, i fanciullini, che poppano, vedete, come s’appigliano con la mano alla poppa? Ed io, giammai per latrocinio son stato sì fattamente atterrito, quanto per quello d’un domestico servitore: perchè non so, che cosa d’ombra e di portento apporta seco più un familiare, che un straniero, per che riferisce come una forma di mal genio e presagio formidabile.
Teo. Or per tornare al proposito, se dunque saranno dui, de’ quali l’uno si trova dentro la nave, che corre, e l’altro fuori di quella, de’ quali tanto l’uno, quanto l’altro abbia la mano circa il medesmo punto de l’aria, e da quel medesmo loco nel medesmo tempo ancora l’uno lasci scorrere una pietra, e l’altro un’altra, senza che le donino spinta alcuna, quella del primo, senza perdere punto, nè deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco; e quella del secondo si trovarà tralasciata a dietro. Il che non procede da altro, eccetto che la pietra, ch’esce da la mano de l’uno, ch’è sustentato da la nave, e per conseguenza si muove secondo il moto di quella, ha tal virtù impressa, quale non ha l’altra, che procede dalla mano di quello, che n’è di fuora, ben che le pietre abbino medesma gravità, medesma aria tramezzante, si partano — possibil fia — dal medesmo punto, e patiscano la medesma spinta. De la qual diversità non possiamo apportar altra ragione, eccetto che le cose, che hanno fissione, o simili appartenenze ne la nave, si muovono con quella; e l’una pietra porta seco la virtù del motore, il quale si muove con la nave, l’altra di quello, che non ha detta participazione. Da questo manifestamente si vede, che non dal termine del moto, onde si parte, nè dal termine, dove va, nè dal mezzo, per cui si muove, prende la virtù d’andar rettamente, ma da l’efficacia de la virtù primieramente impressa, da la quale dipende la differenza tutta. E questo mi par che basti aver considerato, quanto a le proposte di Nundinio.
Smi. Or domani ne rivedremo, per udir li propositi, che soggiunse Torquato.
Fru. Fiat!
- ↑ Il testo erroneamente ha massima.
- ↑ Questa nave suggerita qui nell’originale è stata omessa, sì perchè non parve necessaria per sè, e sì perchè vi mancano le lettere, alle quali si riferisce il testo. Onde nel modo, in cui acconciammo agevolmente il testo, tralasciando solamente le lettere, il tutto sarà intelligibile abbastanza.