< Ciro riconosciuto
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Ciro riconosciuto Interlocutori

ARGOMENTO

Il crudelissimo Astiage, ultimo re de’ medi, in occasione del parto della sua figliuola Mandane, dimandò spiegazione agl’indovini sopra alcun suo sogno, e gli fu da loro predetto che il nato nipote dovea privarlo del regno: ond’egli, per prevenir questo rischio, ordinò ad Arpago che uccidesse il picciolo Ciro (ché tal era il nome del nato infante), e divise Mandane dal consorte Cambise, rilegando questo in Persia e ritenendo l’altra appresso di sé, affinché non nascesser da loro, insieme con altri figli, nuove cagioni a’ suoi timori. Arpago, non avendo coraggio di eseguir di propria mano cosí barbaro comando, recò nascostamente il bambino a Mitridate, pastore degli armenti reali, perché l’esponesse in un bosco. Trovò che la consorte di Mitridate avea, in quel giorno appunto, partorito un fanciullo, ma senza vita; onde la natural pietá, secondata dal comodo del cambio, persuase ad entrambi che Mitridate esponesse il proprio figliuolo giá morto, ed il picciol Ciro, sotto nome d’Alceo, in abito di pastore, in luogo di quello, educasse. Scorsi da questo tempo presso a tre lustri, destossi una voce che Ciro, ritrovato in una foresta bambino, fosse stato dalla pietá d’alcuno conservato e che fra gli sciti vivesse. Vi fu impostore cosí ardito, che, approfittandosi di questa favola o avendola forse a bello studio inventata, assunse il nome di Ciro. Turbato Astiage a tal novella, fece a sé venire Arpago, e dimandollo di nuovo se avesse egli veramente ucciso il picciolo Ciro, quando gli fu imposto da lui. Arpago, che dagli esterni segni avea ragion di sperare che fosse pentito il re, stimò questa un’opportuna occasione di tentar l’animo suo; e rispose di non avere avuto coraggio d’ucciderlo, ma d’averlo esposto in un bosco: preparato a scoprir tutto il vero, quando il re si compiacesse della sua pietosa disubbidienza, e sicuro frattanto che, quando se ne sdegnasse, non potean cadere i suoi furori che sul finto Ciro, di cui con questa dimezzata confessione accreditava l’impostura. Sdegnossi Astiage, ed in pena del trasgredito comando privò Arpago d’un figlio, e con sí barbare circostanze, che, non essendo necessarie all’azione che si rappresenta, trascuriamo volentieri di rammentarle. Sentí trafiggersi il cuore l’infelice Arpago nella perdita del figlio; ma pure, avido di vendetta, non lasciò di libertá alle smanie paterne, se non quanta ne bisognava perché la soverchia tranquillitá non iscemasse credenza alla sua simulata rassegnazione. Fece credere al re che nelle lagrime sue avesse parte maggiore il pentimento del fallo che il dolor del castigo; e rassicurollo a segno che, se non gli rese interamente la confidenza primiera, almeno non si guardava da lui. Incominciarono quindi Arpago a meditar le sue vendette, ed Astiage le vie d’assicurarsi il trono con l’oppressione del creduto nipote. Il primo si applicò a sedurre, ad irritare i grandi contro del re e ad eccitare il principe Cambise fino in Persia, dove viveva in esilio; il secondo a simular pentimento della sua crudeltá usata contro di Ciro, tenerezza per lui, desiderio di rivederlo e risoluzione di riconoscerlo per suo successore. Ed all’uno ed all’altro riuscí cosí felicemente il disegno, che non mancava ormai che lo stabilimento del giorno e del luogo, ad Arpago per opprimere il tiranno con l’acclamazione del vero Ciro, ad Astiage per aver nelle sue forze il troppo credulo impostore col mezzo d’un fraudolento invito. Era costume de’ re di Media il celebrare ogni anno su’ confini del regno (dov’erano appunto le capanne di Mitridate) un solenne sacrifizio a Diana. Il giorno ed il luogo di tal sacrifizio (che saran quelli dell’azione che si rappresenta) parvero ad entrambi opportuni all’esecuzione de’ loro disegni. Ivi per vari accidenti ucciso il finto Ciro, scoperto ed acclamato il vero, si vide Astiage assai vicino a perdere il regno e la vita; ma, difeso dal generoso nipote, pieno di rimorso e di tenerezza, depone sulla fronte di lui il diadema reale, e lo conforta sul proprio esempio a non abusarne, com’egli ne avea abusato.

(Erodoto, Clio, lib. i; Giustino, lib. i; Ctesia, Hist. excerpta; Valerio Massimo, i, 7, ecc.).

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