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Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO

SCENA I

Vasta pianura ingombrata di ruine d’antica cittá, giá per lungo tempo inselvatichite.

Mandane e Mitridate.

Mandane. Ah, Mitridate! ah, che mi dici! Alceo

dunque è il mio Ciro?
Mitridate.   Oh Dio!
piú sommessa favella. (guardando con timore all’intorno)
Mandane.   Alcun non ode.
Mitridate. Potrebbe udir. Sotto un crudele impero
troppo mai non si tace. Un sogno, un’ombra
passa per fallo e si punisce. È incerta
d’ogni amico la fé: le strade, i tempii,
le mense istesse, i talami non sono
dall’insidie sicuri. Ovunque vassi,
v’è ragion di tremar: parlano i sassi.
Mandane. Ma rassicura almeno
i dubbi miei.
Mitridate.   Rassicurar ti vuoi?
Dimandane il tuo cor. Qual piú sincero
testimonio ha una madre?
Mandane.   È vero, è vero.
Or mi sovvieni quando mi venne innanzi
la prima volta Alceo, tutto m’intesi,
tutto il sangue in tumulto. Ah! perché tanto
celarmi il ver?

Mitridate.   Cosí geloso arcano

mal si fida a’ trasporti
del materno piacer. Se il tuo dolore
pietá non mi facea, se del tuo sdegno
contro Alceo non temevo, ignoto ancora
ti sarebbe il tuo figlio.
Mandane.   A parte a parte
tutto mi spiega.
Mitridate.   Io veggo
da lungi il re.
Mandane.   Col fortunato avviso
corriamo a lui.
Mitridate.   Ferma! (Nol dissi?) Ah! taci,
se vuoi salvo il tuo Ciro.
Mandane.   Eterni dèi!
perché?
Mitridate.   Parti.
Mandane.   Ma il padre...
Mitridate. Or di piú non cercar.
Mandane.   Sai che il mio figlio
prigioniero è per me.
Mitridate.   Se parti e taci,
libero tel prometto.
Mandane.   E per qual via?
Mitridate. (Che pena!) A me ne lascia
tutto il pensier: va’.
Mandane.   Come vuoi. Ma posso
crederti, Mitridate,
fidarmi a te?
Mitridate.   Se puoi fidarti? oh stelle!
se puoi credermi? oh dèi! Bella mercede
dalla grata Mandane ha la mia fede!
Mandane.   Non sdegnarti; a te mi fido:
     credo a te; non sono ingrata;
     ma son madre e sfortunata:
     compatisci il mio timor.

          Va’: se in te pietade ha nido,

     a salvarmi il figlio attendi;
     la piú tenera difendi
     cara parte del mio cor. (parte)

SCENA II

Mitridate, poi Astiage.

Mitridate. O de’ provvidi numi

infinito saper, per qual di Ciro
mirabile cammin guidi la sorte!
Lo manda Astiage a morte;
la mia pietá lo serba; e a me, perch’io
non possa esser convinto,
nasce opportuno al cambio un figlio estinto.
Si sa che Ciro è in vita;
il re lo cerca; e, affinch’ei sia deluso,
ecco, né si sa come,
usurpa un impostor di Ciro il nome.
Vien lusingato il falso erede; e il vero
nol conosce e l’uccide; e il colpo appunto
in tal tempo succede,
che il tiranno lo crede
esecuzion d’un suo comando. E pure
trovasi ancor chi, per sottrarsi a’ numi,
forma un nume del caso, e vuol che il mondo
da una mente immortal retto non sia.
Cecitá temeraria! empia follia!
Astiage. Mitridate.
Mitridate.   Signor, fosti ubbidito.
Ciro non vive piú.
Astiage.   Lo so. Ti deggio,
amico, il mio riposo. E qual poss’io
render degna mercede a’ merti tui?
Vieni, vieni al mio seno. (Odio costui.)

Mitridate. Altro premio io non vuo’...

Astiage.   Non trattenerti,
Mitridate, con me: potrebbe alcuno
dubitar del segreto.
Mitridate.   Il figlio Alceo...
Astiage. So che vuoi dirmi: è prigioniero. Io penso
a salvarlo, a premiarti.
Tutto farò per voi: fidati e parti.
Mitridate. Vado, mio re.
Astiage.   (Piú non tornasse almeno!)
Mitridate. (Qual tempesta i tiranni han sempre in seno!) (parte)

SCENA III

Astiage e poi Arpago.

Astiage. Che oggetto tormentoso agli occhi miei

costui divenne! Ei sa il mio fallo: a tutti
palesarlo potrá. Servo mi resi
del piú reo de’ miei servi. Ah! Mitridate
mora dunque, ed Alceo. L’estinto Ciro
il pretesto sará... No. S’io gli espongo
a un pubblico giudizio, il mio segreto
paleseran costoro
per imprudenza o per vendetta. È meglio
assolverli per ora: un colpo ascoso
indi gli opprima. E in qual funesta entrai
necessitá d’esser malvagio! A quanti
delitti obbliga un solo! E come, oh Dio,
un estremo mi porta all’altro estremo!
Son crudel, perché temo; e temo appunto,
perché son sí crudel. Congiunta in guisa
è al mio timor la crudeltá, che l’una
nell’altro si trasforma, e l’un dell’altra
è cagione ed effetto; onde un’eterna

rinnovazion d’affanni

mi propaga nell’alma i miei tiranni.
Arpago. Ah! signor... (affettando affanno)
Astiage. (con ispavento) Giusti dèi! che fu?
Arpago.   Sicuro
non è il sangue real.
Astiage.   Che! si cospira
contro di me?
Appago.   No; ma il tuo Ciro estinto
chiede vendetta.
Astiage.   (Altro temei.)
Arpago.   (Di tutto
il misero paventa.)
Astiage.   Udisti, amico.
dunque la mia sventura? Il sol perdei
conforto mio.
Arpago.   (Falso dolor! Con l’arte
l’arte deluderò.)
Astiage.   Né mi è permesso
punire alcun senza ingiustizia: è stato
involontario il colpo.
Arpago.   Alceo lo dice:
ma chi sa?
Astiage.   Non mi resta
luogo a sospetti. Ho indubitate prove
dell’innocenza sua. Punir nol deggio
d’una colpa del caso. Alceo si ponga,
Arpago, in libertá; ma fa’ che mai
a me non si presenti,
né le perdite mie piú mi rammenti.
Arpago. Ubbidito sarai.

SCENA IV

Arpalice e detti.

Arpalice.   Gran re, perdono!

pietá!
Astiage.   Di che?
Arpalice.   Del piú crudel delitto
che una suddita rea...
Astiage. (con timore)  Come! tu ancora...
Parla. Che fu?
Arpago.   (Torna a tremar.)
Arpalice.   Son io
la misera cagion che Ciro è morto:
Alceo colpa non ha. Le sue catene
sciogli pietoso, or che al tuo piè sen viene.
Astiage. Dov’è?
Arpalice.   Vedilo.

SCENA V

Ciro fra le guardie, e detti.

Astiage.   È quello

di Mitridate il figlio? (ad Arpago a parte)
Arpago.   Appunto.
Astiage.   Oh dèi,
che nobil volto! Il portamento altèro
poco s’accorda alla natia capanna.
Che dici? (ad Arpago)
Arpago.   È ver; ma l’apparenza inganna.
Ciro. Dimmi, Arpalice: è quello
il nostro re? (ad Arpalice a parte)

Arpalice.   Sí.

Ciro.   (Pur mi desta in petto
sensi di tenerezza e di rispetto.) (da sé)
Astiage. (Parlar seco è imprudenza:
partasi.) (s’incammina e poi si ferma)
Arpago.   (Lode al cielo!)
Astiage. (ad Arpago a parte)  Arpago, e pure
in quel sembiante un non so che ritrovo,
che non distinguo e non mi giunge nuovo.
Arpago. (Aimè!)
Ciro.   Pria che mi lasci, (appressandosi al re)
eccelso re...
Arpago.   Taci, pastor! commessa
è a me la sorte tua: parlando, aggravi
il suo dolor.
Ciro.   Piú non favello. (ritirandosi)
Arpago.   E ancora,
signor, non vai? Qual maraviglia è questa?
Perché cambi color? Che mai t’arresta?
Astiage.   Non so: con dolce moto
     il cor mi trema in petto;
     sento un affetto ignoto,
     che intenerir mi fa.
          Come si chiama, oh Dio!
     questo soave affetto?
     (Ah! se non fosse mio,
     lo crederei pietá.) (parte)

SCENA VI

Ciro, Arpago ed Arpalice.

Arpago. (Partí: respiro.) Arpalice, col reo

lasciami solo.
Arpalice.   Ah! genitor, tu m’ami,
sai che Alceo mi difese, e reo lo chiami?

Arpago. Sparse il sangue real.

Arpalice.   Senza saperlo,
assalito...
Arpago.   Non piú: va’.
Arpalice.   Se nol salvi,
l’umanitade offendi.
Ah! della figlia il difensor difendi.
Arpago. E se il tuo difensore
un traditor poi fosse?
Arpalice.   Un traditore!
          Guardalo in volto, e poi,
     se tanto core avrai,
     chiamalo traditor.
          Come negli occhi suoi,
     bella chi vide mai
     l’immagine di un cor? (parte)

SCENA VII

Arpago e Ciro.

Arpago. Quel pastor sia disciolto; (alle guardie)

e parta ognun. (partono le guardie)
Ciro.   (Quanto la figlia è grata,
è cauto il genitor.)
Arpago.   Posso una volta
parlarti in libertá. Permetti ormai
che umile a’ piedi tuoi... (inginocchiandosi)
Ciro.   Sorgi: che fai?
Arpago. Il primo bacio imprimo
su la destra reale, onor dovuto
pur troppo alla mia fé. Ciro, perdona
se di pianto mi vedi umido il ciglio:
questo bacio, o signor, mi costa un figlio.

Ciro. Sorgi, vieni, o mio caro

liberator, vieni al mio sen. Di quanto
debitor ti son io, giá Mitridate
pienamente m’istrusse.
Arpago.   Ancor compita
l’opra non è. Sul tramontar del sole
vedrai... Ma vien da lungi
Mandane a noi: cerca evitarla.
Ciro.   Intendo:
temi ch’io parli. Eh! non temer: giurai
di non spiegarmi a lei, finché permesso
non sia da Mitridate; e fedelmente
il giuramento osserverò.
Arpago.   T’esponi,
signor...
Ciro.   Va’: non è nuovo
il cimento per me.
Arpago.   Deh! non perdiamo
di tant’anni il sudor. Sul fin dell’opra
tremar convien. L’esser vicini al lido
molti fa naufragar. Scema la cura,
quando cresce la speme;
e ogni rischio è maggior per chi nol teme.
          Cauto guerrier pugnando
     giá vincitor si vede;
     ma non depone il brando,
     ma non si fida ancor:
          ché, le nemiche prede
     se spensierato aduna,
     cambia talor fortuna
     col vinto il vincitor. (parte)

SCENA VIII

Ciro e poi Mandane.

Ciro. O madre mia, se immaginar potessi

che il tuo figlio son io!
Mandane.   Mio caro figlio!
mio Ciro! mio conforto!
Ciro.   Io! come? (Oh stelle!
giá mi conosce.)
Mandane.   Alle materne braccia
torna, torna una volta... Ah! perché schivi
gli amplessi miei?
Ciro.   Temo... Potresti... (Oh numi!
non so che dir.)
Mandane.   Non dubitar; son io
la madre tua: non te lo dice il core?
Vieni...
Ciro.   Sentimi pria. (Numi, consiglio:
parlar deggio o tacer?)
Mandane.   M’evita il figlio!
Ciro. (Perché tacer? Giá mi conosce.) È tempo...
Poiché tant’oltre... (Ah! no. Dal giuramento
sciolto ancor non son io. Dee Mitridate
consentir ch’io mi spieghi.)
Mandane.   E ben, t’ascolto:
che dir mi vuoi?
Ciro.   (Sarò crudel tacendo:
ma spergiuro e imprudente
favellando sarei.)
Mandane.   Né m’ode!
Ciro.   (Alfine
col tacer differisco

solamente un piacer; ma forse il frutto

dell’altrui cure e de’ perigli immensi
arrischio col parlar.)
Mandane.   Che fai? che pensi?
che ragioni fra te? Quei passi incerti,
quelle nel proferir voci interrotte
che voglion dir? Che la tua madre io sono,
sai finora o non sai? Se giá t’è noto,
perché t’infingi? e, se t’è ignoto ancora,
perché freddo cosí? Parla!
Ciro.   (Che pena!
Sento il sangue in tumulto in ogni vena.)
Mandane. Trovar dopo tre lustri
una madre...
Ciro.   (E qual madre!)
Mandane. ...e accoglierla in tal guisa?
e fuggir le sue braccia?
Ciro. (Ah! Mitridate, e come vuoi ch’io taccia?)
Mandane. Questi son dunque i teneri trasporti,
le lagrime amorose, i cari amplessi
e le frapposte a’ baci
affollate domande? — Ah! madre... — Ah! figlio...
— Udisti i casi miei? Narrami i tui...
— Quanto errai!... — Quanto piansi!... — Io dissi... — Io fui... —
No, questo è troppo: o il figlio mio non sei,
o per nuova sventura
tutti gli ordini suoi cambiò natura.
Ciro. (Si voli a Mitridate: egli alla madre
di spiegarmi permetta.)
Mandane. Né vuoi parlar?
Ciro.   Sí: pochi istanti aspetta:
a momenti ritorno. (s’incammina frettoloso)
Mandane.   Ah! prima... ah! senti;
di’: sei Ciro o non sei?
Ciro.   Torno a momenti.

          Parlerò; non è permesso

     che finor mi spieghi a pieno.
     Tornerò; sospendi almeno,
     finché torni, il tuo dolor.
          Se trovarmi ancor non sai
     tutto in volto il core espresso,
     tutto or or mi troverai
     su le labbra espresso il cor. (parte)

SCENA IX

Mandane e poi Cambise.

Mandane. Onnipotenti numi,

questo che vorrá dir? Sarebbe mai
la mia speme un inganno?
Cambise.   Amata sposa,
mio ben.
Mandane.   Sogno o son desta?
Cambise! idolo mio! tu qui! tu sciolto!
Qual man liberatrice...
Cambise.   Arpago... oh quanto
dobbiamo alla sua fede! Arpago è quello
che mi salvò. Me prigionier raggiunse
per cammino un suo messo; a’ miei custodi
parlò: fui sciolto. — In libertá, — mi disse —
signor, tu sei. Va’: con piú cura evita
qualche incontro funesto:
Arpago, che m’invia, diratti il resto. —
Mandane. Oh vero, oh fido amico!
Cambise.   E pure il figlio
serbarci non poté. Sapesti?... Oh Dio,
che barbaro accidente!
Mandane.   Il piú crudele

saria che mai s’udisse,

se fosse ver.
Cambise.   Se fosse vero? Ah! dunque
ne possiam dubitar? Parla, Mandane;
consola il tuo Cambise.
Mandane.   E come posso
te consolar, se non distinguo io stessa
quel che creder mi debba?
Cambise.   Almen qual hai
ragion di dubitar?
Mandane.   Si vuol che sia
l’ucciso un impostor, e il nostro figlio
quel pastor che l’uccise.
Cambise.   O dèi pietosi,
avverate la speme. E tu vedesti
questo pastore?
Mandane.   Or da me parte.
Cambise.   È dunque?...
Mandane. Quei che meco or parlava.
Cambise.   Un giovanetto,
generoso all’aspetto,
di biondo crin, di brune ciglia, a cui,
forse proprio trofeo, gli omeri adorna
spoglia d’uccisa tigre?
Mandane.   Appunto.
Cambise.   Il vidi,
e m’arrestai finché da te partisse;
ma sugli occhi mi sta. Pur, che ti disse?
Mandane. Nulla.
Cambise.   Un contento estremo
fa spesso istupidir. Ma qual ti parve?
Mandane. Confuso.
Cambise.   A’ boschi avvezzo,
il dovea te presente. E chi l’arcano
ti svelò?
Mandane.   Mitridate.

Cambise. (si turba)  Aimè!

Mandane.   Da lui
fu, se pur non mentisce,
sotto nome d’Alceo, come suo figlio,
Ciro nutrito.
Cambise.   E Alceo si chiama?
Mandane.   Alceo.
Cambise. Oh nera frode! oh scellerati! oh troppo
credula principessa!
Mandane.   Onde, o Cambise,
queste smanie improvvise?
Cambise.   Alceo di Ciro
è il carnefice indegno. Il colpo è stato
del tuo padre un comando.
Mandane.   Ah! taci.
Cambise.   Io stesso
celato mi trovai
dove Astiage l’impose: io l’ascoltai.
Mandane. Quando? a chi?
Cambise.   Non rammenti
che lá nella capanna
di Mitridate a frastornar giungesti
le furie mie?
Mandane.   Sí.
Cambise.   Colá dentro ascoso,
vidi che il re venne a proporre il colpo
a Mitridate. Ei col suo figlio Alceo
Ciro uccider promise;
e appunto il figlio Alceo fu che l’uccise.
Mandane. Misera me!
Cambise.   Dubiti ancor? Non vedi
che teme Mitridate
la tua vendetta, e, per salvare il figlio,
questa favola inventa? Arpago, a cui
tanto incresce di noi, parti che avrebbe
taciuto infino ad ora?

Mandane.   Oh dèi!

Cambise.   Non vedi...
Mandane. Ah! tutto vedo, ah! tutto accorda: è vero,
è il carnefice Alceo. Perciò poc’anzi
tremava innanzi a me; gli amplessi miei
perciò fuggia. Ben de’ materni affetti
volle abusar, ma s’avvilí nell’opra:
sentí quel traditore
repugnar la natura a tanto orrore.
Cambise. Ma tu creder sí presto...
Mandane.   Oh Dio! consorte,
tu non udisti come
Mitridate parlò. Parea che avesse
il cor sui labbri. Anche un tumulto interno,
che Alceo mi cagionò, gli accrebbe fede:
e poi quel che si vuol, presto si crede.
Cambise. Oh dèi, ridurci a tal miseria, e poi
deriderci di piú!
Mandane.   Trarre una madre
fino ad offrire amplessi
d’un figlio all’omicida! Ah! sposo, il mio
non è dolor: smania divenne, insana
aviditá di sangue.
Cambise.   Io stesso, io voglio
soddisfarti, o Mandane. Addio. (partendo)
Mandane.   Ma dove?
Cambise. A ritrovare Alceo,
a trafiggergli il cor: sia pur nascosto
in grembo a Giove. (partendo)
Mandane.   Odi: se lui non giungi
in solitaria parte, avrá l’indegno
troppe difese. Ove s’avvalla il bosco,
fra que’ monti colá, di Trivia il fonte
scorre ombroso e romito:
atto all’insidie è il sito. Ivi l’attendi:
passerá: quel sentiero

porta alla sua capanna; e in uso ogni arte

io porrò perch’ei venga.
Cambise. (sempre in atto di partire) Intesi.
Mandane.   Ascolta.
Ravvisarlo saprai?
Cambise.   Sí, l’ho presente:
parmi vederlo.
Mandane.   Ah! sposo,
non averne pietá: passagli il core;
rinfacciagli il delitto;
fa’ che senta il morir...
Cambise.   Non piú, Mandane:
il mio furor m’avanza:
non inspirarmi il tuo; fremo abbastanza.
          Men bramosa di stragi funeste,
     va scorrendo l’armene foreste
     fiera tigre che i figli perdé.
          Ardo d’ira, di rabbia deliro;
     smanio, fremo; non odo, non miro
     che le furie, che porto con me. (parte)

SCENA X

Mandane e poi Ciro.

Mandane. Se tornasse il fellone... Eccolo!... Oh, come

tremo in vederlo! Una mentita calma
mi rassereni il ciglio.
Ciro. Madre mia, cara madre, ecco il tuo figlio!
Mandane. (Che traditor!)
Ciro.   Pur Mitridate alfine
consente che al tuo sen...
Mandane.   Ferma! (Chi mai
sí reo lo crederia!)
Ciro.   Numi, quel volto

come trovo cambiato! Intendo: è questa

una vendetta. Il mio tacer t’offese:
mi punisci cosí. Perdono, o madre;
bella madre, perdon.
Mandane.   Taci.
Ciro.   Ch’io taccia?
Mandane. (Con quel nome di madre il cor mi straccia!)
Ciro. Basta, basta, non piú: del fallo ormai
è maggiore il castigo.
Mandane.   Odi. (Un istante
tollerate, ire mie.) Madre non vive
piú tenera di me. Questo ritegno
è timor, non è sdegno. Alcun travidi
fra quelle piante ascoso. Il loco è pieno
tutto d’insidie. (Anima rea!) Bisogna
in piú secreta parte
sciôrre il freno agli affetti, ed esser certi
che il re nulla traspiri. Oh quali arcani,
oh quai disegni apprenderai! Palese
vedrai tutto il mio cor.
Ciro.   Vengo, son pronto;
guidami dove vuoi.
Mandane.8 (Giá corre all’ésca
l’ingannator.) Meco venir sarebbe
di sospetti cagion. Tu mi precedi:
ti seguirò fra poco.
Ciro. Ma dove andrem?
Mandane.   Scegli tu stesso il loco.
Ciro. Nella capanna mia?
Mandane.   Sí... Ma potrebbe
sopraggiungere alcun.
Ciro.   Di Pale all’antro?
Mandane. Mai non seppi ove sia.
Ciro.   Di Trivia al fonte?
Mandane. Di Trivia... È forse quello
che bagna il vicin bosco, ov’è piú folto?

Ciro. Sí.

Mandane.   Va’: mi è noto. (Ah! traditor, sei còlto.)
Ciro. Deh! non tardar.
Mandane. (con ira)  Parti una volta.
Ciro.   Oh Dio!
perché quel fiero sguardo?
Mandane.   Io fingo, il sai:
temo che alcun ne osservi.
Ciro.   È ver; ma come
puoi trasformarti a questo segno?
Mandane.   Oh, quanta
violenza io mi fo! Se tu potessi
vedermi il cor... Sento morirmi; avvampo
d’insoffribil desio; vorrei mirarti.
Vorrei di giá... (Non so frenarmi.) Ah! parti.
Ciro.   Parto; non ti sdegnar.
     Sí, madre mia, da te
     gli affetti a moderar
     quest’alma impara.
          Gran colpa alfin non è,
     se mal frenar si può
     un figlio che perdé,
     un figlio che trovò
     madre sí cara. (parte)

SCENA XI

Mandane, poi Arpalice.

Mandane. Che dolcezza fallace!

che voci insidiose! A poco a poco
cominciava a sedurmi. Un inquieto
senso, partendo, ei mi lasciò nell’alma,
che non è tutto sdegno. Affatto priva
non sono alfin d’umanitá. Mi mosse

quel sembiante gentil, que’ molli accenti,

quella tenera etá. Povera madre!
Se madre ha pur, quando saprá che il figlio
lacero il sen da mille colpi... Oh. folle
ch’io son! gli altri compiango
e mi scordo di me. Mora l’indegno!
se ne affligga chi vuole. Il figlio mio
vendicato esser dee. Son madre anch’io.
Arpalice. Principessa, ah! perdona
l’impazienze mie. D’Alceo che avvenne?
è assoluto? è punito? è giusto? è reo?
Mandane. Deh! per pietá, non mi parlar d’Alceo.
               Quel nome se ascolto,
          mi palpita il core;
          se penso a quel volto,
          mi sento gelar.
               Non so ricordarmi
          di quel traditore,
          né senza sdegnarmi,
          né senza tremar. (parte)

SCENA XII

Arpalice sola.

Ah! chi saprebbe mai

d’Alceo darmi novella? Io non ho pace
se il suo destin non so. Ma tanto affanno
troppo i doveri eccede
d’un grato cor. Che? D’un pastore amante
Arpalice sarebbe! Eterni dèi,
da tal viltá mi difendete. Io dunque,
germe di tanti eroi... No, no; rammento
quel che debbo a me stessa. E pur quel volto
mi sta sempre sugli occhi. Ah! chi mi toglie,

chi, la mia pace antica?

È Amore? Io nol distinguo: alcun mel dica.
          So che presto ognun s’avvede
     in qual petto annidi Amore;
     so che tardi ognor lo vede
     chi ricetto in sen gli dá.
          Son d’Amor sí l’arti infide,
     che ben spesso altrui deride
     chi giá porta in mezzo al core
     la ferita e non lo sa.

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