< Ciro riconosciuto
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Atto secondo

ATTO TERZO

SCENA I

Montuosa.

Mandane e Mitridate.

Mandane. Lo veggo, Mitridate: un vivo esempio

tu sei di fedeltá. Non istancarti
l’istoria a raccontarmi: a pro di Ciro
io so giá quanto oprasti,
e Cambise lo sa. Pensiamo entrambi
le tue cure a premiar. (Perfido!) È vero
che del merito tuo sempre minore
la mercede sará; pur quel che feci
sembrerá, lo vedrai,
poco a Mandane, a Mitridate assai.
Mitridate. Questo tanto parlarmi
di premio e di mercé troppo m’offende.
Che? Mandane mi crede
mercenario cosí? S’inganna. Io fui
giá premiato abbastanza,
compiendo il dover mio. Le rozze spoglie
non trasformano un’alma. In me, lo sai,
l’esser pastore è scelta,
non è sventura. Io volontario elessi
questa semplice vita; e forse appunto
per serbarmi qual sono, e qual mi credi
per mai non divenir.

Mandane.   (Numi, a qual segno

può simular l’indegno!)
Mitridate.   Un tal pensiero
tanto oltraggio mi fa...
Mandane.   Perdona: è vero.
Il desio d’esser grata
mi trasportò. Dovea pensar che il solo
premio dell’alme grandi
son l’opre lor. Chi giunse,
e tu ben vi giungesti, al grado estremo
d’un’eroica virtú, tutto ritrova,
tutto dentro di sé: pieno si sente
d’un sincero piacer, d’una sicura
tranquillitá, che rappresenta in parte
lo stato degli dèi. Di’, tu lo provi,
non è cosí?
Mitridate.   Sí; né, di questa invece,
torrei di mille imperi...
Mandane.   Anima vile!
traditor! scellerato!
Mitridate.   Io! principessa,
io!
Mandane.   Sí. Credevi, o stolto,
le tue frodi occultar? Speravi, iniquo,
che invece del mio figlio il tuo dovessi
stringermi al sen? No, perfido! io non sono
tanto in odio agli dèi. Ciro ho perduto;
ma so perché; so chi l’uccise, e voglio
e posso vendicarmi.
Mitridate.   In quale inganno,
in qual misero error...
Mandane.   Taci: m’ascolta,
e comincia a tremar. Sappi che in questo
momento, in cui ti parlo,
sta spirando il tuo figlio.
Mitridate.   Ah! come?

Mandane.   Ed io,

sentimi, traditore; io fui che l’empio
a trovar chi l’uccida
ingannato mandai.
Mitridate.   Tu stessa!
Mandane.   Aita
vedi se può sperar: solingo è il loco,
chi l’attende è Cambise.
Mitridate.   Ah, che facesti,
sconsigliata Mandane! Ah! corri, ah! dimmi
qual luogo almeno...
Mandane.   Oh! questo no: potresti
forse giugnere in tempo. Il loco ancora
saprai, ma non sí presto.
Mitridate.   Ah, principessa,
pietá di te! Quel, che tu credi Alceo,
è il tuo Ciro, è il tuo figlio.
Mandane.   Eh! questa volta
non sperar ch’io ti creda.
Mitridate.   Il suol m’inghiotta,
un fulmine m’opprima,
se mentii, se mentisco.
Mandane.   Empia favella,
familiare a’ malvagi.
Mitridate.   Odimi. Io voglio
qui fra’ lacci restar: tu corri intanto
la tragedia a impedir. Se poi t’inganno,
torna allora a punirmi,
squarciami allora il sen.
Mandane.   Scaltra è l’offerta,
ma non ti giova: in quest’angustia, il colpo
ti basta differir. Sai ch’io non posso
d’alcun fidarmi, e ti prometti intanto
il soccorso del re.
Mitridate.   Che far degg’io.
santi numi del ciel? Povero prence!

infelici mie cure! Io mi protesto

di bel nuovo, o Mandane: il finto Alceo
è Ciro, è il figlio tuo: salvalo! corri!
credimi per pietá! Se non mi credi,
diventi, o principessa,
l’orror, l’odio del mondo e di te stessa.
Mandane. Fremi pure a tua voglia,
non m’inganni però.
Mitridate.   Ma questo, oh Dio!
questo canuto crine
merta sí poca fé? Vaglion sí poco
le lagrime ch’io spargo?
Mandane.   In quelle appunto
conosco il padre. In tale stato anch’io,
barbaro! son per te. Provalo: impara
che sia perdere un figlio.
Mitridate.   (Oh nostra folle,
misera umanitá! Come trionfa
delle miserie sue!) Parla, Mandane:
Ciro dov’è? Vorrai parlar, ma quando
tardi sará.
Mandane.   Va’, traditor! ch’io dica
di piú, non aspettar.
Mitridate.   Sogno? son desto?
Dove corro? che fo? Che giorno è questo!
          Dimmi, crudel, dov’è:
     ah! non tacer cosí.
     Barbaro ciel, perché
     insino a questo dí
     serbarmi in vita?
          Corrasi... E dove? Oh dèi!
     chi guida i passi miei?
     chi almen, chi per mercé
     la via m’addita? (parte)

SCENA II

Mandane, poi Arpago.

Mandane. A quale eccesso arriva

l’arte di simular! Prestansi il nome
oggi fra lor gli affetti; onde i sinceri
impeti di natura
chi nasconder non sa, gli applica almeno
a straniera cagion. Pietá d’amico,
zelo di servo il suo paterno affanno
volea costui che mi paresse; e quasi
mi pose in dubbio. Ah! la sventura mia
dubbia non è: qual piú sicura prova
che d’Arpago il silenzio? Un tale amico,
che il suo perdé per il mio figlio, a cui
noto è il mio duol, della cui fé non posso
dubitar senza colpa, a che m’avrebbe
taciuto il ver? No, Mitridate infido,
con le menzogne tue, della vendetta
non mi turbi il piacer. Cosí tornasse
Cambise ad avvertirmi
che Alceo spirò!
Arpago. (frettoloso)  Né qui lo veggo. Ah! dove,
dove mai si nasconde?
Mandane.   Arpago amato,
che cerchi?
Arpago.   Alceo. Se nol ritrovo, io perdo
d’ogni mia cura il frutto.
Mandane.   Altro non brami?
Non agitarti: io so dov’è.
Arpago.   Respiro,
lode agli dèi! Deh! me l’addita: è tempo
che al popolo si mostri. Altro non manca
che presentarlo.

Mandane.   O generoso amico,

veggo il tuo zel. Con pubblica vendetta
t’affanni a soddisfarmi: io ti son grata.
Ma giungi tardi: a vendicarmi io stessa
giá pensai.
arpago.   Contro chi?
Mandane.   Contro l’infame
uccisor del mio Ciro.
Arpago.   Intendi Alceo?
Mandane. Sí.
Arpago.   Guárdati, Mandane,
di non tentar nulla a suo danno: Alceo
è il figlio tuo.
Mandane.   Che!
Arpago.   Tel celai, temendo
che i materni trasporti il gran segreto
potessero tradir.
Mandane.   Come! Ed è vero...
Arpago. Non dubitar. Tu sai
se ingannarti poss’io. Ciro è in Alceo;
l’educò Mitridate; io gliel recai;
l’ucciso è un impostor. Serena il volto:
la tua doglia è finita.
Mandane. Santi numi del ciel, soccorso! aita! (vuol partire)
Arpago. Dove? Ascolta...
Mandane.   Ah! corriam... Son morta! Io sento
stringermi il cor. (si appoggia ad un tronco; poi siede)
Arpago.   Tu scolorisci in volto!
sudi! tremi! vacilli!
Mandane.   Arpago... Ah! vanne;
vola di Trivia al fonte; il figlio mio
salva, difendi: ei forse spira adesso.
Arpago. Come!
Mandane.   Ah! va’, ché l’uccide il padre istesso!
Arpago. Possenti numi! (parte in fretta)

SCENA III

Mandane sola.

  Oh me infelice! Oh troppo

verace Mitridate! Avessi, oh Dio,
creduto a’ detti tuoi! Potessi almeno
lusingarmi un momento! E come? Ah! troppo
sdegnato era Cambise;
troppo tempo è giá scorso, e troppo nero
è il tenor del mio fato. Ebbi il mio figlio,
stupida! innanzi agli occhi; udii da lui
chiamarmi madre; i violenti intesi
moti del sangue: e nol conobbi, e volli
ostinarmi a mio danno! Ancor lo sento
parlar; lo veggo ancor. Povero figlio!
non voleva lasciarmi: il suo destino
parea che prevedesse. Ed io, tiranna!...
ed io... Che orror! che crudeltá! Non posso
tollerar piú me stessa (s’alza). Il mondo, il cielo
sento che mi detesta; odo il consorte
che a rinfacciar mi viene
il parricidio suo; veggo di Ciro
l’ombra squallida e mesta,
che stillante di sangue... Ah! dove fuggo?
dove m’ascondo? Un precipizio, un ferro,
un fulmine dov’è? Mora, perisca
questa barbara madre; e non si trovi
chi le ceneri sue... Ma... come!... È dunque
perduta ogni speranza? E non potrebbe
giungere Arpago in tempo? Ah! sí, clementi
numi del ciel, pietosi numi, al figlio
perdonate i miei falli. È questo nome
forse la colpa sua; colpa ch’ei trasse
dalle viscere mie. No, voi non siete

tanto crudeli. Io la giustizia vostra,

dubitandone, offendo. È vivo il figlio:
corrasi ad abbracciarlo.... Ah, folle! Io vado
a perder questo ancora
languido di speranza ultimo raggio.
Andiam: chi sa... Ma quello,
che a me corre affannato,
non è Cambise? Aimè! son morta. È fatto
l’orrido colpo: ha nella destra ancora
nudo l’acciar... Chi mi soccorre? Ah! stilla
ancor del vivo sangue... Ah! fuggi... ah! parti...

SCENA IV

Cambise con ispada nuda nella destra
stillante di sangue, e detta.

Cambise. Vedi del mio furor...

Mandane.   Fuggi: quel sangue
togli al materno ciglio.
Cambise. Questo sangue che vedi...
Mandane. (svenendo)  Oh sangue!... oh... figlio!...
Cambise. Sposa! Mandane! Oh me perduto! Ascolta,
principessa, idol mio. Non ode. Ha chiuse
le languide pupille, e alterna appena
qualche lento respiro. Almen sapessi
come agli usati uffizi
quell’alma richiamar.

SCENA V

Cambise, Mandane e Ciro.

Ciro. (senza veder gli altri) Dove la madre,

dove mai troverò? Di Trivia al fonte
finor l’attesi, e mai non venne. (cercando per la scena)

Cambise.   All’onda

corriam del vicin rio. Ma sola intanto
qui lasciarla cosí... Se alcun vedessi...
Ah! sí. Pastor... senti. (vedendo Ciro)
Ciro. (rivolgendosi) Quai grida?
Cambise.   (Oh numi!
non è del figlio mio
l’omicida costui?)
Ciro.   (Stelle! non veggo
la madre mia colá?)
Cambise.   Chi sei?
Ciro.   Che avvenne?
Cambise. Non t’inoltrar: dimmi il tuo nome.
Ciro.   Eh! lascia.
Cambise. Di’: non ti chiami Alceo?
Ciro.   (Questo importuno
a gran pena sopporto.)
Sí, Alceo mi chiamo.
Cambise. (in atto di ferire)  Ah, traditor! sei morto.
Ciro. Come! Non appressarti, o ch’io t’immergo
questo dardo nel cor. (in atto di difesa)
Cambise.   Dal furor mio
né tutto il ciel potrá salvarti.
Mandane. (comincia a risentirsi)  Oh Dio!
Cambise. Ah! sposa, apri le luci, áprile, e vedi
per man del tuo Cambise
la bramata vendetta.
Ciro.   Odimi, oh dèi!
e Cambise tu sei?
Cambise.   Sí, scellerato!
son io: sappilo e mori. (in atto di ferire)
Ciro. (getta il dardo)  Ah! padre amato,
ferma; giá sono inerme; il colpo affrena:
riconoscimi prima, e poi mi svena.
Mandane. Perché ritorno in vita?
Cambise.   (Il so, m’inganna;
e pur m’intenerisce.)

Mandane.   Eterni dèi!

non è quegli il mio Ciro? Ove son mai?
fra l’ombre o fra’ viventi?
Cambise.   (Io dunque, oh folle!
credo a que’ detti infidi?)
No, cadi!... (in atto di ferire)
Mandane.   Ah, sposo! ah, che il tuo figlio uccidi! (s’alza)
Cambise. Uccido il figlio! (resta immobile)
Mandane. (abbracciandolo) Oh caro figlio! oh cara
parte dell’alma mia!
Cambise.   Stelle! o deliro,
o delira Mandane. E questi è Ciro?
Mandane. Sí. Chi mai lo difese
dal paterno furor? qual sangue mai
il tuo ferro macchiò? Di Trivia al fonte
tu l’attendevi pur.
Cambise.   No, non vi giunsi;
ché, partendo da te, per via m’avvenni
ne’ reali custodi. Essi di nuovo
mi volean prigionier: di loro alcuni
io trafissi, e fuggii. Perciò con questo
ferro tinto di sangue...
Mandane.   Intendo il resto.

SCENA VI

Astiage in disparte con séguito, e detti.

Astiage. (Qui Cambise, e disciolto!)

Cambise. Ma Ciro non morí? (a Mandane)
Mandane.   No.
Astiage.   (Ciel, che ascolto!)
Mandane. N’ebber cura gli dèi.
Cambise.   Spiègati, o sposa.
Mandane. Odi.

Astiage.   (Sentiam.)

Mandane.   Quel finto
Ciro che cadde estinto...
Ciro.   Il re s’appressa.
Cambise. Ecco un nuovo periglio.
Mandane.   Ecco le nostre
contentezze impedite.
Astiage. Seguite pur, seguite; io non disturbo
le gioie altrui: ma che ne venga a parte
parmi ragion. Via! chi di voi mi dice
dell’istoria felice
l’ordin qual sia? Chi liberò costui?
  (accennando Cambise)
chi Ciro conservò? dove s’asconde?
Ciro. (Aimè!)
Astiage.   Nessun risponde? Anche la figlia
m’invidia un tal contento! Olá! s’annodi
ad un tronco Cambise...
Mandane. Ah! no.
Astiage.   Lode agli dèi,
a parlar cominciasti.

SCENA VII

Arpago in disparte e detti.

Arpago.   (Ecco il tiranno:

per trarlo al tempio il cerco appunto.)
Astiage. (a Mandane)  Or dimmi:
qual è Ciro, e dov’è? Nulla tacermi,
o sotto agli occhi tuoi, segno a piú strali,
cadrá Cambise...
Arpago.   (Ei sa che Ciro è in vita
dunque, ma non ch’è Alceo.)
Mandane.   Barbare stelle!

Cambise. Empio destino!

Ciro.   (E tacito in disparte
sto del padre al periglio!)
Arpago.   (Arpago, all’arte!)
Astiage. Né parli ancor? Dunque il tuo sposo estinto
brami veder? T’appagherò. Custodi!...
Mandane. Ferma!...
Ciro.   Senti!...
Mandane.   Io giá parlo.
Ciro.   Il falso Ciro...
Mandane. Il mio Ciro smarrito...
Arpago. Astiage, ah! sei tradito. Ah! corri: opprimi
il tumulto ribelle,
che si destò. La tua presenza è il solo
necessario riparo.
Astiage.   Aimè! che avvenne?
Arpago. Confusamente il so. S’affretta a gara
verso il tempio ciascun. Colá si dice
che Ciro sia. Tutti a vederlo, tutti
vanno a giurargli fede; e il volgo insano
grida a voce sonora:
— Ciro è il re, Ciro viva; Astiage mora! —
Astiage. Ah! traditori, ecco il segreto: entrambi
con questo acciar...
(in atto di snudar la spada, minacciando Cambise e Mandane)
Arpago.   Mio re, che fai? Se Ciro
è ver che viva, in tuo poter conserva
la madre e il genitor: con questi pegni,
lo faremo tremar.
Astiage. (dopo aver pensato) Sí; custodite
dunque la coppia rea, sol perché sia
la mia difesa o la vendetta mia.
          Perfidi! non godete
     se altrove il passo affretto:
     a trapassarvi il petto,
     perfidi! tornerò.

          Cadrò, se vuole il fato,

     cadrò, trafitto il seno;
     ma invendicato almeno,
     ma solo non cadrò. (parte)

SCENA VIII

Ciro, Mandane, Cambise, Arpago e guardie.

Arpago. Partí: l’empio è nel laccio. Ei corre al tempio,

e lá trarlo io volea. Guerrieri amici,
finger piú non bisogna; andiam! Qui resti
Ciro intanto e Mandane. E tu, Cambise,
sollecito mi siegui. (vuol partire)
Cambise.   Odi. E in Alceo
com’esser può che Ciro...
Arpago. (con impazienza)  Oh Dio! ti basti
saper che è il figlio tuo. Tutto il successo
ti spiegherò; ma non è tempo adesso. (parte)

SCENA IX

Ciro, Mandane e Cambise.

Cambise. Addio! (a Mandane e a Ciro)

Ciro.   Padre!
Mandane.   Consorte!
Ciro.   E ci abbandoni
cosí con un addio?
Cambise.   Nulla vi dico,
perché troppo direi; né questo è il loco.
So ben tacer, ma non saprei dir poco.

          Dammi, o sposa, un solo amplesso;

     dammi, o figlio, un bacio solo.
     Ah! non piú: da voi m’involo;
     ah! lasciatemi partir.
          Sento giá che son men forte;
     sento giá fra’ dolci affetti
     e di padre e di consorte
     tutta l’alma intenerir. (parte)

SCENA X

Mandane e Ciro.

Mandane. Ciro, attendimi: io temo

qualche nuova sventura; il mio consorte
voglio seguir. Te d’Arpago l’avviso
ritrovi in questo loco.
Ciro.   Or che paventi?
Mandane. Figlio mio, nol so dir: tremo, per uso
avvezzata a tremar. Sempre vicino
qualche insulto mi par del mio destino.
          Benché l’augel s’asconda
     dal serpe insidiator,
     trema fra l’ombre ancor
     del nido amico;
          ché il muover d’ogni fronda,
     d’ogni aura il susurrar
     il sibilo gli par
     del suo nemico. (parte)

SCENA XI

Ciro e poi Arpalice.

Ciro. Ah! tramonti una volta

questo torbido giorno, e sia piú chiaro
l’altro almen che verrá.
Arpalice.   Mio caro Alceo,
tu salvo! Oh me felice! Ah! vieni a parte
de’ pubblici contenti. Il nostro Ciro
vive; si ritrovò. Quel, che uccidesti,
era un vile impostor.
Ciro.   Sí? donde il sai?
Arpalice. Certo il fatto esser dee: queste campagne
non risuonan che Ciro. Oh, se vedessi
in quai teneri eccessi
d’insolito piacer prorompe ogni alma!
Chi batte palma a palma,
chi sparge fior, chi se ne adorna, i numi
chi ringrazia piangendo. Altri il compagno
corre a sveller dall’opra; altri l’amico
va dal sonno a destar. Riman l’aratro
qui nel solco imperfetto; ivi l’armento
resta senza pastor. Le madri ascolti,
di gioia insane, a’ pargoletti ignari
narrar di Ciro i casi. I tardi vecchi
vedi, ad onta degli anni,
se stessi invigorir. Sino i fanciulli,
i fanciulli innocenti,
non san perché, ma, sul comune esempio,
van festivi esclamando: — Al tempio! al tempio!
Ciro. E tu Ciro vedesti?
Arpalice.   Ancor nol vidi.
Corriam...

Ciro.   Ferma! Il vedrai

pria d’ognun, tel prometto.
Arpalice.   E Ciro...
Ciro.   Ah, ingrata!
tu non pensi che a Ciro: il tuo pastore
giá del tutto obbliasti. E pur sperai...
Arpalice. Non tormentarmi, Alceo. Se tu sapessi
come sta questo cor...
Ciro.   Siegui.
Arpalice.   Né vuoi
lasciarmi in pace?
Ciro.   Ah! tu non m’ami.
Arpalice.   Almeno
veggo che non dovrei: ma...
Ciro.   Che?
Arpalice.   Ma parmi
debil ritegno il naturale orgoglio.
Parlar di te non voglio, e fra le labbra
ho sempre il nome tuo; vuo’ dal pensiero
cancellar quel sembiante, e in ogni oggetto
col pensier lo dipingo. Agghiaccio in seno,
se in periglio ti miro; avvampo in volto,
se nominar ti sento. Ove non sei,
tutto m’annoia e mi rincresce; e tutto
quel, che un tempo bramavo, or piú non bramo.
Dimmi: tu che ne credi? amo o non amo?
Ciro. Sí, mio ben; sí, mia speme...

SCENA XII

Mitridate con guardie, e detti.

Mitridate.   Al tempio! al tempio!

mio principe, mio re. Questi guerrieri
Arpago invia per tua custodia. Ah! vieni
a consolar le impazienze altrui.

Arpalice. (Con chi parla costui?)

Ciro.   Dunque è palese
di giá la sorte mia?
Mitridate.   Nessuno ignora,
signor, che tu sei Ciro. Arpago il disse:
indubitate prove
a’ popoli ne die’; sparger le fece
per cento bocche in mille luoghi; e tutti
voglion giurarti fé.
Arpalice.   Scherza o da senno
Mitridate parlò?
Ciro.   Ciro son io.
Non bramasti vederlo? eccolo.
Arpalice.   Oh Dio!
Ciro. Sospiri! Io non ti piaccio
pastor, né re?
Arpalice.   Né tanto umil, né tanto
sublime io ti volea: ch’arda al mio foco
se troppo è per Alceo, per Ciro è poco.
Ciro. Mal mi conosci. Arpalice finora
me amò, non la mia sorte; ed io non amo
la sua sorte, ma lei. La vita e il trono
Arpago diemmi; e, se ad offrirti entrambi
il genio mi consiglia,
quei, che il padre mi die’, rendo alla figlia.
Oh, che dolce esser grato, ove s’accordi
il debito e l’amore,
la ragione, il desio, la mente e il core!
Arpalice. Dunque...
Mitridate.   Ah! Ciro, t’affretta.
Ciro.   Andiam. Mia vita,
mia sposa, addio.
Arpalice.   Deh! non ti cambi il regno.
Ciro. Ecco la destra mia: prendila in pegno.
          No, non vedrete mai
     cambiar gli affetti miei,

     bei lumi, onde imparai

     a sospirar d’amor.
          Quel cor, che vi donai,
     piú chieder non potrei;
     né chieder lo vorrei,
     se lo potessi ancor. (parte)

SCENA XIII

Arpalice sola.

Io son fuor di me stessa. A un vil pastore,

cieca d’amor, mi scuopro amante; e sposa
mi ritrovo d’un re! Gl’istessi affetti
insuperbir mi fanno, onde poc’anzi
arrossirmi dovea! Certo quest’alma
era presaga, e travedea nel volto
del finto Alceo... Che traveder? che giova
cercar pretesti all’imprudenza? Ad altri
favelliamo cosí; ma piú sinceri
ragioniamo fra noi. Diciam piú tosto
che d’amor non s’intende
chi prudenza ed amore unir pretende.
          Chi a ritrovare aspira
     prudenza in core amante,
     domandi a chi delira
     quel senno che perdé.
          Chi riscaldar si sente
     a’ rai d’un bel sembiante,
     o piú non è prudente,
     o amante ancor non è. (parte)

SCENA ULTIMA

Aspetto esteriore di magnifico tempio dedicato a Diana, fabbricato sull’eminenza d’un colle.

Astiage con la spada alla mano, poi Cambise, indi Arpago,
ciascuno con séguito; alfine tutti, l’un dopo l’altro.

Coro.   Le tue selve in abbandono

          lascia, o Ciro, e vieni al trono;
          vieni al trono, o nostro amor.
Astiage. Ah, rubelli! ah, spergiuri! ov’è la fede
dovuta al vostro re? Nessun m’ascolta?
m’abbandona ciascun? No, non saranno
tutti altrove sí rei. (vuol partire)
Cambise. (arrestandolo)  Ferma, tiranno!
Astiage. Ah, traditor! (in atto di difesa)
Cambise. (al suo sèguito) Voi custodite il passo;
e tu ragion mi rendi... (ad Astiage)
Astiage. Arpago, ah! vieni; il tuo signor difendi.
Arpago. Circondatelo, amici. (dall’altro lato con seguaci)
  Alfin pur sei,
empio! ne’ lacci miei.
Astiage.   Tu ancora!
Arpago.   Io solo,
barbaro! io sol t’uccido: a questo passo,
sappilo, io ti riduco.
Astiage.   E tanta fede?
e tanto zelo?
Arpago.   A chi svenasti un figlio
non dovevi fidarti. I torti obblia
l’offensor, non l’offeso.
Astiage.   Ah, indegno!
Arpago.   È questa
la pena tua.
Cambise.   La mia vendetta è questa.

Arpago. Cadi! (in atto di ferire)

Cambise.   Mori, crudel! (come sopra)
Ciro.   Ferma! (trattenendo Arpago)
Mandane. (trattenendo Cambise)  T’arresta.
Arpalice. (Che avvenne?)
Mitridate.   (Che sará?)
Mandane.   Rifletti, o sposo...
Ciro. Arpago, pensa...
Cambise. (a Mandane)  È un barbaro.
Mandane.   È mio padre.
Arpago. È un tiranno. (a Ciro)
Ciro.   È il tuo re.
Cambise.   Punirlo io voglio.
Arpago. Vendicarmi desio.
Mandane. Non fia ver.
Ciro.   Non sperarlo.
Astiage.   Ove son io!
Arpago. Popoli, ardir! L’esempio mio seguite;
si opprima l’oppressor.
Ciro.   Popoli, udite!
Qual impeto ribelle,
qual furor vi trasporta? Ove s’intese
che divenga il vassallo
giudice del suo re? Giudizio indegno,
in cui molto del reo
il giudice è peggiore. Odiate in lui
un parricidio, e l’imitate. Ei forse
tentollo sol; voi l’eseguite. Un dritto,
che avea sul sangue mio,
forse Astiage abusò; voi, quel che han solo
gli dèi sopra i regnanti,
pretendete usurpar. M’offrite un trono,
calpestandone prima
la maestá. Questo è l’amor? son questi
gli auspizi del mio regno? Ah! ritornate,
ritornate innocenti. A terra, a terra

l’armi sediziose. Io vi prometto

placato il vostro re. Foste sedotti,
lo so; vi spiace; a mille segni espressi
giá intendo il vostro cor; giá in ogni destra
veggo l’aste tremar; leggo il sincero
pentimento del fallo in ogni fronte.
Perdonalo, signor. (ad Astiage) Per bocca mia,
piangendo ognun tel chiede: ognun ti giura
eterna fé. Se a cancellar l’orrore
d’attentato sí rio
v’è bisogno di sangue, eccoti il mio.
  (inginocchiandosi)
Astiage. Oh prodigio!
Mandane.   Oh stupore!
Arpago. Oh virtú che disarma il mio furore!
  (Arpago getta la spada, e tutti i congiurati le armi)
Astiage. Figlio, mio caro figlio,
sorgi, vieni al mio sen. Cosí punisci,
generoso! i tuoi torti e l’odio mio?
Ed io, misero! ed io
d’un’anima sí grande
tentai fraudar la terra? Ah! vegga il mondo
il mio rimorso almeno. Eccovi in Ciro,
medi, il re vostro. A lui
cedo il serto real: rendigli, o figlio,
lo splendor ch’io gli tolsi. I miei deliri
non imitar. Quel, che fec’io, t’insegna
quel che far non dovrai. De’ numi amici
al favor corrispondi,
e il mio rossor nelle tue glorie ascondi.
Coro.   Le tue selve in abbandono
     lascia, o Ciro, e vieni al trono;
     vieni al trono, o nostro amor.
          Cambia in soglio il rozzo ovile,
     in real la verga umíle;
     darai legge — ad altro gregge;
     anche re, sarai pastor.

LICENZA

Della Mente immortal provvida cura

è il natal degli eroi. Prendono il nome
i secoli da questi. Ognun di loro
un tratto ne rischiara; e veggon poi,
al favor di quel lume,
i posteri remoti
gli altri eventi confusi e i casi ignoti.
Tal, fra gli astri, i piú chiari
segna l’occhio sagace; e poi, fidato
alla scorta sicura,
gli ampi spazi del ciel scorre e misura.
Superbe etá passate,
i vostri or non vantate
natali illustri: ha piú ragion la nostra
d’insuperbir, se i pregi suoi ravvisa:
l’astro, che lei rischiara, è quel d’Elisa.
          Astro felice, ah! splendi
     sempre benigno a noi:
     rendan gl’influssi tuoi
     lieta la terra e il mar.
          Mai di sí bella stella
     nube non copra i rai;
     mai non s’ecclissi, e mai
     non giunga a tramontar.



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