< Clizia
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Prologo
Canzona iniziale Atto primo


Se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni, che noi non ci trovassimo un’altra volta insieme a fare le medesime cose che ora. Questo si dice, perché già in Atene, nobile ed antichissima città in Grecia, fu un gentile uomo, al quale, non avendo altri figliuoli che uno maschio, capitò a sorte una picciola fanciulla in casa, la quale da lui infino alla età di diciassette anni fu onestissimamente allevata. Occorse dipoi che in uno tratto egli ed il figliuolo se ne innamororno: nella concorrenzia del quale amore assai casi e strani accidenti nacquono; i quali trapassati, il figliuolo la prese per donna, e con quella gran tempo felicissimamente visse.

Che direte voi, che questo medesimo caso, pochi anni sono, seguì ancora in Firenze? E, volendo questo nostro autore l’uno delli dua rappresentarvi, ha eletto el fiorentino, iudicando che voi siate per prendere maggiore piacere di questo che di quello: perché Atene è rovinata, le vie, le piazze, i luoghi non vi si ricognoscono; dipoi, quelli cittadini parlavano in greco, e voi quella lingua non intenderesti. Prendete, pertanto, el caso seguito in Firenze, e non aspettate di riconoscere o il casato o gli uomini, perché lo autore, per fuggire carico, ha convertiti i nomi veri in nomi fitti. Vuol bene, avanti che la comedia cominci, voi veggiate le persone, acciò che meglio, nel recitarla, le cognosciate. Uscite qua fuora tutti, che ’l popolo vi vegga. Eccogli. Vedete come e’ ne vengono suavi? Ponetevi costì in fila, l’uno propinquo all’altro. Voi vedete. Quel primo è Nicomaco, un vecchio tutto pieno d’amore. Quello che gli è allato è Cleandro, suo figliuolo e suo rivale. L’altro si chiama Palamede, amico a Cleandro. Quelli dua che seguono, l’uno è Pirro servo, l’altro Eustachio fattore, de’ quali ciascuno vorrebbe essere marito della dama del suo padrone. Quella donna, che vien poi, è Sofronia, moglie di Nicomaco. Quella appresso è Doria, sua servente. Di quegli ultimi duoi che restano, l’uno è Damone, l’altra è Sostrata, sua donna. Ècci un’altra persona, la quale, per avere a venire ancora da Napoli, non vi si mosterrà. Io credo che basti, e che voi gli abbiate veduti assai. Il popolo vi licenzia: tornate dentro.

Questa favola si chiama «Clizia» perché così ha nome la fanciulla, che si combatte. Non aspettate di vederla, perché Sofronia, che l’ha allevata, non vuole per onestà che la venga fuora. Pertanto, se ci fussi alcuno che la vagheggiassi, arà pazienza. E’ mi resta a dirvi, come lo autore di questa commedia è uomo molto costumato, e saprebbegli male, se vi paressi, nel vederla recitare, che ci fussi qualche disonestà. Egli non crede che la ci sia; pure, quando e’ paressi a voi, si escusa in questo modo. Sono trovate le commedie, per giovare e per dilettare alli spettatori. Giova veramente assai a qualunque uomo, e massimamente a’ giovanetti, cognoscere la avarizia d’uno vecchio, il furore d’uno innamorato, l’inganni d’uno servo, la gola d’uno parassito, la miseria d’uno povero, l’ambizione d’uno ricco, le lusinghe d’una meretrice, la poca fede di tutti gli uomini. De’ quali essempli le commedie sono piene, e possonsi tutte queste cose con onestà grandissima rappresentare. Ma, volendo dilettare, è necessario muovere gli spettatori a riso: il che non si può fare mantenendo il parlare grave e severo, perché le parole, che fanno ridere, sono o sciocche, o iniuriose, o amorose; è necessario, pertanto, rappresentare persone sciocche, malediche, o innamorate: e perciò quelle commedie, che sono piene di queste tre qualità di parole, sono piene di risa; quelle che ne mancano, non truovano chi con il ridere le accompagni.

Volendo, adunque, questo nostro autore dilettare, e fare in qualche parte gli spettatori ridere, non inducendo in questa sua commedia persone sciocche, ed essendosi rimasto di dire male, è stato necessitato ricorrere alle persone innamorate ed alli accidenti, che nello amore nascano. Dove se fia alcuna cosa non onesta, sarà in modo detta che queste donne potranno sanza arrossire ascoltarla. Siate contenti, adunque, prestarci gli orecchi benigni: e, se voi ci satisfarete ascoltando, noi ci sforzeremo, recitando, di satisfare a voi.

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