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I.
Già troppo si è detto che le ferrovie hanno spogliato i viaggi d’ogni loro bellezza, e sarebbe tempo oramai di confessare che n’hanno tolto in quella vece di mezzo la stucchevole uniformità.
Dite, di grazia: il carrozzone inzaccherato tutto odore di morchia, di cuoio e di grasso stantìo: la solita fermata all’insegna del Cannon d’Oro, o dei Tre Re; il brodo rifreddo colle sue scandelle a fior d’acqua; la gallina riscaldata, scompaginata e nerastra nel piatto; le mosche a sciami sulla tovaglia, più immonde, più fameliche e più fastidiose che non fossero le arpie ai compagni d’Ulisse; i briganti travestiti in cento guise, perfino (oh colmo d’audacia!) da padroni d’albergo; i paesi tutti che si succedono e si rassomigliano; la stessa via polverosa, fangosa e scabrosa; qua e là le stesse salite a picco e le stesse discese a fiaccacollo; le scosse, i traballamenti e i sobbalzi ad ogni giro di ruota; era questa la poesia del viaggio?
E per contro, i paesi che vi sfilano in bella ordinanza sott’occhi, non lasciandovi che una immagine grata, o fuggevole, di sè; le valli sfondate ad occhi veggenti, senza mestieri di misurarle romanamente a passi, nè di averne a noverare i segnavia con altrettanti paternostri della bertuccia; la maestosa ripidezza dei monti che v’invitano nel loro grembo a pigliare una boccata di fresco; la vicinanza della stazione, con ogni cosa che possa tornarvi bisognevole: il volare in cambio di andare e il farla da uccelli senza la fatica del lungo remeggio; infine, la varietà continua dei luoghi, dei visi e delle parlature; è questa forse la prosa?
Per me, il viaggio in carrozza m’ha sempre avuto l’aria d’un uscire di civiltà per affondarsi nella barbarie, laddove il viaggiare in ferrovia mi sembra il passar di continuo da un centro di civiltà ad un altro, e su terreno comune ad ambidue, prolungato da luogo a luogo per tenui ma sicure fila, le quali ogni giorno s’addoppiano, si moltiplicano e s’intrecciano in cosiffatta guisa, che un seicentista redivivo le chiamerebbe una rete di ferro da pigliarci dentro il gran mostro della barbarie, per mandarla finalmente al Museo.
Cotesto è un dirvi chiaro abbastanza che io amo i viaggi in ferrovia, segnatamente se lunghi. In questi, egli c’è da contentare in pari tempo i due gusti, del vedere e del pensare, i quali non sono altro, alla fin fine, che il guardar fuori e dentro di sè. Gli occhi si pascono di veduta, senza turbare, anzi aiutando il pensiero, dandogli e mutandogli dolcemente indirizzo, come il venticello fa colle piume. Di questa guisa si fa molto cammino nelle regioni dell’ignoto; si fantastica bene come nel proprio letto; anzi meglio, imperocchè, mentre la persona riposa, i nervi son tesi, e l’arma se ne sta’n subtilitate, come lasciò scritto messer Ciullo d’Alcamo nella sua famosa ballata.
Si aggiunga che nei lunghi viaggi si può avere la fortuna di rimaner soli in un compartimento di prima classe: s’intende, quando non ci siano di conserva deputati; chè altrimenti si risica di andare appaiati, rinterzati, inquartati, da Torino a Venezia, e da Brindisi a Susa. Ma per cosiffatte molestie io ci ho un segreto famoso. Il deputato si conosce sempre da quella certa medaglia, e quella lì non c’è pericolo di non vederla; pende, si dondola beatamente sul panciotto, e par che dica agli astanti: guardate, ecco il senno e la salvezza della nazione in viaggio. Voi, dunque, se avete occhi, vedete il fatto vostro, e, fiutato il nemico, potete mettervi sulle difese. Entra egli in un carrozzone? E voi difilato in un altro. La cosa non è difficile; pei viaggiatori di prima, i guardiani son serviziati, che nulla più.
Così felice, perchè solo, e libero di fantasticare a mia posta, viaggiavo da Napoli a Verona, nell’agosto del 1872. Avevo fatto una lunga fermata in braccio alla sirena Partenope, bellissima donna che l’Itacense ebbe il torto di non pregiare abbastanza. Se non la conoscete, andateci; la troverete sempre in attesa di forestieri sulla piazza della stazione, e dà le spalle a chi arriva, per far buon viso a chi parte e invitarlo a tornare. Io, con quella metafora del lungo amplesso, ho voluto dire che avevo visitato e rivisitato Pompei, non senza dare una sbirciata ad Ercolano; portato una carta di visita al Vesuvio e parecchie da una lira al Museo nazionale; pranzato molto allo scoglio di Frisio e scarrozzato altrettanto da Chiaia a Posilipo; passeggiato colla serenità d’un martire nell’anfiteatro di Pozzuoli, e fatto traballare il terreno alla Solfatara; consultata la Sibilla nell’antro di Cuma e ricusato lo spettacolo d’una asfissia nella grotta del Cane; desiderata una dozzina d’ostriche del lago Lucrino e una strada da cristiani fino alla tomba di Virgilio; risicato di non uscir più dalla grotta Azzurra e presa vendetta allegra delle infamie di Tiberio con parecchie sorsate del suo vino di Capri; veleggiato a Sorrento colle aure natali di Torquato Tasso; nuotato a Baia nelle acque d’Agrippina; e sempre solo, solo, solo, che non vo’ mettere in conto di compagnia quella macchinetta da spropositi, chiamata Cicerone presso la ingrata posterità del grande oratore romano.
Solo! ah, se ci avessi avuto...! Imperocchè, voi mi capite, in quel mondo di bellezze antiche e moderne, tra quella gara di meraviglie della natura e dell’arte, in quella regione incantata, dove la vita è così bella perchè anzitutto così facile a vivere, io non potevo desiderare che Lei.
Chi, Lei? Si capisce, Lei. Non v’è egli mai avvenuto di amare e di desiderar Lei, senza pure conoscerla? Lei era la fede, la speranza e l’amore, il compendio di tutte le virtù teologali e cardinali della vostra adolescenza, il nume ignoto, ma ardentemente invocato, a cui promettevate il meglio dell’anima vostra, i più bei fiori spiccati dall’albero della vita, innanzi che questo mettesse frutti d’amara scienza per voi. Ed anche dopo di avere amato qua e là, quando le più liete impromesse dell’esistenza vi andavano deluse, i più cari inganni vi erano spersi dal tristissimo vero e neppure avevate un cuore su cui riposare il vostro, a cui dare il tributo di un affetto tanto più forte in quanto che si ravvisa esser l’unico bene rimasto ai mortali, allora, ditemi, non vi accadde allora di pensare nuovamente a Lei, di richiamare la visione smarrita, o male incarnata in tante creature fragili e vane? Lei era l’immagine foggiata secondo i desiderii del cuore; Lei era l’arcana visitatrice, feconda di tante dolcezze al genio solitario, il femminile eterno che sorrise agli ultimi momenti di Fausto, l’idea che inspirò tante mirabili forme di bellezza sovrumana al pennello del Sanzio. Imperocchè, ricordatelo, la Fornarina lo ha spento: ma lei, quella idea sua, tutta sua, lo ha reso immortale.
Qui, lasciando da parte i superbi raffronti, sarebbe il caso di dire qual forma di donna risponda per me al concetto racchiuso in quel modesto prenome. Ma io non darò il mio segreto in balìa delle turbe; mi contenterò di raccontarvi che desideravo Lei, e che avevo sete d’amore; quella sete così forte a vent’anni, più forte a venticinque, fortissima a trenta, o giù di lì. A vent’anni, nell’amore si cerca l’illusione; a venticinque, il piacere; a trenta, l’oblìo. L’oblìo (chi nol sa?) consta d’un terzo d’illusione, poichè gli altri due sono svaniti, e di due terzi di piacere, poichè un terzo, se n’è andato insieme col vigore e la baldanza della gioventù. Triste chiusa al poema!
E con questa donna sognata viaggiava il vostro umilissimo servo; felice perchè ella era sua ed egli la possedeva per diritto.... d’autore; più felice di Pigmalione, perchè nel darle vita e’ non aveva paura, come quell’altro, di romperla. Alle corte, non mi pigliate per matto. Ero chiuso in me stesso come una tellina nel guscio; vivevo colla mia creazione; vedevo che era buona e godevo di non aver profani daccanto, a guastarmi quella pacifica ebbrezza. La gioia è un piacere egoistico, forse perchè ce n’è poca sulla terra, e, quando se n’ha, non si ama spartire.
Avanti, dunque! Tornavo a casa mia, a Verona, come mi pare di avervi già detto, dove (e questo non ho detto ancora) m’aspettava mio padre. Io amo mio padre, quest’uomo che per me ha vissuto, amato e tremato, e che io potrei dire nato a bella posta per me. Questo spirito avido di sapere, curioso di arcane sensazioni, voglioso d’ogni cosa difficile, è suo. La florida salute, che mi consente di vivere senza maledire, e di pigliarmi con sicura baldanza la mia parte di sole, è suo dono. La onesta ricchezza, che mi dà di seguire il mio talento in ogni cosa, egli, egli solo, l’ha accumulata per me. E di questo io gli son grato due volte. Quando posso spendere un po’ di tempo nello studio di una piacevole novità, vedere, che è quanto studiare, muovermi da un luogo, che è quanto attutire i tormenti, se non per avventura, dissipare i dolori incontrati colà, dico entro me stesso: è mio padre; quando posso far cortesia a chi l’aspetta da me e sentire la nobile voluttà di esser utile altrui, è mio padre, sempre mio padre! Una santa donna mi ha data la tenerezza del cuore e tutte le miti virtù che ci fanno spesso il trastullo degli altri; egli la forza in tutte le sue forme, di salute e di ricchezza, di onori, di potenza e di fama, che ci fanno temere dai più, talvolta anche amare da qualcuno. Gratitudine immensa a mio padre! I figli, per solito, non amano e non ricordano che le madri, le santissime madri. Dei poveri babbi sprecano in pochi anni l’eredità; ed è questo l’unico tributo che pagano alla loro preziosa memoria.