< Come un sogno
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III V

IV.

Nel colmo della notte la mia compagna di viaggio si destò, o parve destarsi, chè invero non potrei giurare che avesse preso sonno.

— Non dorme? — mi chiese ella, vedendomi a capo ritto.

— No, penso; — risposi.

— Che ore sono?

— Le due, signora.

— Dove siamo?

— Abbiamo passata di poco la stazione di Francavilla. Ma veda di riposare, signora mia. Non avremo giorno che al passaggio del Tronto.

— Ho dormito abbastanza; — rispose. — Discorriamo, invece, se Ella non può pigliar sonno. Ma fumi, La prego.

— Non sarà mai, perchè il fumo del sigaro le dispiace.

— Oh bella! chi gliel ha detto?

— Me lo lascia dire?

— Non si trattenga.

— Ma.... senza adirarsi?

— Che novità è questa? e perchè dovrei adirarmi?

— Insomma, signora mia, corro il rischio. Me lo ha detto.... la sua bellezza. —

A questa notizia, messa fuori col piglio grave di chi svela un segreto, ella diede in uno scoppio di risa.

— Bella, io? e chi le ha detto quest’altra?

— Un senso arcano, signora; anzi meglio, il mio angelo custode.

— Ah! — esclamò ella, tra ammirata ed incredula. — Ed ha avuto la fortuna di conservarselo?

— La fortuna, signora, ed il merito; — risposi io, inchinandomi.

— Bisognerà dunque tenersi in buona con Lei, che vuol diventare un gran santo; — replicò ella, proseguendo la celia. — Dunque la è detta; son bella?

— Bellissima; e metto pegno che all’alba....

— Oh, non ci conti, per amor del cielo; io sarò brutta da far paura.

— Ella ne parla troppo liberamente; — notai. — In simili casi, le brutte non fiatano.

— È vero; — diss’ella convinta. — Ma voglia dirmi un po’ Lei perchè le belle debbono sentir male il fumo del sigaro.

— Volentieri. Perchè la bellezza chiama l’amore e l’amore disdegna questa sorte di incensi. Perdoni, sa; non dico queste cose per galanteria; le dico perchè son vere; se Ella mi giurasse che il fumo del tabacco le aggrada, tant’è, non lo crederei, come non crederei ch’Ella credesse....

— Ma insomma, con tanto scialo di credere....

— Non ci badi, signora; li piglio.... a credito. E poichè ho cominciato, finisco. Come non crederei ch’Ella credesse mai di piacere ad alcuno, con un cannello di pipa, foss’anco di gelsomino, tra le sue labbra di rosa.

— Che orrore! — esclamò ella, raccapricciando. — Sì, è vero, non posso patire il fumo del sigaro. Ma vorrei almeno che Ella, tanto cortese con me, si contentasse in questa sua abitudine.

— Contentarmi in tal guisa? Oibò! E dove lascia lei la contentezza dì vegliare su d’una gentil creatura che non si conosce, che domani, anzi tra due ore, non si vedrà più, ma che porterà seco il ricordo di un uomo cortese? Ella sa che non amo gli uomini; ma pur troppo appartengo alla specie, e, così stando le cose, voglio acquistar loro un po’ di buon nome. Or dunque, La prego; dorma e non si dia pensiero delle mie privazioni. —

Ella non rispose subito alle mie parole, ed io m’avvidi da ciò, che mulinava qualcosa in quella sua testolina. Avevo da fare con una signora di spirito, brutta o bella, vecchia o giovane, non importa, ma colta pur sempre ed arguta; che avendo alla bella prima pesato l’uomo con cui s’era trovata lì per lì in una condizione arrischiata, non voleva aggravarla con sciocche paure e con più sciocche ipocrisie; che anzi, veduta la mia temperanza, voleva mostrarmi la sua piena fiducia, e, da quella figlia d’Eva che era, divertirsi anche un tratto alle mie povere spalle.

Avevo avuto ragione ad aspettarmi qualche novità. Poco stante, la mia compagna di viaggio mi uscì in questa replica:

— E quale ricordo porterebbe Ella di me? Di una donna che dormiva; e cotesto non le farà piacere.

— Chi gliel ha detto? — gridai, ripetendo una sua interrogazione.

— Un sesto senso, il femminile; — rispose Ella ridendo. — Gli uomini son tutti così. Anche quando non amano, e con chi non amano, ci tengono molto a non essere trascurati.

— Uhm! — balbettai. — C’è del vero, in questa sentenza.... femminile. Ma io, anco se Ella tornasse a dormire, sarei certo di non esserle antipatico. Ho potuto tenerle fida e sicura compagnia, come un fratello.... come un vecchio amico....

— Ah! — gridò Ella, rincalzando i miei vanti modesti. — E corre oggi un pericolo per me.... senza conoscermi....

— Signora, la prego.... Ricordi ciò che Le ho detto a questo proposito; avrei fatto per ogni altra il medesimo. Del resto io conosco Lei quanto basta a farmi contento di ogni cosa che mi prepari il destino. So che è bella e di animo cortese; i suoi modi, la sua conversazione, mi dimostrano ch’Ella è una gentildonna; non domando di più.

— Non è curioso! — diss’ella.

— No, — soggiunsi, — nol sono. Potrei essere curioso di leggere nel suo cuore; non già di vedere i suoi passaporti.

— Ah, bene! — notò argutamente la mia sconosciuta. — Ella mette da banda il meno, per attenersi al più.

— Così è, mia bella signora. Ma Ella sappia per contro che questo benedetto di più io non lo dimanderò mai, per non parerle indiscreto, nella difficile condizione in cui siamo. E dopo tutto, a qual pro? Ella se ne va lungi, troppo lungi da me, ad una famiglia, a consuetudini, fors’anco ad affetti che l’attendono, insomma, ad un piccolo mondo nel quale io sarei proprio un intruso. E perchè una volta mi sono imbattuto in Lei ed ho potuto renderle un lieve servizio, dovrei di punto in bianco ficcarmi in quel piccolo mondo geniale che Ella di certo ha saputo foggiarsi, e che probabilmente le sarà costato tanti pensieri e fatiche? No, signora: se lo tentassi, sarei un guastafeste per gli altri, uno sciocco a’ miei occhi medesimi.

— Come è vero ciò ch’Ella dice! — esclamò la viaggiatrice, con accento di convinzione profonda. — Siamo gli schiavi del nostro piccolo mondo e non ci è dato di uscirne senza strappi dolorosi. Tutto quanto meritiamo di ossequio, o guadagniamo di affetto fuori la cerchia delle nostre attinenze, ci frutta invidie e sospetti, talvolta anche ignominia, presso i nostri uguali e padroni. Sì, davvero; noi siamo sempre gli schiavi di qualcheduno, e comunque si viva, ci comanda l’ambiente.

— Giustissimo; — incalzai. — Si ricordi, signora, del povero Gulliver, che, addormentatosi un giorno nell’isola di Lilliputti, si svegliò legato così saldamente a terra da innumerevoli fili di seta, che non ebbe più modo di voltarsi sul fianco. Ricordi altresì quei poveri capi di repubbliche antiche, ai quali era vietato di uscire dal palazzo, ove erano circondati di potenza e di gloria. Avevano lavorato con mani e piedi, pur di giungere a quella invidiata grandezza; dimenticato passatempi di gioventù, rinunziato anzi tempo agli amori, sacrificata la libertà a quella eccelsa ambizione dell’uomo di Stato. Eppure, seduti finalmente su quella scranna dorata, attorniati da ministri, da consiglieri, da uomini d’arme e valletti, riveriti, ossequiati, scortati ad ogni passo da cortigiani e custoditi da un baldacchino di velluto, oh come a certe ore avrebbero dato volentieri tutta quella pompa cerimoniosa, e il baldacchino e financo il corno, l’ambito corno ducale, al loro giurato nemico, per potersela sgattaiolare da una porta segreta e darsi un giorno alla macchia, allegri e spensierati come uno scolare che abbia inforcata la scuola! E chi non l’ha provato, o signora, chi non lo ha provato, una volta almeno nella vita, questo desiderio infinito di uscire dal suo ambiente soffocato, di seguire per un giorno i liberi impulsi del cuore, di librarsi a volo sull’ippogrifo della fantasia come un silfo su d’un raggio di luna? Anche il passero solitario gode di poter mettere nel suo nido qualche pagliuzza più luccicante dell’altre; perchè non cercherebbe l’uomo di scrivere nel taccuino della vita, legato quasi sempre in pelle nera, qualche pagina allegra?

— Ma bene! Ella è poeta?

— Chi non lo è, signora mia, un pochino? Qual è il gentiluomo che non ha scritto una anacreontica? E come poi non esser poeti a certe ore? Veda un po’ là in fondo, sul mare, quella striscia di bianco. È l’aurora, la bellissima Aurora, che esce dal letto "di Titone antico", un marito per cui ella non seppe ottenere dai celesti l’eterna giovinezza, come gli aveva ottenuta l’immortalità. Dicono che accanto a lei il povero vecchio ringiovanisca qualche volta; ma io la credo una favola. Guardi come la si tinge di bei colori. Ha il croceo velo e le rosee dita, di cui le ha fatto presente Omero. Già si capisce, ella si mette in fronzoli per scendere a visitare, non so se Cefalo od Orione, cacciatori valenti e buoni levatori ambedue. Anch’io sono stato nelle sue grazie, non perchè mi alzassi per tempo, ma perchè andavo a letto assai tardi, e sempre dopo averla veduta. Ora non più, chè gli anni passano e mi lasciano tutti qualche savio consiglio. Per altro, anche divezzato da questi amori antelucani, io non posso abbattermi a vedere la bella vagabonda nel suo leggiero abbigliamento di mattina, senza che il cuore mi batta più forte nel petto. Son come il poeta: "conosco i segni della fiamma antica."

Così ciaramellavo per far ora e per isviare lo spirito della mia compagna di viaggio dal pensiero di Grottamare, che ormai era vicina, poichè il treno aveva oltrepassato la foce del Tronto. E il sole in quel momento annunziava la sua imminente apparizione con una diffusa luce rossastra che si stendeva come un lembo di porpora tra alcuni cirri di nuvole capricciose e l’orizzonte marino.

Io ho sempre avuto una gran tenerezza per questo vecchio e tuttavia sempre nuovo spettacolo di una levata di sole. Se è vero che tutti gli appetiti e tutti gli abiti nostri possono ricondursi ad antiche origini, come vogliono i partigiani dell’atavismo, si può quasi giurare che sia in me qualche goccia del sangue dei primitivi Sabei. Amo il sole che abbellisce il creato, riscalda il mio sangue e matura i grappoli della vite, e non mi lagno troppo se in pari tempo fa zufolare le serpi e cantar le cicale. Non c’è bene, a questo mondo, senza la sua parte di male. E gli uomini, poi, son essi fior di farina? Pure, anche la madre terra li comporta, sebbene, come diceva Teofilo Gautier, buon’anima sua, ça gâte le paysage.

Amo il sole, l’ho detto; l’amo, e lo rivedo ogni dì con piacere, come si rivede un amico. Ed egli che sa di esser tale per noi, ci si annunzia ogni mattina (quando non c’è nubi a turbare la pace) con una gloria di soavi splendori. E quando apparisce egli in persona sull’orizzonte, è veramente una cosa ammirabile; e si capisce come gli antichi non abbiano dubitato di rendergli onori divini; imperocchè, di tutti gli "Dei falsi e bugiardi" egli si è conservato il più degno, ed è tuttavia quello che, pei benefizi ond’è largo ai mortali, si accosta di più al vero concetto che dobbiamo formarci della divinità protettrice. Quando si pensa che deriviamo da lui, che ci siamo spiccati da lui, che siam sospesi nello spazio per lui, che il calore, il moto e la vita li attingiamo da lui, che le insite forze della natura altro non sono che partì di lui addormentate, per così dire, nella inerte materia, che infine tutto ciò che nutre e riscalda, tutto ciò che arde, illumina e scoppia, è lui, sempre lui, sotto forme nuove e diverse, c’è da scoccargli un inno di lode ad ogni respiro. Ed io, qualunque sia la ragione per cui egli mi ha suscitato dal nulla, fosse anco per ridersi de’ fatti miei, non posso guardarlo senza sentirmi rimescolare il petto da un misto di allegrezza e di gratitudine, e medito un inno, che egli non leggerà, vivaddio, e i posteri nemmeno.

Egli apparve, per farla breve, e i suoi raggi balzarono, come lingue di fuoco, sulle crespe del mare, avvivarono ad un tratto i pallidi colori del cielo, e si rifransero in caldi riflessi dorati sui cristalli del nostro mobile albergo. Io mi voltai prontamente verso la mia vicina, per invitarla ad ammirare con me. Essa in quel mentre s’era affrettata a rimettere il suo cappellino e a tirarne il fitto velo sul viso. Un velo cenerognolo! di tutti i veli il più indiavolato, il più geloso, il più avaro.

— Che è ciò? — dimandai trasognato. — Ella si copre il volto!

— Sì; — mi rispose ella, con una certa sua malizietta; — ho paura.... di esser brutta.

— Che cosa vuol farsene.... con me? Non appartengo già al suo piccolo mondo! Ci siam incontrati a caso.... non ci vedremo forse mai più....

— Che ragione! — interruppe ella, accompagnando la frase con una dimestica crollatina di spalle. — Mi duole.... vorrei esser bella, perchè il mio sorriso di gratitudine le tornasse più caro.

— Oh, non abbia timore per questo; — soggiunsi, con un’aria di candore che non sembravo più io; — godrò ugualmente di aver reso servizio ad una brutta.

— Ne è proprio certo?

— Certissimo; e credo che n’avrò più merito al cospetto dei cieli.

— Quand’è così, — replicò ella con atto di rassegnazione, — posso farmi coraggio. —

E alzato lestamente il braccio, prese il lembo di quel suo maledetto velo cenerognolo e lo trasse indietro, lo arrovesciò sul cappellino, sto per dire fino al rimesso dell’orlo.

I modi scherzevoli della mia compagna di viaggio mi persuasero di rispondere a lei sul medesimo tono. Volevo anch’io comporre il volto e l’accento alla rassegnazione, e meditavo, nell’avvicinarmi a lei, un certo mio confortino intorno alla bellezza dell’anima, superiore di tanto alla bellezza del viso. E ciò per farla stizzire un pochino, bene argomentando ch’ella non doveva esser brutta, se aveva potuto così tranquillamente fermarsi su quell’argomento essenziale.

Mi accostai dunque e la vidi. Ora, quello che io vidi della sua faccia mi gelò la mia celia sul labbro, o, per dire più veramente, me la trasformò in una maiuscola interiezione. Restai di sasso, come se avessi veduta la testa di Medusa. E qui va notato che la testa di Medusa non faceva già questo effetto sui riguardanti perchè fosse brutta, sibbene perchè era troppo bella. Minerva, con tutto il suo sdegno, non aveva ardito far altro che trasformarle i capelli in serpenti.

Viaggiatrice divina! Quali frasi userò per dipingerne il volto? Ahimè, le descrizioni non valgono. Ricorderò sempre che un amico mio, mezzo pittore e capo scarico se altri fu mai, col quale io m’ero un giorno incocciato a sostenere le ragioni della parola contro la vantata preminenza dei pennelli, mi tirò davanti al suo cavalletto, mi pose in mano un Diodati e mi disse: «cerca il tico de’ Cantici e proviamoci a dipingere, secondo le sue descrizioni, la più bella tra le figliuole di Sion.»

— Sta bene; — risposi io, preso al laccio, e armandomi di coraggio contro il pericolo. — Ecco qua il nono versetto: «Amica mia, io t’assomiglio alle cavalle che sono a’ carri di Faraone.»

— Eccoti la cavalla di Faraone; — mi disse l’amico, dopo aver con pochi tratti di pennello segnata sulla tela una bella giumenta di puro sangue arabo.

— Bada agli occhi! — soggiunsi. — «I tuoi occhi somigliano a quelli de’ colombi.» —

E l’amico a dipingere due occhi tondi, piccini e rossigni, aggiungendovi, per maggior verità, qualche piumolina dattorno.

— «I tuoi capegli sono come una mandra di capre lisce del monte di Galaad.» —

E l’amico a tirar giù la più arrischiata discesa di capre, sotto cui sparve senz’altro la criniera della cavalla di Faraone.

— Non mi far spreco di bestie lanute; — gli dissi. — Ci hai ancora i denti da farle. «I tuoi denti sono come una mandra di pecore tutte eguali che salgono fuori del lavatoio». —

E giù pecore, che sporgevano il muso di sotto alla froge della povera bestia.

— Benissimo; — ripigliai. — Ora alle labbra. «Le tue labbra somigliano un filo tinto di scarlatto.» —

Qui l’amico dipinse addirittura un’accia di refe.

— «La tua tempia — (seguitai) — pare un pezzo di melagrana.» —

E addio cervice della puledra, per dar luogo a un reticolato di granelli rossi e vinosi, spartiti in più luoghi da una pellicola gialla, come si vede per l’appunto nelle melagrane spaccate.

— «Il tuo collo somiglia la torre di David, edificata per gli esercizi dell’armi.» —

L’amico tirò giù due pennellate di biacca.

— Eccoti contento; — mi disse, accennando i merli in capo alla torre e qualche feritoia nel mezzo. — Se vuoi, ci appendo anche dintorno «tutte le targhe dei prodi.»

— Sicuro; ci faranno l’effetto d’una collana. Appunto per questo le ha messe il poeta. Ed ora, aggiungi sotto la fontanella, qui, dalla gola, «due caprioletti gemelli che pasturano tra i gigli.»

Il pittore intinse da capo il pennello nella biacca e segnò i gigli con due bei caprioli nel mezzo.

— «Eccoti bella, amica mia, eccoti bella;» — gridò l’amico, scostandosi dal cavalletto per ammirare da lungi l’opera sua. — «Chi è costei che apparisce simile all’alba, bella come la luna, pura come il sole, tremenda come un campo a bandiere spiegate?» —

E rideva, il briccone, e risi anch’io per far coro. Ma, da quel giorno, incominciai a dubitare intorno alla bontà delle mie descrizioni.

Cionondimeno, — tanto è piacevole il ragionare della bellezza, anche a patto di non esprimerne la millesima parte, — io mi proverò, pittore mal destro, ma pieno di buon animo, a descrivere questa leggiadra che il caso mi aveva data per compagna di viaggio, e ahimè, non per compagna di vita. Noterò prima di tutto la nera chioma corvina, abbondante, lucida, naturalmente inanellata su d’una fronte nitida come l’avorio; i grandi occhi turchini e le ciglia morbide e folte sotto «i due neri sottilissimi archi» donde Ludovico Ariosto immaginò che saettasse i suoi strali l’amore; il naso grecamente profilato, tra due guance pienotte e vellutate come le pesche duracine, e il collo tondeggiante e snello, che prometteva stupende le forme tutte di una rigogliosa bellezza, vietata agli sguardi profani da un grigio mantello o cotta da viaggio, che non saprei dire se più gelosamente britannica, o più britannicamente gelosa.

Sfuggirono dunque alla mia curiosa attenzione molte cose leggiadre; ma vidi gli orecchi e le mani, gli uni e le altre di purissima forma, che mi promisero un piedino di fata; vidi le carni asperse d’una velatura alabastrina, sotto cui trasparivano i bei colori della salute; e vidi il sorriso di quella bocca vermiglia, che lasciava indovinare le «due filze di perle elette» acconciamente notate dal divin Ferrarese tra i tesori invidiabili della bellezza di Alcina.

Su tutto questo, che potrebbe, come nel caso or ora citato, essere anche il complesso delle grazie d’una strega, era diffusa un’aria di onesta alterezza che indicava l’interna gentilezza dell’animo, rispondente a quella del viso; vo’ dire la nobiltà del pensiero e la delicatezza del sentimento, che, fuse in un solo concetto, la dignità, paiono a me condizioni necessarie della vera bellezza. Imperocchè, lo confesso, se io fossi stato nel berretto frigio di Paride, la guerra di Troja o non sarebbe avvenuta o avrebbe avuto altra forma. Io non avrei dato il pomo a quella smancerosa di Venere; lo avrei dato a Minerva, o a Giunone: e chi sa? se m’avessero fatto pensar nulla nulla a quelle loro invidiuzze, a quei loro battibecchi da femmine di mercato, me lo sarei bravamente messo in saccoccia. Codesto per dire che la bellezza non è piena ed intiera a’ miei occhi se non va accompagnata ad un senso intimo di nobiltà, di alterezza, di maestà, od altro che si voglia dire, che nella donna fa ricordar la regina, con tutto il cortèo delle arcane promesse, delle gloriose vittorie, ed anco, se occorre, delle insigni cadute.

Io colsi subito questo senso intimo sul viso della mia compagna di viaggio; perciò il mio stupore fu un misto di piacere e di reverenza, e la celia, come ho già detto, mi si gelò sulle labbra. Ella sicuramente si addiede di questa forma tutta particolare della mia maraviglia; ed arrossì, sorridendo, come sanno sorrider le belle; il che torna a dire che io vidi quasi tutte d’un colpo le trentadue perle orientali, legate nel più tenero corallo fior di sangue, che mai si mostrasse alla ammirazione delle genti.

Poche bellezze resistono, segnatamente dopo una notte vegliata, ai crudi lumi, del giorno. La mia viaggiatrice era del bel mer una; credo anzi che portasse la palma tra tutte.

Si rimase per alcuni istanti in silenzio; io ammirato, ella un po’ vergognosa. Almeno così mi parve; poichè, dopo avermi sogguardato un tratto, chiuse gli occhi, arrossendo; indi li riaperse, e scuotendo la testa, come per vincere la natural ritrosia, con un misto ineffabile di civetteria femminile o di ingenuità fanciullesca, mi domandò:

— Or bene, non le dispiaccio del tutto?

Io feci a quelle parole sue una cera malinconica che nulla più. La domanda mi piaceva, e mi tornava molesta ad un tempo. Mi piaceva quella sua confidente schiettezza, che non era senza un tal poco di vergognosa modestia; mi tormentava il pensare che quel dialogo nostro doveva morire lì per lì, senza una chiusa dicevole, finir come un lampo, interrompersi sul più bello alla guisa di quei sogni leggiadri dell’alba, che lo spirito nostro accarezza, sperando di rattenerli, e che pur troppo sente fuggire da sè, poichè gli occhi stanno già per riaprirsi alle trite volgarità della vita.

Epperò il dolce e l’amaro de’ miei pensamenti s’infiltrarono alla pari nella risposta ch’io diedi.

— Che dice, signora? Ella è una maraviglia; è la donna che io non avrei trovato, cercandola, perchè il mio cuore non avrebbe potuto mai formarsene da solo un’immagine così bella; è la donna che io vedo, per fortuna non mai sperata, e che perdo per disgrazia immeritata, ad un tempo. Se lo lasci dire, poichè forse non ci vedremo mai più, e non c’è secondi fini nelle mie ammirazioni; ella è a’ miei occhi una donna, con cui sarebbe delizioso vivere un’eternità che paresse un giorno, e un giorno....

— Che paresse un’eternità! — interruppe ella maliziosamente, dando in uno de’ suoi scoppi di riso.

— No, la rispondenza delle frasi non è esatta; — diss’io di rimando. — Un giorno che facesse pregustare un’eternità di delizie.

— Ben ripiegata! — esclamò ella, inchinandosi. — Già, quando si ha a fare coi poeti!

— Dica piuttosto con chi ci ha occhi per vedere ed anima per intendere tutte le grazie della sua.... Ma no, questo arieggia i complimenti d’una festa da ballo, e non c’è niente che più mi dispiaccia, di queste volgarità a cui ci condanna una lingua male avvezzata. Parliamo d’altro; — soggiunsi, traendo un sospiro dal profondo del petto: — veda un po’ lo stupendo paese che ci scorre davanti agli occhi. —

La campagna non era da ammirarsi per fermo, nè per rigoglio di verde, nè per varietà di colline, o maestà di montagne; era anzi brulla, uniforme e piana, come sempre in vicinanza di torrenti alla foce, ove il terreno è più facilmente sassoso, ghiaioso e sterpigno che altrove. Pure, a me sembrava mirabile in quel punto; me la faceva più bella il lume del mattino, e più ancora la luce nuova che m’inondava lo spirito.

— Orbene? — diss’ella, volgendosi a me, dopo aver dato un’occhiata al paese.

— Orbene, io qui vorrei vivere la mia eternità, od il mio giorno. Le città popolose, i bagni affollati, non m’andrebbero punto, per allogarvi la mia contentezza. La solitudine è buona, quando si assapora in due. Del resto, signora mia, la felicità in terra, come la beatitudine in cielo, è un misto di contemplazione e di ebbrezza. Nelle glorie dei pittori si vedono per solito legioni di santi che pregano, e di angioli che cantano, suonano, e rombano attorno con l’ale, perchè la pittura ha mestieri di coteste rappresentazioni agli occhi, che debbono dare argomento di pensieri all’animo del riguardante; ma è da credersi invece che gli spiriti celesti non abbiano a vedersi nè a sentirsi l’un l’altro, rapiti come sono nell’estasi, e le musiche di paradiso debbano averle dentro di sè, non già sentirsele strimpellare agli orecchi. Noi dunque siam qui.....

— In terra! — notò la mia arguta vicina

— In terra? no, tra terra e cielo; — soggiunsi. — Con Lei, signora, mi parrà sempre di stare in sull’ali.

— È un complimento.

— Eh via! Le par proprio una così brutta cosa?

— Mi lasci finire, non faccia il muso; — rispose ella con piglio amorevole. — È un complimento, ma non è volgare. Inoltre, son donna, e un granellino d’incenso non mi può far dispiacere. Va bene così?

— Purchè mi lasci tirare innanzi il mio sogno....

— Ma sì, ma sì! — diss’ella, accennando del capo.

— Noi dunque, io e la donna che ho potuto rapire al mondo nemico, siamo qui, — ripigliai, — in quest’angolo ignoto di terra. La ferrovia lo rasenta, è vero, e quattro e sei volte al giorno la vaporiera ci passa fischiando: pure, questo bel luogo non è men fuori di prima dal commercio noioso degli uomini. Da uno sportello di carrozzone che trasvola rumoroso sulle rotaie di ferro, si vede a mala pena quel bianco casino, là in alto, sul colle; un tetto aguzzo a quattro acque, colla sua banderuola sul colmo, tre finestre al pian di sopra, due al pianterreno, sotto gli archi del loggiato, che serve d’ingresso e che noi possiamo ornar tutto di fiori. Essa ama i fiori, s’intende: è un amore fraterno. Il bel luogo si vede passando, come lo vediamo noi, ora; e a molti accade, come a noi, di pensare: oh, poterci nascondere in quel lembo felice di suolo! È un pensiero che nasce soventi volte nell’animo a chi viaggia in ferrovia, quando cade sott’occhi una di quelle palazzine, con un po’ di giardino a solatìo e una macchia di roveri, di pini, o di castagni alle spalle, uno di que’ nidi belli e fatti, da non mancarci più altro che le due tortorelle o i due colombi innamorati. Di grazia, qual paragone le piace di più? quello dei colombi, o quel delle tortore?

— Non hanno un bel verso nè le une, nè gli altri; — rispose, facendo niffolo, la mia compagna di viaggio. — Metta due cardellini; almeno essi cantano.

— Ah! Ella canta! — esclamai.

— Chi le dice questo? Si parla d’una donna ideale.

— Sì, è vero! — risposi mortificato. — Diciamo dunque due cardellini. Come si vorrebbe cinguettare, l’uno a fianco dell’altro, e volar tutto intorno, di poggio in poggio, di frasca in frasca, cercando frutti da bezzicare! Perchè bisogna ricordare, signora mia, che i cardellini mangiano, come tutte le creature di Dio; e il mangiare, quando sia fatto a modo, non è mica un’orrida cosa! —

La mia vicina ascoltava e sorrideva.

— E poi, non si dovrebbe volar sempre per sollazzo, o per desiderio di cibo. Alle sue ore la cardellina raccoglierebbe il volo in una elegante cameretta, davanti al suo telaio da ricamo. È una gradevole occupazione, ed io starei volentieri lì presso, a contare i punti di quelle dita leggiadre; ma, intendiamoci, essa non dovrebbe avere poi troppo la mente ferma al ricamo!

— C’è rimedio, — notò sorridendo la mia bella vicina. — Si potrebbe pregarla di non lavorare che al canavaccio. Colla lana e il punto in croce, non c’è da stillarsi il cervello come nel ricamare di bianco.

— Benissimo; così ella potrebbe di tanto in tanto alzar gli occhi e non lasciare il suo povero compagno senza la cortesia d’un sorriso. Egli frattanto, ad alta voce, per unire vieppiù le due anime in un solo pensiero, leggerebbe qualche bel libro nuovo, o qualche passo dei nostri eterni poeti. Di grazia, amerebbe essa i poeti?

— Certamente. Se avesse scelto un poeta a compagno di solitudine, come vorrebbe Lei che non amasse i poeti?

— Poesia, dunque, e non prosa. Già, i prosatori da potersi leggere ad alta voce, voglio dire morbidi e snelli per la forma, nè troppo ostici nella sostanza, son pochi. E poi, la sera, che direbbe Lei d’una bella passeggiata a lume di luna, elevando l’anima a Dio e ringraziandolo d’aver data a lui la salute, a lei la bellezza, per amarlo a vicenda nell’opera sua? E sera e mattina esser soli, lontani per qualche tempo da tutte le molestie dell’umana compagnia, raccogliersi, bastare per tutto quel tempo a sè medesimi, stillare un po’ d’egoismo in due, attingervi forza alle future battaglie della vita, foggiarsi un piccolo mondo di care memorie in cui rallegrare talvolta lo spirito abbattuto, dica, o non sarebbe questa una lieta pagina nel libro noioso, una bella fermata nel faticoso viaggio della esistenza?

— Sì, bella! — esclamò la mia gentile compagna, reprimendo un sospiro.

E restò sovra pensieri, cogli occhi fissi sulla campagna che ci fuggiva dinanzi.

Intanto io guardava lei, divoravo degli occhi quella sua testolina leggiadra. Un raggio di sole, non potuto rattenere dalla tendina azzurra che la brezza di fuori e gli sbalzi del treno ad ogni tanto smuovevano, era venuto a cogliere il suo viso di sbieco, lumeggiando di strani riflessi bronzini e dorati le morbide anella de’ suoi capegli neri, guizzando per entro alla vaga lanuggine delle guance tondeggianti, e dando la trasparenza delle foglie di rosa ai contorni purissimi del suo delicato profilo. E mi struggevo in quella contemplazione, come ho sempre creduto che si strugga la cera, ammirando il lucignolo ardente; e non potevo saziarmene, e quanto più guardavo, più forte sentivo lo strazio di quell’agonia. Scherno crudele della fortuna! Ella era così vicina a me, e già così lontana ad un tempo! Perchè infatti, non c’era che dire; quindici, venti minuti ancora, trenta al più, e noi dovevamo separarci; la mia felicità, apparsa coll’alba, svaniva come una nebbia leggiera nei primi raggi di sole.

Si svegliò allora nel profondo del mio cuore uno spasimo che mi flagellò il sangue e lo fece scorrer veloce, come vampa di fuoco, alle tempia. Non so se esprimo esattamente ciò che sentii in quel punto; ricordo che n’ebbi un offuscamento al cervello, che una specie di vertigine s’impadronì del mio spirito e che una pazza dimanda mi ruppe dalle labbra, innanzi che l’animo mio avesse potuto meditarne la forma.

— Signora, — le dissi concitato, — chi siete? —

Ella si volse in soprassalto a guardarmi, e certo, vedendo il mio turbamento, ebbe compassione di me.

— Perchè mi domandate voi ciò? — disse di rimando, senza badare al trapasso che ella pure faceva dalle forme cerimoniose alle amichevoli. — Ve ne prego, non mi mettete al punto di dover ricusare qualche cosa a chi m’è stato tanto cortese fin qui. — Ogni insistenza dopo quelle parole sarebbe parsa villana.

— Ah, basta! — esclamai. — Non chiedo più nulla. Mi scusi.

— No, mi scusi Lei, se non posso rispondere ad una domanda, che non è inopportuna davvero.

— Ma sciocca, io lo vedo. Non mi dica di no! Me lo son detto io stesso da me, appena la m’è fuggita di bocca. Difatti, a che mi condurrebbe il sapere? A cercarla, a tenerle dietro, a recarle molestia un giorno; e tutto questo in ricambio della fiducia che Ella ha mostrato di avere in me, sulle prime apparenze. Non sarà mai! Faccia conto ch’io non le abbia chiesto nulla; non si dia pensiero di me. —

Feci uno sforzo, direi quasi, sovrumano, per ricompormi. Arrossivo della mia debolezza; soffrivo, ma non volevo darlo a divedere, nè colle parole, nè col silenzio sdegnoso. Mi alzai col pretesto di avvicinarmi allo sportello di destra e di tirar su la ventola di legno, in cambio della tendina, che non istava mai ferma al suo posto e lasciava sempre la via ai raggi importuni del sole. L’avevo cogli importuni, io! Ma dopo aver condotta a fine l’impresa, mi venne in mente che l’ostacolo di quell’assicella poteva non essere inteso pel suo verso, e subito lasciai ricadere la ventola nella incassatura del telaio, per rimettere la tendina a suo luogo. Indi, scontento di tutto come lo ero di me, mi ridussi nel mio angolo, incrociai le braccia sul petto, e chiusi gli occhi, aspettando. Se avessi potuto rimanere in quella postura ad occhi chiusi, fino a tanto la voce del guardiano non fosse venuta ad annunziarmi la fermata di Grottamare! Quel nome era la discesa, era la fuga, la liberazione da un incubo! La mia bella visione spariva, sì certo; ma avrei potuto toccar terra, correre e maledire a mia posta. E poi, non scendeva forse colà il nemico che mi era stato procacciato dal caso? Nemico salvatore! Come lo avrei incontrato volentieri! E come volentieri gli avrei calato un fendente sul cranio, o piantato una palla di piombo nel cuore! Anche lui doveva pensarci, in quell’ora, allo scontro imminente; e certo con più stizza per la vergogna patita, non mai con più allegrezza di me, che in quello scontro ci vedevo uno sfogo a tutte le furie d’inferno che mi tempestavano dentro.

Una vocina soave, impressa di dolce venne ad interrompere il filo de’ miei truci propositi.

— Le ho fatto pena, non è vero?

— Signora, che dice Ella mai? — risposi, scuotendo il capo, come uno che d’improvviso si desti. — E può credere che le sue parole....

— Le mie parole, — ripigliò essa, — hanno il torto di non esprimere chiaramente il mio pensiero. Ed Ella ha avuto forse ragione ad offendersi.

— Offendermi io? E di che? Sarei proprio uno sciocco impertinente, a pretendere che Ella.... Sì, lo confesso, ero un tantino imbronciato; ma non ci abbadi. Gli è un po’ di cattivo lievito che m’è rimasto delle mie bizze di fanciullo viziato. La prego, ne rida con me; perchè io non abbia a vergognarmene ora. Del resto, com’Ella vede, io non ho nulla; non posso aver nulla; s’immagini! —

Queste ed altre parole borbottai, come mi venivano alla bocca, tutte a filo di logica, ugualmente, per mettere in salvo la mia dignità, o per far dimenticare la mia debolezza. Ma non ero persuaso di venirne a capo; ed ella nemmeno, dal canto suo, fu tratta in inganno da tutti quegli arzigogoli.

— Senta; — balbettò ella, non meno impacciata di me; — dovrei dirle il mio nome, e non ardisco di farlo. Potrei dirglielo liberamente, ma che vuole? Una fantasia.... un capriccio.... chi sa? forse un presentimento.... Insomma non definirò quello che sento così confusamente nel cuore. Mi sembra che se io le dicessi chi sono, farei atto di cerimonia bensì, ma non d’amicizia, e spezzerei anche il lievissimo filo che mi lega ad un uomo come Lei. Vede, — soggiunse ella, arrossendo, — che in tutto ciò non v’è nulla che possa dispiacerle. Forse non è che una sciocchezza la mia....

— No, no! — interruppi sollecito. — Io rispetto queste voci arcane dell’anima.

— Ecco, è una voce dell’anima; — ripigliò la mia compagna di viaggio, afferrando la frase, quantunque vuota di senso, che io avevo buttata là senza pensarci più che tanto; — è una voce dell’anima che mi avverte.... che mi trattiene.... da che? perchè? non saprei. Del resto, si può a questo mondo conoscersi di nome e ricambiarsi un saluto per via, rimanendo gli uni agli altri più stranieri di prima. Noi in quella vece ci siamo ricambiato meglio che i nostri nomi; ci siamo ricambiati i nostri pensieri, ed Ella conosce il mio animo come io conosco il suo, che è quello di un uomo gentile, di un buon cavaliere, affettuoso per indole, cortese col mio sesso....

Oh, per carità, signora! — gridai. — Ricusi pure l’omaggio, se così vuole; ma non regali a tutte le donne ciò che è nato oggi nel mio cuore per una soltanto.

— E sia; cortese, dunque, troppo cortese con me.... Va bene così?

— C’è un troppo.... di troppo! — notai.

— Oh, non lo interpetri male; lo riferisca ai meriti miei, che son pochi, per un sentimento così.... così cavalleresco, come il suo. Vede che non le fo il torto di fraintenderla, per comodo della mia dignità femminile, e le parlo schiettamente, come se fossi....

— Ah se lo fosse, signora, se lo fosse, io.... Ma via, non dirò altro, per non riuscirle molesto. —

Ella abbassò gli occhi e non mi rispose parola. Avrei voluto licenza di finire la frase, e poichè questa licenza non mi era data, sentii la trafittura di un’altra spina nel cuore: m’imbronciai da capo e non ci fu più verso di riappiccare il discorso.

Così rimanemmo taciturni un bel pezzo. Il treno correva, ma non così rapido com’io lo volevo. Era quello un martirio che doveva aver fine. Mi sentivo schiattar dalla rabbia. Infatti, nel mio cruccio interno ci aveva molta parte l’amore, nato lì per lì, tra il desiderio e la galanteria; ma più ce ne aveva la vanità offesa. Vanità, baco dell’anima, che ci fa essere tanto noiosi alla gente!

Cavai l’orario di tasca, per riscontrarci la via che percorreva il convoglio; indi guardai l’oriuolo. Ecco, dicevo tra me, se la vaporiera non è in ritardo, saremo alla fermata tra dieci minuti. E questi, s’intende, mi parevano i più lunghi. Tornavo a guardare l’orario; tornavo a guardar l’oriuolo. La mia compagna di viaggio guardava intanto il paese. Ci fu un momento che mi parve di odiarla. Certo è che avrei voluto trovare un difetto nel suo profilo, qualche menda nelle sue fattezze, qualcosa di meno elegante nel suo portamento, di meno grazioso ne’ suoi atti, tanto da potermici aggrappare e conchiudere: va là, prosegui pure il tuo viaggio; non meriti poi questo riscaldo di cervello. Ma no, quella menda, quel difetto, quel nonnulla, non mi venne fatto di trovarlo; ella era inappuntabile, mi appariva più bella che mai.

E frattanto ella non si era più voltata verso di me. Non faceva già il viso arcigno, che non ce ne sarebbe stata ragione, e, dopo tutto, le avrebbe scemati i pregi della conscia bellezza; era contegnosa, severa, muta all’aspetto, quasi fosse di marmo. Pure, qualche pensiero ci doveva vegliare, qualche sentimento agitarsi, sotto quella maschera inflessibile! Ma quale? grave o leggero? triste od ironico? Impenetrabile arcano.

Chi ha dato (pensavo tra me), chi ha dato alle donne questa uggiosa virtù di rinchiudersi con un semplice moto di occhi e di labbra in sè stesse, meglio che non facciano, con un raggrinzamento di muscoli, il riccio e la testuggine? Sarebbe vero, come favoleggiarono gli antichi, che la donna fosse da principio una statua, foggiata dagli Dei per esercitare la pazienza di Prometeo, di guisa che per rifarsi statua, non le bisogni altro fuorchè ricordarsi della sua origine? Sire Iddio, ma non sa costei che tra pochi minuti io debbo discendere? Non ricorda già più che negozio mi aspetta, e come io me lo sia recato sulle braccia per lei? Ma già, donne! Credono non ci sia nulla, nè rispetto, nè ossequio, nè sacrifizio, che non sia loro dovuto per diritto naturale, in quella guisa che gli antichi despoti credevano di avere direttamente da Dio quello di levar tributi d’oro, di sudori e di sangue, o di vedere la gente colla faccia nella polvere, quando passavano essi per via.

Intanto, di sotto alla risvolta del soprabito, in quello stesso modo che un malfattore avrebbe tastato la lama del suo coltello dietro un canto di strada, diedi un’altra sbirciata all’orologio. Ah! finalmente! L’ora assegnata per l’arrivo era giunta; la lancetta spaccava proprio il minuto. Volevo alzarmi per prendere la valigia; ma no (dissi pentito tra me), se lo facessi, costringerei forse la statua a voltarsi e a dirmi qualche parola di vana cerimonia. No, non voglio che ella entri per tal guisa in discorso, salvo nel punto ch’io dovrò inchinarmi a lei, per domandarle licenza di passare, poichè la stazione è dalla sua parte, a sinistra. Già, quanto a me, non le dirò nulla di appassionato; non tenerumi, non galanterie, non occhiate pietose; un saluto a modo, una frase diplomatica, e via. Tanto e tanto, la fermata è breve e non si presta agl’indugi.

Conoscevo diffatti il luogo, per esserci passato altre volte. Chi me lo avrebbe mai detto, allora, che Grottamare dovesse un giorno interessarmi tanto? Quel lembo solitario della spiaggia adriatica io lo avevo notato, per certe sue balze assai pittoresche; ricordavo che in quella fermata, un anno addietro, nella stazione medesima, due graziose contadinelle erano venute ad offrirmi le pesche duràcine degli orti vicini, e che io avevo comperate le pesche come un giorno prima avevo comperate le ciliege lustrine a Piteccio, dove il viaggiatore dell’alta Italia sente la prima volta, in un’offerta di frutte, lusingarsi l’orecchio dalla schietta pronunzia e dall’armonico giro di frasi della montagna pistoiese.

Grottamare! oh, si giungesse una volta a Grottamare! La stazione di San Benedetto era passata da un pezzo; dunque?... Finalmente, si rallentò il corso del treno, e un fischio della vaporiera annunziò la stazione vicina. Diedi un’occhiata al paese e lo riconobbi; laggiù in fondo le balze; più giù un colmo di case tra gli alberi; più in disparte, a mezzogiorno, un palazzotto quadrato, d’aspetto assai nobile, forse il luogo destinato allo scontro. Poco stante, il treno si fermò a dirittura; apparvero sul margine della stazione le solite figure annoiate del capo stazione colle mani dietro le spalle, del telegrafista colla penna sull’orecchio, e la voce del guardiano si udì gridare col solito accento svogliato:

— Grottamare! chi scende? —

Balzare in piedi, afferrar la valigia e muovere verso la mia compagna di viaggio, furon tre tempi e parvero uno soltanto.

— Signora.... — balbettai, appoggiando la reticenza con un inchino.

Ella mi guardò trasognata.

— Eccomi giunto; — ripigliai, per spiegarle meglio il mio atto e giungere intanto allo sportello.

— Ah, Grottamare! — diss’ella. — Lo avevo dimenticato. Sognavo così bene.... pensando che Ella non era in collera con me. —

La frase era girata con garbo e il piglio era oltre ogni dire amorevole. La mia sostenutezza diplomatica vacillò sulla posticcia sua base.

— Grazie; — risposi, piegando le labbra al sorriso. — La nostra relazione finisce con una buona parola, che io porterò impressa nel cuore.

— Davvero? — chiese ella, fissandomi in volto con una cert’aria tutta sua, ch’io non giunsi ad intendere.

— Ne stia pur certa; — cincischiai, impacciato da quello sguardo e dalla cura di affacciarmi allo sportello per farmi vedere dal guardiano. — Perchè mentirei? Scendo, e non ci vedremo mai più. —

Il guardiano accorse, girò la maniglia e si ritrasse per lasciarmi passare. Io volsi un’occhiata alla signora, che pareva commossa, lì lì per soggiungere qualche frase di commiato.

— Non mi dica nulla, per carità; nè grazie, nè addio. Parole che mi farebbero più male che bene! Anch’io ho sognato, signora: vado a svegliarmi laggiù. —

Mormorai tutte queste parole in fretta, cercando di evitare i suoi occhi. E senza stringere una mano che mi pareva cercare in atto di amicizia la mia, tirai la valigia rasente l’assito, perchè non avesse a scontrarle la veste, e mi calai giù dall’ammezzato senza toccar la predella col piede.

Il cuore mi batteva concitato nel petto; mi rombavano gli orecchi e mi reggevano a stento le gambe. Effetto del sangue riscaldato, diranno i medici da dozzina. Comunque fosse, a me pareva insormontabile angoscia il trovarmi ancora in quel luogo, sotto gli occhi di quella donna. Avrei voluto essere altrove, anzi addirittura non essere. L’ali al dorso, il cavallo incantato di Ruggero, il mantello invisibile della leggenda, non mi sarebbero bastati; essi per fermo non mi avrebbero sottratto alla coscienza di me stesso. Tutto ciò parrà forse soverchio per un riscaldo di cervello, o di cuore: ma pensate alla stranezza del caso; mettetevi nei miei panni; vegliate una notte intiera al fianco d’una donna che v’innamora colla sua voce e colle grazie del suo spirito, vedetela al lume del giorno, bella di quella bellezza che rimescolerebbe il sangue nelle vene ad un romito della Tebaide, superate il gran punto della prima dichiarazione, restate là, senza risposta, dubbioso, trepidante, tra cielo e terra, colle mani legate, sospeso ad uno de’ suoi capricci donneschi, che sono tra tutti i più squisitamente crudeli, e poi dite se, precipitando a un tratto da quell’altezza nel baratro ignoto, non c’è da aver l'oppressura.

Fuggivo, dunque, tra vergognoso e sdegnato, epperò colla mente in uno scompiglio da non dirsi a parole. Mi sapeva mill’anni d’esser fuori di là e di poter respirare un’aria più libera. Avrei trovato quell’altro; tanto meglio! Con lui ridiventavo uomo; mentre là, sotto gli occhi di lei, mi sentivo bambino.

Spendo un tempo soverchio a descrivere ciò che avvenne di me in poco più d’un minuto. Ma così accade di tutte le battaglie dello spirito, che stringono in poco spazio la materia d’un poema. Io tante cose vedevo e sentivo dentro di me, che quasi nulla mi era dato sentire o vedere di fuori. Ricordo confusamente che c’era del moto intorno a me; segno che qualcun altro scendeva a Grottamare. E ciò s’intendeva. Anche il mio avversario doveva far sosta in quel luogo. Ricordo altresì che nella furia offersi il mio biglietto al capostazione; il quale si trasse indietro con aria d’aversene a male, ma poi, veduto forse il mio turbamento, o pigliatomi per uomo non bene in cervello, mi indicò gravemente il guardiano, deputato all’ufficio di portinaio. Io feci il gesto di chi tardi s’avvede, e proseguii verso il cancello.

Ora, mentre io stavo per giunger colà, una voce argentina mi suonò improvvisa da tergo.

— Ma che furia è la vostra? Rallentate il passo, vi prego. —

Quella voce mi scosse, mi rimescolò il sangue per tutte le vene. Diedi un sobbalzo e mi volsi. Dei immortali! Era lei, la mia compagna di viaggio, scesa a terra subito dopo di me.

Io ero rimasto attonito, quasi istupidito, a guardarla, e certo avrei fatto trasecolare il guardiano, se m’avesse veduto di fronte, come avevo fatto dar ne’ lumi il capostazione. Ella mi venne prontamente in aiuto.

— Prendete qua; tenete la mia valigia, che io possa rassettarmi la veste. Vedete che grinze! —

E sorrideva, così dicendo, e arrossiva, e chinava gli occhi sul lembo della veste, per non avermi a guardare.

— O come? — balbettai io, che non sapevo trovarci il verso. — Scendete?

— Anzi, son bell’e scesa.

— Volevo dire.... perchè?

— Oh bella! — esclamò. — Me lo chiedete? Andiamo, via; date il mio biglietto insieme col vostro. —

Obbedii macchinalmente, passando dopo di lei davanti al guardiano.

— Ma infine, signora.... Non dovevate proseguire fino a Bologna?

— Come voi; — rispose ella, arrossendo da capo.

— Ma io.... ho qualche faccenda, qui, da sbrigare. E voi, signora.... ch’io sappia....

— Sapete poco, diffatti, — notò ella con un certo accento sdegnosetto, che mi fece battere il cuore, come avrebbe fatto la più soave inflessione di voce. — E in che stima mi tenete voi dunque? Voi qui ad arrischiare la vita per me, ed io me n’andrei oltre, al mio destino, come se nulla fosse? Signor mio, lasciatevelo dire; — soggiunse la mia compagna, con una grazia ineffabile, — voi non siete quel compito cavaliere che amavate dipingervi stanotte, al buio. Siete un egoista....

— Un egoista?... io?

— Voi, sì; e che altro ha da essere un uomo, il quale si tiene il suo medio evo tutto per sè, non ammettendo che altri possa averne la parte sua? E badate, non parlo da scherzo. Ho anch’io la mia dignità, il mio orgoglio, che mi comanda di non esser da meno di voi in questo grave momento, di non rimpicciolirmi agli usi codardi, che si chiamano i rispetti umani e le convenienze del mondo. Una donna la quale facesse in tal caso ciò che voi v’aspettavate da me, fosse pure la più nobile, la più riverita nel mondo, io l’avrei per una vil creatura, indegna del rispetto e dell’amore di un uomo.

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