< Come un sogno
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II IV

III.

M’ero rannicchiato nel mio cantuccio, col proposito fatto di non aprir bocca, per non riuscire e sopratutto per non parere importuno alla mia sconosciuta. Del resto, lì per lì, non m’importava di lei nè punto nè poco; bensì mi premeva di far vedere col mio esempio a quella donna, come ad ogni altra in quel caso, che gli uomini non sono poi tutti uguali. È questa una verità, sia detto così di passata, che io vorrei posta in sodo meglio di tante e tante altre che hanno corso dappertutto e sono come la moneta spicciola della nostra filosofia civile. Certe massime son buone e abbastanza giuste in politica e in religione; ma niente più in là. In zoologia, verbigrazia, o in antropologia, se vi par meglio, ci sarebbe molto a ridire.

Tacevo dunque e cercavo di pensare ad altro; alla veduta di Benevento, al mio Orazio, a Pescara che mi aspettava, co’ suoi ricordi letterarii e matrimoniali di Vittoria Colonna, a Recanati, che rammenta ai viaggiatori il più grande poeta italiano del secolo, a Loreto, agli angioli architetti, e che so io.

La mia sconosciuta, per altro, non reputò conveniente il silenzio.

— Signore, — mi disse ella con nobile accento, sebbene titubante per onesto ritegno femminile, — io sarei una donna immeritevole della sua generosa protezione, se non La ringraziassi con tutta l’anima di quello che ha fatto per me. Ma, di grazia, come ha potuto indovinare che quell’uomo....

— Fosse il suo persecutore? — interruppi. — Tre cose me l’han detto in un punto: il guardare ch’egli ha fatto qui dentro e la sua furia d’entrare dopo averla veduta; il gesto di terrore e di ribrezzo fatto da Lei nello scorgere il nuovo venuto; da ultimo la tracotanza di lui. Certe cose s’indovinano più assai che non si giunga a conoscerle dai fatti. Mi sono forse ingannato?

— No; — rispose la viaggiatrice; — e poichè Ella intende così facilmente, non occorre neppure che io le racconti....

— Che dice Ella mai, mia buona signora? Si risparmi una spiegazione incresciosa. Io so bene che cosa possono sillabare all’orecchio d’una figlia d’Eva questi pronipoti del serpente. Ma quest’uno, vivaddio, ha trovato il fatto suo, e non fischierà più per un pezzo.

— Ah! mi duole che per cagion mia....

— No, Ella non c’entra per nulla. Ho fatto il debito mio di cavaliere e nient’altro. Vorrei che si facesse così per mia moglie... se avessi moglie, e se viaggiasse da sola. Perdoni, sa, la mia schiettezza, e ci veda appunto l’animo mio, alieno da ogni sorta di galanteria. Odio i tentatori, ma debbo aggiungere che mi pare un’imprudenza lo esporsi alle tentazioni in tal modo.

— È vero; — rispose ella con voce impressa di compunzione; — ma se io potessi scusarmene? La cosa sarebbe lunga a dirsi, e qui, tra....

— Tra sconosciuti, dica pure! — soggiunsi io, vedendo che ella si peritava di compier la frase.

— No, non vorrei dir questo. Il servizio reso porta gratitudine, che è più d’ogni attinenza sociale. Ma infine, che le dirò? Vi possono essere.... vi sono anzi dei casi nella vita, ne’ quali anche una donna debba armarsi di coraggio e mettersi in balia degli eventi. E allora avviene, — soggiunse ella sorridendo, — che questa donna esca sola di casa sua e prenda un bordone a guisa di pellegrino, o un biglietto di ferrovia, come una libera figlia dell’America settentrionale.

— Gran paese, signora, e costumi degni d’un gran paese! — esclamai. — C’è dello strano talvolta, ne convengo, nè ogni cosa di laggiù può accettarsi ugualmente; ma dopo tutto, in quella società così nuova e così giovane, che dovrebbe per conseguenza reputarsi più rozza, il rispetto, l’ossequio per la donna è a gran pezza più profondo che da noi, figli di cinque o sei civiltà, l’una più famosa dell’altra.

— Forse, — notò argutamente la sconosciuta, — in que’ paesi son meno leziose le donne.

— O come? — diss’io ammirato.

— Sì; non è forse la nostra finta debolezza che fa gli uomini arditi? —

L’osservazione era giudiziosa e sottile come tutte quelle che sogliono fare le donne quando la loro graziosa personcina non entra in causa. Per altro, cortesia voleva che io non gliel’ammettessi per buona.

— Ella usa misericordia al mio sesso, e gli fa troppa grazia; — risposi. — Io le ho già detto, per conto mio, in che concetto lo tengo.

— Perdoni, ma io non sono del suo avviso. Io stimo gli uomini.... in genere.

— Com’io le donne, signora. Le apprezzo tutte e senza secondi fini, poichè non ne amo alcuna in particolare; mentre odio gli uomini in genere, per amarli qualche volta in numero e caso. Che vuole? ognuno ha il suo metodo, e il mio mi sembra il più certo, per non aver sopraccapi. —

Uno scoppio di risa, subitamente represso dalla dignità e da ciò che si chiama comunemente la convenienza, accolse la dichiarazione del mio metodo.

— I suoi amici, — soggiunse la sconosciuta, per temperare l’effetto della sua ilarità, — debbono esserle grati di queste sue consuetudini. Non è un tesoro d’affetti che si sparpaglia troppo, il suo. Le donne, per contro, non hanno a rallegrarsi.

— Perchè?

— Perchè Ella mostra di apprezzarle poco, se, apprezzandole in genere — (e ripetendo il verbo la mia compagna di viaggio si messe argutamente a spicciolare le sillabe), — Ella non ha creduto conveniente di sceglierne una.

— Ah sì, trovarla, signora mia; questo è il guaio.

— Eh via! perchè non avrà voluto cercare.

— Cercare! — risposi, tenendo il discorso in su quel tono di urbana festività che il caso aveva portato tra noi. — O che mi consiglia Lei? La donna a cui un uomo per bene ha da far punto e basta, non è mica.... scusi il paragone veh!... non è mica una starna, da andarci col bracco da fermo. Io voglio ammettere che ce ne sian mille, o giù di lì, nella cerchia delle nostre attinenze, in quello che un uomo comunemente chiama il suo raggio di azione; eppure, il più delle volte, tra queste mille non c’è la donna destinata per noi. Ne vuole una prova? Guardi un po’ la più parte dei matrimonii, fatti, come suol dirsi, nel vicinato, che esempi di felicità scambievole ci danno! E guardi altresì il caso di tanti e tanti uomini, non so se più accorti, o più fortunati, che la loro felicità l’hanno aspettata d’oltremonti, o d’oltremare, o fuori paese sono andati essi medesimi a trovarsela. Poi, Le dirò un mio peccato. Scusi, signora; son uomo e posso confessarmi liberamente. Ella, del resto, non mi tradirà.

— Non abbia timore; — rispose ella, imitando la mia gravità burlesca.

— Or dunque, sappia, o signora, che io tendo allo strano. Un mio amico dice esser questo un difetto che m’han lasciato le variuole. In amore le vie battute mi annoiano. Già, sulle vie battute ci s’incontra sempre qualcuno. E non mi pigli per matto, La prego. Io credo, a farla breve, che se amassi, amerei bene; ma non ardisco provarmici; non voglio sprecare un sentimento, che, a incignarlo, svapora, come avviene delle essenze odorose. Mi fermo adunque e tralascio un tema che non è forse da trattarsi qui, dove potrei anche parere un vicino più sfortunato e molesto che non fosse quell’altro.

— Grazie! — mormorò ella, con quel filo di voce da cui s’indovinava il rossore, l’amabile rossore che tinge le guance alla donna ossequiata. — Ma io non ho.... non posso aver timore di Lei. Inoltre, — soggiunse, dopo un momento di pausa, — ciò ch’Ella ha fatto per me, mi sta sempre nell’anima.

— Via, via, non ci pensi! — gridai. — Le ho già detto che era debito mio di cavaliere; e non già dei soliti Santi, o della solita Corona, bensì di quell’ordine più antico e più illustre, che neppure la celia di Michele Cervantes ha potuto distruggere. Proseguo la confessione, signora mia, e, poichè non ci sono nemici che mi sentano, Le dirò che amo il Medio Evo. Gentili consuetudini, nobili insanie, che hanno redenta l’umanità dinanzi agli occhi del filosofo, mentre l’hanno incivilita dinanzi a quelli dello storico! Noi ora torniamo alla barbarie, colla nostra manìa livellatrice, colla nostra gretteria, colla nostra piccineria leguleia e borghese. Il giorno che si è reciso il capo d’una regina (e non importa vedere se per diritto di rappresaglia, o per necessità di salute pubblica) io ho incominciato a disperar del mio simile. Scusi, dico così per dire; che veramente la cosa è avvenuta forse ottant’anni fa ed io non son così vecchio. Se questa lampada non si spegnesse sul nostro capo, Ella potrebbe anche sincerarsene al colore de’ miei capelli.

— Questo si capisce, per altro, si capisce; — diss’ella ridendo a più non posso.

— Or dunque, dicevo.... anzi no, volevo dire, che io e il mio secolo siamo un pochino alle rotte. Io ci vivo a dozzina, senza impacciarmi ne’ fatti suoi; gli pago i tributi che vuole dalla mia borsa e le prestazioni che domanda alla mia operosità di buon cittadino; con questo siam pari, ed io posso seguire gl’impulsi del mio cuore, che è tutto col passato, con que’ tempi in cui il gentiluomo aveva intiera e profonda coscienza della sua forza e degli obblighi suoi. Vede? adesso ogni cura della vita si lascia alla legge, anzi peggio, ai regolamenti. La carità, l’amministrano le Opere pie; la gentilezza del costume, la insegnano le guardie urbane e, quando non la bistrattano, i birri; la morale, la custodiscono i tribunali, e così via. Quando tutte queste belle istituzioni non erano, lo capisco ancor io, si viveva maluccio, e spadronavano in quella vece prepotenti di molti. Ma ora, Dio immortale, non ce ne sono forse più, di prepotenti, o bisogna dire che la semente s’è persa? C’è chi crede che durino tuttavia, ma con nome mutato e maschera di gente per bene. Non sono più baroni, nè conti; sono uomini a modo, benemeriti di chi comanda, o di chi vorrebbe comandare, titolati o titolabili, adulatori d’un potere o d’un altro, gente che voga alla galeotta, che tira a sè, crede in sè, non pensa che a sè. L’egoismo d’oggidì è ancora peggio della prepotenza d’allora. Ma allora, in quel calunniato Medio Evo, un galantuomo, armato che fosse cavaliere, aveva obblighi certi e precisi, era egli guardia urbana e campestre, egli giudice ed avvocato dell’innocenza, egli soccorritore della povertà e protettore dell’arte bambina, egli campione dei deboli e vendicatore, qualche volta carnefice.... sì, anche carnefice, tutto, troppo, se vogliamo (noi rattrappiti, noi infarinati di legalità e di equità pigmea, noi non più assuefatti a simili grandezze, a simili impasti di forza, di giustizia e di volontà, spesso anche di arbitrio), ma compreso almeno del suo grave uffizio, della sua alta malleveria sociale. E allora, per tornar finalmente a cose più geniali, o signora, e ai debiti riscontri col caso presente, allora, per una donna si giuocava allegramente la vita; allora non c’era bisogno che la dama fosse nostra, per metterci in capo al ponte colla lancia in resta e dare addosso al primo mago carceriere, o al primo misleale, al primo furfante venuto.

— Le fo i miei complimenti sinceri; — diss’ella. — In questa sua difesa del Medio Evo c’è più che rispetto ai morti; c’è amore, venerazione....

— E follìa; non lo nego.

— Ma io non ho detto ciò....

— Lo aggiungo io, a compimento della frase. Non c’è del resto amor vero, non c’è venerazione profonda, senza un pizzico di questa derrata. Lasciamo al tempo nostro il vanto della saviezza, e così gli faccia buon prò, come è vero che se lo ha guadagnato. Ci son volute sei vite d’uomini per mutare da capo a fondo il costume in Europa; e non si fa celia, siam diventati migliori. Per altro, non mi pare che abbia a rallegrarsene troppo la donna, che nella nostra vita, nei nostri pensieri, nelle opere nostre, e starei per dire nelle nostre ommissioni, c’entra assai meno di prima. Quando si fa molto per lei, quando proprio si tiene in gran conto, che fatica, Dio buono! si prende un biglietto di ferrovia per Torino, o per Venezia, una sedia chiusa a teatro, una carrozza da nolo pel corso, e, nelle occasioni solenni, si compra un mazzolino dalla fioraia più in voga, con un sorriso per giunta. E fermi lì, s’è fatto ogni cosa; più in là non si giunge; Ercole ci ha piantate le sue colonne, colla scritta: rispettate le convenienze. Difatti, le convenienze non permettono d’inginocchiarsi nel cospetto di una dama, nè di coprirsi il capo quando ella è nominata, nè di metter mano alla spada quando è calunniata. Non parliamo de’ suoi colori, che non è più dato portarli, in grazia di questi panni stinti, che la moda ingrullita ci addossa. Gran mercè se qualche volta, voglio dire in certi casi speciali, e per conseguenza rarissimi, si può difenderla dai brutali insulti d’un ubbriaco, o d’uno screanzato. E badi che la cosa è lecita se si tratti di persona sconosciuta, che non si vedrà più domani, nè poi. Che cosa si direbbe, Dio guardi, del fatto nostro, se Ella fosse, verbigrazia, una mia concittadina? o vivessimo ambedue in una medesima cinta daziaria? Sapete la novità? Il signor Lelio s’è battuto per la signora Clarice. — Oh diamine! e perchè? — Ma! si racconta che sia per la molestia che le aveva dato un viaggiatore in ferrovia. — E che c’entrava il signor Lelio? Non c’erano guardiani da farla rispettare? — Sapete, il signor Lelio.... uno spaccamonti.... un Don Chisciotte! — E lei, già si capisce, Dulcinea del Toboso. — No; dicono che egli non la conoscesse neppure. — Eh via! anche voi credete tutto quello che dicono? Gatta ci cova, mio caro. Il signor Lelio amerà la sua pelle, come l’amano tutti, e state certo che, se si è messo allo sbaraglio per la signora Clarice.... — Infine, signora mia, non più Clarice, come io non sono stato mai Lelio, ecco in qual modo saremmo conciati ambedue, nella nostra città, pei tempi che corrono. E questo è il secolo della gentilezza! Secolo guitto! Io lo abbomino. Ma è tardi, e la predica deve averle conciliato il sonno. Creda a me, signora, non si sciupi il cappellino contro la spalliera; lo tolga e lasci che io lo deponga quassù. E badi, si copra le spalle con questo mantello scozzese, chè l’aria di notte non ha fatto mai bene a nessuno. È una massima di mia nonna, che esce dal dimenticatoio; tanto è vero che niente si perde a questo mondo, neanche i consigli che non si sono ascoltati. —

La mia compagna di viaggio rise e mi lasciò fare, come si lascia fare il più vecchio degli amici. E poco dopo, ravvolta nel mio plaid, dormiva o fingeva di dormire. Nobile finzione, per dirmi che accanto a me si sentiva sicura.

Io frattanto andavo pensando tra me. Era quello il mio primo momento di libertà; e lo spirito aveva mestieri di raccapezzarsi. In che ginepreto m’ero io ficcato alla cieca? E chi era quella donna, entrata là al buio, e non veduta in viso, che s’era impadronita così della mia povera vita, senz’altro diritto, fuor quello che io le avevo dato colla mia condiscendenza sbadata? Ma, del resto, non era egli naturale? Che altro fa la donna, in questo mondo, se non dare la sua vita altrui, pel solo diritto che si ha di accostarsi a lei e di dirle il più delle volte quello che non si pensa, o che si pensa solamente a quarti di luna?

E l’uomo a cui quella donna aveva dato la sua vita, dov’era? Amante, o marito che fosse, era lontano, fidente, ignaro così dei pericoli che ella poteva correre, come degli obblighi di gratitudine che ella poteva contrarre. Sta bene che io ero un uomo per bene e che facevo il debito mio senza secondi fini. Ma via, a parlarci chiaro, come ci si parla tra noi, al confessionale della propria coscienza, se io fossi stato nei panni di quell’uomo, m’avrebb’egli fatto piacere di pensare che ella poteva esser sola e aver mestieri della protezione di Tizio o di Caio?

— Basta, dissi tra me, non ci stilliamo il cervello in questi lunarii. Non ne ho già abbastanza, di non poter fumare il mio sigaro? —

E non senza un pochino di stizza, buttai dal finestrino la spagnoletta che sbadatamente avevo lasciato fare alle mie dita, per virtù d’abitudine.

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