< Come un sogno
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V VII

VI.

Ella appoggiata al mio braccio! Al mio braccio, fidente come una sposa, sicura e gioconda come la donna che sa tutto l’amore e il rispetto che inspira al compagno! E la vigilia io non ne avrei pur sospettato l’esistenza? Non mi parevo io. Ero felice; mi sentivo, sto per dire, un altr’uomo.

Bizzarrie del caso! Quante volte non ci occorre egli di passare accanto alla nostra felicità, senza pure conoscerla, senza sentire il desiderio di dirle, come Fausto ringiovanito alla bionda Margherita: bella signorina, accettereste il mio braccio? Ahimè, l’abbiamo lasciata passare, e non tornerà così presto.

Pure, le buone occasioni corrono il mondo per tutti. Ogni cosa è argomento, ogni cosa è indirizzo allo spirito che cerca. A chi, verbigrazia, è precluso il lieto orizzonte d’una gita pei campi, mentre l’opprimono l’afa e il tedio delle trite vie cittadine? E vedete la forza delle consuetudini; vedete l’accidiosa inerzia degli abiti! L’uomo, cittadino del mondo, testimone delle gaie volate degli uccelli migratori, si rinchiude come una tellina nel guscio, si trascina come la chiocciola, su d’una striscia che gli pare d’argento, e che non è, dopo tutto, se non la schiuma impura del suo vivere gretto e piccino. Egli non va, non vede, non cerca; si rigira di qua e di là, si vien crogiolando nella sua noia ed aspetta. Ah, felice chi muove innanzi e va con piede sicuro al suo fine! La vita non è un’acqua stagnante intorno a cui stanno gracidando le rane e su cui verdeggiano le male erbe di palude; ruscello, o fiume che sia, s’ha da scorgere in essa un’acqua corrente, che guizza e gorgoglia, limpida, fresca e canora, dalle sorgenti alla foce, dall’umil vena solitaria fino al gran mare dell’essere, di cui cantò l’Allighieri.

Ho messo in carta un arabesco di parole senza poter dire i lieti pensieri che mi giravano per la fantasia in quell’ora di ebbrezza. Tutto mi sorrideva d’intorno; sorridevano coi mobili riflessi paglierini le rèste delle avene sterili sui gambi sottili già disseccati a mezzo dal sole, lunghesso i margini del sentiero; sorridevano luccicando i fili d’argento tessuti tra ramo e ramo dai poveri ragni campestri; sorridevano i pampini della vigna, lievemente mossi dallo asolar della brezza; sorridevano le vispe lucertole, guizzando tra lo sterpame e ammiccando dal rotto dei sassi; sorrideva ogni cosa, perchè io colorivo della mia allegrezza tutto ciò che vedevo. Ogni pittore ha la sua tinta favorita negli occhi, che gli s’infiltra naturalmente dovunque; la mia tinta era la gioia, e si stemperava in sorrisi.

Anche la mia compagna sentiva come a dir l’influenza, il fascino, l’attrazione simpatica dei miei entusiasmi. Ella appariva più svelta nel portamento, più franca nel conversare, meno armata d’ironie, di reticenze, di gretole, e a farla breve, di tutti que’ viluppi cinesi con cui sogliono bastionarsi le donne contro di noi. E di ciò le fui grato. Se la dimostrazione non avesse saputo d’impertinenza, l’avrei in quel punto abbracciata. Per altro, il mio braccio sinistro, essendo ella venuta ad appoggiarmisi da quel lato, faceva per sè e per l’altro men fortunato compagno, premendo forte il morbido braccio di lei; di guisa che ella dovette sentire ai battiti frequenti del mio cuore come io giubilassi dentro di me e quanto mi costasse quella mia calma esteriore.

Ad una svolta del sentiero, uno sciame di uccellini dalle penne vagamente screziate si levò da terra e attraversò a volo la strada. Quegli alati spigolatori dei campi andarono a posarsi più lungi, e noi li vedevamo, punto intimoriti, saltellare, scodinzolare, bezzicare il maggese e di tratto in tratto alzare la testolina a guardarci, coi loro occhietti curiosi.

— Buon dì, cardellini! — gridai.

— Vedete; — diss’ella, dandomi al braccio una nuova stratta amorevole, a cui risposi con una stratta più forte; — questi bei cardellini al Nettuno non c’erano.

— Non mi parlate del Nettuno; io lo abomino. Arrossisco, pensandoci; arrossisco.... senza averlo meritato.

— Che cos’è quest’altro arzigogolo: meritar di arrossire?

— Eh, sicuro, lo meriterei, se proponendovi di andare a far capo laggiù.... se, con un fine.... se, infine.... ecco una brava donna che mi leva da un brutto impiccio e salva voi, mia bella signora, da una dozzina d’arzigogoli, a dir poco. —

La donna, comparsa veramente a tempo per liberarmi da quel ginepraio in cui ero andato a ficcarmi da per me, doveva essere la madre di Cesarino. Ella spuntava allora da dietro una siepe di ramerino, frutice d’ornamento contadinesco e d’utilità domestica, che suol dinotare la vicinanza dell’abitato. Eravamo diffatti in prossimità della casa, le cui mura bianchiccie s’intravvedevano per mezzo al fogliame di alcuni alberi da frutta.

Accorta, come sono tutti i contadini in casa loro, dove hanno sempre qualcosa da custodire contro i ladroncelli campestri, ella adocchiò incontanente i forestieri e stette immobile un tratto cogli occhi tesi, facendosi solecchio colla palma accostata sulle ciglia. Ma ben presto cessarono le sue dubbiezze, o per avventura si accrebbe la sua curiosità, poichè ebbe veduto il battistrada, suo figlio, che agitava le braccia come un mulino a vento, in segno d’allegrezza e di avviso. Anch’essa allora si mosse speditamente verso di noi, che potemmo vedere la sua faccia arsa dal sole, ma di fattezze piacevoli, e indovinare un punto interrogativo, appiattato dietro a quegli occhi rispettosamente dimessi.

— Madre mia, — le gridò Cesarino con quanto fiato ci aveva in corpo, — sono due forestieri! — E siccome nel suo comprendonio dovette parergli che ciò non bastasse, fece questa giudiziosa nota in margine:

— Vogliono far colazione alla Gioiosa. —

Io, con un accorgimento non minore del suo, intesi subito che doveva esser quello il nome del podere in cui eravamo. E mi parve anche un nome di buon augurio.

La donna intanto s’era avvicinata, e al figlio, che andava ripetendole la grande notizia, gittò un’occhiata rubesta, come se volesse dirgli: che diavolo t’ha soffiato di portarli qua per far colazione, balordo? Qui non è mica un albergo!

Senonchè, la mia compagna di viaggio fu pronta a rimediare con quattro delle sue buone parole.

— Buona donna, vostro figlio non vi dice tutto. Siamo viaggiatori. Il vostro paese ci è piaciuto, e siamo smontati per godervi un po’ di quiete campagnola. Eccovi anche perchè non abbiamo voluto andare alla locanda. La Gioiosa, del resto, è un luogo così bello!...

— Ma, signora.... — entrò a dire ammansata la contadina; — noi non abbiamo niente da offrirvi.... che sia degno di gran signori....

— Oh basta! non v’inquietate per questo. Una tazza di latte, un po’ di pane, una pesca, eccovi tre cose buonissime, che Iddio ha fatte per tutti, senza distinzione di grado.

— Se si contentano.... — ripigliò la contadina, stringendosi nelle spalle.

— E poi, — interruppi io, intromettendomi colla mia autorità mascolina e col peso di un argomento assai persuasivo, — togliete questo, e fatevi onore. Siamo anche capaci di desinare nella vostra cucina. —

La donna sbirciò la moneta che io le avevo fatta scorrere tra le dita, e più assai che non luccicasse il metallo le brillarono gli occhi. Povera gente della gleba! Non è per essi il danaro assai più che per noi, il conforto agli stenti e alle privazioni, la provvista di riserbo per le annate cattive? E non possono guardarlo con quella cupidigia di cui l’onoriamo noi stessi, a cui tante volte, anzi il più delle volte, sopravanza i bisogni?

— Oh, mia signora, non è già pel danaro; — disse la povera donna tutta confusa; — gli è che noi siamo gente di campagna e non sappiamo come si ricevono i gran signori. La casa non è degna di voi. Sono una povera vedova; lavoro per me e per l’altro che è andato ad aspettarmi. Compatirete.... Oh, Madonna! Se me lo fossi immaginato, avrei messa un po’ in sesto la casa. —

Dopo queste ed altre smozzicature di frasi, la contadina si accostò al figlio e gli bisbigliò alcune parole all’orecchio. Cesarino, appena l’ebbe udita, si spiccò da noi, veloce come una saetta, e sparì.

Noi, seguitando la donna, giungemmo ad un rialto, su cui era la casetta bianca intravveduta pur dianzi fra gli alberi. Umile, ma graziosa all’aspetto, doveva aver servito a qualche famiglia cittadina innanzi di cadere in rusticità. Difatti, sotto un pergolato che copriva intera una piccola aia, nascondendo agli occhi le finestre del pian di sopra, si scorgeva un uscio nobilitato da due gradini e da due stipiti di arenaria, che s’ingegnava di far le veci del marmo. Gli stipiti volevano l’architrave; e questo c’era per l’appunto, con due rosoni grossamente scolpiti sui lati e una cartella nel mezzo, che poteva spiccicarsi ancora, sebbene parecchie lettere fossero guaste dal tempo.

— Ah! ah! — sclamai. — Ci abbiamo il lusso d’una iscrizione latina. Parva sed apta mihi.

— E vuol dire?... — domandò la mia bella compagna.

— Piccola, ma acconcia per me. Filosofia di un uomo di mezza fortuna! Del resto, chi si contenta gode, e dice il toscano: Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia. C’è nel mio paese un edifizio privato, come a dire una voglia di palazzo, sulla cui porta è espresso in forma classica il medesimo concetto: «A chi nulla desia soverchia il poco;» e un mio zio canonico ha fatto scolpire sull’ingresso di un suo villino: morituro satis, cioè a dire: abbastanza, per chi c’è di passaggio. —

La contadina mi stava a sentire con tanto d’orecchi. Io ero cresciuto nella sua stima di venti cubiti almeno.

— Mio signore, — diss’ella, tirando la somma, — voi sapete il latino come monsignor vescovo, che si è fermato a leggere su quella pietra, quando è venuto a dormire alla Castellana.

— Che cos’è questa Castellana?

— Il palazzo. È più in là, dietro la costa. Ci si va, seguitando il viale. La Gioiosa, la Castellana e la Puliga, fan tutto un podere, che appartiene al signor conte Maggi, il più ricco di Grottamare e di tutti gli altri paesi all’ingiro. Ma egli non ci abita mai.

— È il mio uomo! — dissi tra me. E a voce alta proseguii:

— È giovane questo conte Maggi?

— Sissignore; avrà trentacinque anni a san Michele benedetto. È un bell’uomo, come voi....

— Grazie! — diss’io, inchinandomi.

— Ma più alto cinque dita; — proseguì la contadina. — Anche lui viaggia spesso; ci ha l’argento vivo addosso, e perciò non ha mai voluto accasarsi.

— E dove abita? ad Ancona?

— Nossignora, a Macerata. Qui ci viene una volta l’anno, per aggiustare i conti col fattore.

— Macerata! — ripetei dentro di me. — Quell’altro deve abitare in Ancona. Non per niente gli è uscito di bocca quel nome. —

E per averne l’intiero, seguitai l’interrogatorio.

— È bruno? porta la barba così, sulle guance?

— No, solamente i mustacchi e il pizzo. È biondo come lo era la contessa sua madre, buon’anima sua. — Non era dunque lui. L’onore della Castellana e della Gioiosa era salvo.

— Vuol dire, — continuai, — che il palazzo è chiuso?

— Sì, ma il conte lo affitta qualche volta. Quest’anno, per altro, non c’è venuto nessuno. Che volete? Il paese è povero, fuori di mano, e i forestieri che cosa ci verrebbero a fare? —

Intanto eravamo entrati. Il vestibolo, o sala terrena, che doveva servire a molti usi, come dinotavano le più svariate sorte di masserizie, era in buonissimo assetto e dimostrava che la padrona di casa era una donnina di buon governo. Il poco rame della cucina, appeso alla parete di fondo, era lucente come uno specchio; il vasellame di maiolica, disposto in bell’ordine sulla rastrelliera fermata al muro, invitava ad aver confidenza colle stoviglie di casa. Unico ingombro, che la contadina, appena entrata colà, fu sollecita a levare di mezzo, era un tagliere con suvvi qualche rimasuglio di polenta, testimonianza della frugalissima colazione fatta pur dianzi dalla madre e dal figlio.

Ci sedemmo su due scranne, tirate fuori sul limitare dell’uscio, mentre la contadina si affrettava ad apparecchiare la tavola. I miei occhi pieni di desiderio cercavano quelli della mia bella compagna, che andavano errando curiosamente in giro, beandosi nell’aspetto dei campi, per quanto era dato vederne attraverso la vigna di rincontro.

— Ah, si potesse, — esclamai sospirando, — invecchiare qui tutti e due, come Filémone e Bauci!

— Chi erano? — dimandò ella, volgendo a me i suoi begli occhi ridenti.

— Due innamorati del buon tempo antico, signora. Ospitarono Giove nella loro capanna, e n’ebbero in premio di poter invecchiare amandosi sempre e di non sopravvivere l’uno all’altro. Il Dio mantenne la promessa, poichè giunsero, amanti sempre, ad una tarda vecchiaia. Nè a ciò si ristrinsero le grazie di Giove. Un bel dì, mentre stavano per l’appunto, come noi qui, davanti alla soglia del loro modesto abituro, ricordando i celesti favori, si avvidero di una gran metamorfosi che si operava in esso loro. Filémone doventava una quercia; Bauci si trasformava in un tiglio. Intesero che quello era il fine aspettato, si diedero l’ultimo abbraccio, e il giorno seguente vide i due alberi intrecciare i rami amorosi davanti all’ingresso della capanna, tramutata in un tempio.

— Sempre insieme! — notò ella, ammirata. — Il vostro Filémone doveva essere d’una costanza in amore, che gli uomini non hanno imitato da poi.

— Scusate; e Bauci punto civetta.

— Ah, credete proprio che sia la civetteria delle donne quella che spegne l’amore nel petto degli uomini?

— Io sì: almeno, a me non mi ci vorrebbe altro per contristarmi dapprima, e per farmi correre poi cento miglia lontano.

— Voglio credervi; — diss’ella, dopo un istante di pausa. — Già, siete così strano, voi, nel vostro modo di pensare!

— Ed è forse cattivo?

— No; sono anzi del vostro parere. In molte cose io non approvo il mio sesso. Se amassi, — (e dicendo questo ella chinò involontariamente gli occhi, arrossendo), — sarei meno audace e più schietta. Infatti, non è egli il colmo dell’audacia e della sfrontatezza questo scherzare col fuoco, stuzzicare la gelosia di un uomo e dargli argomento a pensare che, con tanti vezzi di qua e di là, potevamo fare da senno?

— Come è giusto ciò che dite! Ma le vostre sorelle in Eva non la intendono a questo modo, e seguiteranno a credere che una savia dissimulazione è il colmo della virtù, che la facilità del fingere e il gusto di tormentare non sono male pieghe del carattere, e finalmente che l’amore, dimezzato da mille dispettucci, da mille civetterie, è quintessenza di beatitudine.

— Vi riscaldate, mi pare! — notò ella, ridendo d’un certo suo risolino sottile, che mal nascondeva un principio di stizza. — Si direbbe che siate passato da quelle parti anche voi.

— No, signora, vi prego a crederlo. Guardatemi negli occhi, se mento. Il mio cuore è libero da un pezzo, o, per dire più veramente, è stato libero fino a stanotte. Sapete pure; si è vissuti la parte nostra.... sotto i cessati governi; e le considerazioni che ho fatte non sono altro che lo stillato di una lontana esperienza.... —

Così cinguettavamo tra noi, quando la contadina venne a chiamarci per la colazione.

— Sposi novelli! — diss’ella, notando la nostra assiduità chiacchierina.

— Sicuro, brava donna; viaggio di nozze.

— Beati voi! — esclamò ella, in forma di conchiusione.

E trasse un sospirone dal petto. Pensava alla sua gioventù, la poveretta, ed al suo uomo che non era più là.

Io, detta la mia brava bugìa, mi provai a guardare la mia leggiadra vicina. Cominciai, s’intende, colla coda dell’occhio; indi, veduto che ella non ci aveva aria di giudichessa, mi feci animo a squadrarla e me ne diedi una satolla senz’altro.

Ella era vermiglia nell’aspetto come una ciliegia maggese, vermiglia dalla radice dei capegli alla radice del collo. I purissimi lineamenti del suo viso di madonna, così dolcemente aspersi d’incarnato, acquistavano un lume nuovo allo sguardo. Sotto quel fine involucro di rosa io vedevo scorrere la salute, e da quegli impercettibili meati, cui timidamente indicava il limpido madore onde li aveva spruzzati la verecondia commossa, mi veniva come un alito, una fragranza di voluttà. Esprimo a fatica il concetto; ma ognuno che abbia molto amato, e molto guardato da vicino, m’intende. Dirò, a farla breve, che io ne fui inebbriato, che il sangue mi rifluì d’improvviso alla testa, recandomi alle labbra i sensi gagliardi del cuore, affinati nella più acuta forma d’adorazione, che per l’appunto ha il nome di giaculatoria, nella pittoresca energia del linguaggio di chiesa.

— Come siete bella! — le dissi, a voce sommessa, ma con una intensità di accento, che per fermo la scosse nel più profondo dell’anima.

— È vecchia! — mi rispose ella, sforzandosi di volgerla in celia.

— Come il buon dì, signora: e tuttavia si seguita a darlo; e nessuno ci trova a ridire. Abbiate dunque.... il buon dì!

— Grazie, altrettanto a voi! — replicò ella, ridendo questa volta di cuore.

Intanto il desco era in ordine. La contadina aveva spiegato per quella occasione una tovaglia di bucato. Il latte fumava nel bricco. Messer Cesarino era venuto pur dianzi, tutto ansimante e glorioso, con un suo fardellino, dal quale aveva cavato il pan fresco a piccie, e subito era sgattaiolato nell’orto, donde tornava poco stante con una bracciata di pesche, vistose, colorite e fragranti come lei, come lei!

Ella ricordò sorridendo alcune mie parole della notte.

— Vi rammentate? «I cardellini mangiano, come tutte le creature di Dio; e il mangiare, quando sia fatto a modo, non è mica un’orrida cosa.»

— Soprattutto, — volli aggiungere, — quando la cardellina è così....

— Buon dì; ho capito, buon dì! — interruppe ella, pigliandosi spasso dei fatti miei.

Ma rideva così leggiadramente, che io non seppi avermelo a male.

Sedemmo al desco frugale. Ella aveva appetito e mangiò allegramente; io del pari, sebbene, più che a nutrire lo stomaco, inchinassi a pascere il cuore, divorando la mia vicina cogli occhi. Del resto, debbo dire una cosa, un tal po’ materiale, ma che qui non istuona; non c’è niente come la vista di una bella donna che si ama, per destar l’allegria; non quella spumosa, chiassosa ed effimera delle mascoline combibbie, ma quella sana e profonda di un caro ritrovo, che lascia la mente libera e fresca, e ci fa spaziare ad occhi aperti e con piena coscienza di noi medesimi, nella vaporosa regione dei sogni.

Dolci ore passate alla mensa campestre, consolate dai tiepidi effluvii della rigogliosa natura, avvivate dai sorrisi della fiorente bellezza! Come valgono a rinfrancare lo spirito! E come si ricordano volentieri, come si richiamano in buon punto, sprazzi di luce, lembi sereni del cielo, in mezzo alle torbide cure, ai molesti sopraccapi ond’è nera la vita!

L’ingegno più tormentato del mondo, così tormentato che gli parve d’averne la testa intronata fino a tanto che visse, Gian Giacomo Rousseau, dico, derivò da simiglianti ricordi la più bella pagina delle sue Confessioni dolorosamente immortali. La rammento volentieri, anche a costo di far impallidire la povertà de’ miei colori. Per me, non c’è niente di più grato, si pensi, o scriva, che ricordare ciò che altri ha pensato o scritto di bello.

È vero, per contro, nè lo spirito del gran ginevrino vorrà adontarsene, che la mia vicina era più bella a gran pezza e più nobile della sua signora di Warens.

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