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VII.
— Voi dunque dicevate, la mia brava donnina, — ripigliai nello alzarmi da tavola, — che il conte Maggi ha il suo palazzo....
— Dietro la costa, a un quarto d’ora di qui. Non c’è che da seguitar la carraia.
— Se andassimo a vederlo! Che ve ne pare? — dimandai, volgendomi alla mia bella compagna, che assentì con un cenno del capo.
— Oh, vedrete! — gridò la contadina, approvando la nostra deliberazione. — Quello è un luogo proprio degno dei gran signori che. siete. E bisogna veder dentro, bisogna; vi par d’essere in chiesa, quando c’è i paramenti. La signora contessa, madre del signor Flaminio, nostro padrone, ci ha passato, poverina, tutta la sua gioventù. Per questo, gli appartamenti sono tutti in ordine, che non ci manca proprio nulla, tranne il sale nel bossolo. Non fo per dire, ma se ci veniste ad abitare voi, ci trovereste ogni cosa secondo il bisogno, per fino la culla pel primo....
— Basta, basta! — interruppi, dando in uno scoppio di risa, così per la bizzarria dell’osservazione, come per levare d’impaccio la signora, che cominciava ad essere sulle spine. — Andiamo dunque a vedere il palazzo. —
La mia compagna colse l’invito al volo, e, aggiustatosi il cappellino sulla testa, uscì con passo leggiero sull’aia, dove mi attese per appoggiarsi al mio braccio.
— Buona passeggiata! — ci disse la contadina. — Mentre voi andate, Cesarino corre innanzi dal castaldo per le chiavi. Il castaldo abita alla Puliga, e prima che voi giungiate alla Castellana, sarà ai vostri comandi.
— No, non occorre! — gridò la signora, trattenendo Cesarino col gesto. — Non vogliamo entrar nel palazzo, per ora. Si passeggia all’aperto.
— Come volete; — rispose la contadina, stringendosi nelle spalle; — sarà per un’altra volta. Cesarino starà invece a custodire la casa, aspettandovi, mentre io arrivo al paese, per fare la spesa.
— Sì, sì, come vi pare; — aggiunsi io, salutando.
E pigliata la mia bella compagna al braccio, mi posi con essa allegramente in cammino. Per altro, non correvamo tanto da non sentire i discorsi con cui la brava donna ci stava accompagnando dall’uscio.
— Madonna, che gran signori! E punto superbiosi! Come ci sanno stare, colla povera gente! Già, novanta su cento, chi è bello di fuori è buono di dentro. —
— Sentite, — diss’io sottovoce alla mia compagna. — Si parla di voi...
E non potei, mentr’ella mi rispondeva qualche grazioso nonnulla, trattenermi dal chiedere a me stesso donde mai il popolo traesse que’ suoi detti sugosi, or festevoli, or gravi, ma quasi sempre veri, e quella forma snella, incisiva e poetica, che li fa parer sempre più sugosi e più veri.
Da questo pensiero, come rendimento di grazie alle cortesie di quella povera donna, tornai colla mente e col cuore alla divina creatura che si appoggiava al mio braccio. Parole non se ne facevano, o poche. Si andava innanzi, pieni di quella allegrezza che, profonda com’è, ama anzitutto il silenzio: si respirava con voluttà quell’aria tiepida e pura, si guardava con occhi rapiti quel limpido zaffiro dei cieli e quello smeraldo scintillante dei prati; salutando di passata le farfalle che aliavano, inseguendosi capricciose, tra i filari della vigna, o ascoltando macchinalmente il ronzìo degl’insetti, testimonianza d’una vita molteplice e possente, di gaudii e di amori, che rispondevano ai nostri. L’andare così, in simile compagnia, tra siffatti pensieri ed immagini, è un viver da senno; direi quasi che è un pregare, se è vero che sia preghiera ogni elevazione dello spirito all’intima, suprema ed eterna ragione delle cose.
Giungemmo, così pensosi, in vista della Castellana. Sorgeva il palazzo sul colmo di un poggio, alle cui falde s’inoltrava in dolce salita il viale, per riuscire sulla spianata, al fianco sinistro dell’edificio. Quella spianata teneva del piazzale e del giardino ad un tempo, essendo sui lati partita ad aiuole, piantate di cespugli e di fiori, ed ignuda nel mezzo, senz’altro ornamento che una vasca circolare, i cui orli si ragguagliavano al suolo, e d’onde sporgeva sulle anche un tritone verdognolo, colla sua conca marina alle labbra, cinto all’intorno da larghe foglie di ninfèa, galleggianti a fior d’acqua. Ma nelle aiuole mancavano i più nobili capi della odorosa famiglia; i cespugli erano rose del Bengala e mortelle; i fiori erano violacciocchi e girasoli. Il terreno, non più sparso di ghiaia, come s’usa ne’ viali e nelle redole tortuose de’ giardini signorili, si era chiazzato qua e là di gramigna e di musco. Anche il tritone, da lungo tempo (e lo indicava la vellosa aridità dei licheni che gli fiorivano le membra) aveva smesso di soffiar acqua dalla sua conca marina. Effetti dell’abbandono in cui era lasciato quel luogo.
Pure, tanta è la virtù della natura che il luogo non ne aveva aria di squallore. Alle bellezze eleganti, e, sto per dire, azzimate della flora trascelta, erano sottentrate le libere e vigorose bellezze della flora selvatica. Quei cespugli frondeggiavano rigogliosi; quei fiori s’intrecciavano in amorevole dimestichezza con mille generazioni di erbe campestri; que’ muschi e quelle gramigne ond’era infeltrito il terreno, facevano un pulvinato su cui si spegneva il suono dei passi, per modo che il tritone paresse non avvedersi della venuta dei profani, e seguitare tranquillo la ridevole impresa di gonfiar le gote nel nicchio, senza cavarne alcun suono. Nè tutto era muto all’intorno, come la sua conca marina; non era muto il sole, i cui riflessi tremolavano da tutte le foglie dei cespugli, scintillavano sui fili dell’erba, o guizzavano sulle acque chete della vasca; non era muta l’aria, scossa dall’operoso ronzìo degli insetti, o dal frullo delle libellule, volanti a guisa di frecce; non era muto lo stuolo delle cicale, che frinivano assidue dai tronchi degli alberi. Povere cicale! Tornano così moleste, quando ci si pensa; poi, a quel loro uniforme stridìo ci si fa tanto l’orecchio, che, quando per avventura si chetano, se n’ha come un senso spiacevole al cuore, e l’ora meridiana par morta. I Greci, popoli di artisti e di pensatori, le amavano; Anacreonte le celebrò da par suo in un soavissimo canto.
Il palazzo era una mole quadrata, a due piani, con cinque finestre di fronte, il tetto d’embrici, a quattro acque, col suo comignolo assai rilevato e le gronde molto sporgenti sulle soffitte, che n’erano quasi nascoste a chi lo avesse veduto un po’ da lontano. La facciata era semplice e sarebbe parsa molto povera a cui piacciono i marmi, gli ornati, i colori; essa infatti non metteva in mostra che l’uniforme e pallida arricciatura dell’intonaco. Senonchè, le davano risalto le forme severe del complesso, l’ampiezza delle finestre, le persiane ritinte di fresco, e finalmente un atrio davanti al portone, specie di loggia sorretta da due colonne, che faceva arco sull’ingresso, e terrazzo ad una finestra del primo piano. Era all’aspetto un assai nobile edifizio, e quella sua tinta bigia di calce e di rena impastate si accordava benissimo col verde dei prati e col grigio delle balze vicine. Piantato lassù, il palazzo dei conti Maggi aveva l’aria d’un di que’ manieri, in cui si ritraevano a passar gli ultimi anni di una torbida vita que’ signorotti e capitani di ventura, così numerosi nelle Marche, usciti pur dianzi dal volgo e già schivi di vivere con esso lui sulla popolosa marina.
A noi, per altro, più del palazzo, piacque la vista che di lassù si godeva. Non case di rincontro o sui lati, nè file di monti a nascondere l’orizzonte. Boschi avevamo alle spalle, su pel dorso delle montagne; balze verdeggianti sui lati, con qualche lembo di terra coltivato a rittochina, come portava il pendìo; davanti ai nostri occhi si dilungavano i vigneti; indi la costiera piegava ripida al basso, nascondendoci la strada e una parte della spiaggia, su cui erano tirate in secco le barche, o distese le reti dei pescatori; più oltre il mare limpido e cheto, con qualche vela immobile sugli estremi confini, dove esso sembrava confondersi, in una sfumatura di luce e di vapori, col cielo.
Quella solitudine, splendidamente severa in estate, doveva essere malinconica oltre ogni dire nella fredda stagione. Pure la contessa madre, a detta della contadina di Gioiosa, ci aveva passati tanti anni, e per l’appunto i più belli della sua vita. Di certo ella era stata una degna gentildonna, amica della quiete, o rassegnata a quel lungo silenzio. Il marito, dicevo io alla mia bella compagna, avrà pur fatte di tanto in tanto le sue corse in città, le sue gite per un verso o per l’altro, magari anche fuori dei felicissimi Stati. Ma lei no, la povera castellana; costretta a baloccarsi sempre fra due o tre passatempi, a contar le vele sul mare, o le gocce d’acqua sui vetri, a leggere, per far poi di ricamo, a smetter l’ago per ripigliare il libro e poi ancora a smettere il libro per farsi da capo al ricamo. L’uomo, dopo tutto, anche in campagna e nel cuor dell’inverno, trova modo a godersela; calza alla svelta un paio di uose, infila una cacciatora, si butta un fucile in ispalla e va in busca di selvaggina, e d’appetito per l’ora del pranzo.
— Non amerei un uomo che andasse a caccia; — mi disse la mia bella compagna.
— Dovete dunque amar me, che l’abomino; — soggiunsi prontamente. — Ci ho anzi degli amici che non mi perdoneranno mai questo ribrezzo invincibile.
— Bene! — gridò ella con accento tra festevole e sarcastico. — E vorreste farvi un merito con me del vostro ribrezzo? Io non la intendo così; intendo che l’uomo di cui parliamo abbia ad astenersene... per me. —
Rimasi un po’ sconcertato da quella risposta.
— Ecco un omaggio che io non potrei farvi, o signora. Dove non è passione, non è sacrifizio. Ah, vorrei essere Nembrotte, il gran cacciatore nel cospetto di Dio, per deporre a’ vostri piedi il fucile, e per sempre. —
Queste erano inezie, frascherie, armeggiamenti senza costrutto. Ma io non so dar loro il colorito, donde acquistavano tanto rilievo per noi. Ella era di un umore giocondo e scherzevole, a cui davano risalto certe velature di malinconia, nuvolette viatrici che di tanto in tanto ascondevano il sole, quasi a farlo parere ne’ suoi ritorni più bello.
Perciò, inetto a disporre in bella vista, a lumeggiare acconciamente tutti quei graziosi nonnulla che hanno un pregio soltanto per chi c’è stato in mezzo e li ha avuti, a dir così, di prima mano, non racconterò altro di quella gita, nè del ritorno, nè del gaio desinare sotto la pergola, nè dell’umor chiacchierino della nostra ospite rusticana, che spesso co’ suoi complimenti ed augurii metteva la mia compagna a disagio; nè delle amabili scioccherie di messer Cesarino, nè d’altre consimili occupazioni che fecero passar la giornata a guisa d’un lampo. Gli è così che passano tutte, per la gente felice. E chi non n’ha avuto di somiglianti nella sua vita? Chi non è stato, una volta almeno, e nella sua misura, felice?
Frattanto, ella non aveva più fatto cenno, nè mostrato di ricordarsi della cagione che ci teneva colà, dopo avere interrotto il nostro viaggio. Ora, se ella taceva, era anche più naturale che non fiatassi io. Mi tornava alla mente quel filo di ragnatelo che i musulmani dicono esser teso a mo’ di ponte sull’abisso per condurre i credenti alle beatitudini del paradiso. Anche la mia felicità poggiava su d’un filo; se questo mi si rompeva, povero a me, precipitavo nel bàratro.
Per altro, venne la notte, e, quantunque a malincuore, dovetti pure annunziarle che andavo alla stazione, per l’arrivo del treno di Bologna. Ella balzò in piedi sollecita e mi rispose: andiamo!
Mi opposi, com’era naturale che facessi, al suo desiderio; ma ella teneva fermo, voleva ad ogni costo seguirmi.
— Qualunque cosa avvenga, correrò a darvene avviso; — ripigliai con fermezza; — ma voi non potete, per la mia tranquillità, non dovete, per la vostra dignità, farvi scorgere laggiù. Rimanete; io ve ne supplico. —
Ella si arrese finalmente alle mie ragioni, e più ancora al mio accento di preghiera, e ricadde, senza far motto, sulla sua scranna. Io colsi il buon punto per uscire di là.
Erano già passate le nove e mezzo, e non c’era tempo da perdere. Feci tutta d’un fiato la via dalla Gioiosa alla strada ferrata. Colà, dimandai ed ottenni licenza di entrare, per attendere sul marciapiede della stazione l’arrivo del treno. Aspettavo un amico, s’intende; e che amico! Poi, c’era da riscontrare l’arrivo delle nostre valigie, domandate la mattina per telegrafo alla stazione di Bologna.
Da forse quindici minuti facevo le volte del leone su quella breve lista d’asfalto, quando un suono lontano di corno e subito dopo il fischio della vaporiera annunziarono l’arrivo del treno. Io mi piantai nel mezzo, in prossimità del fanale, per modo che la luce mi desse sul volto e mi facesse scorgere più presto al viaggiatore aspettato.
Ma fu vana sollecitudine e aspettazione più vana. Nessuno discese. Discesero bensì le nostre valigie, che io, non sapendo lì per lì come spiegarne il ritorno alla mia compagna di viaggio, lasciai in custodia al capostazione, dicendogli che le avremmo ritirate, o fatte tornare con noi a Bologna il mattino seguente.
Il mio avversario era sfumato. Non era dunque il sonno, ma un deliberato proposito di cansare il pericolo, che lo aveva fatto tirar via fino ad Ancona, e chi sa, fors’anco più oltre. Ma allora, che bisogno c’era di darmi la posta in quell’angolo oscuro di terra? Che bisogno! La rabbia del momento, forse; poi, la presenza di una donna, davanti a cui nessuno ama parer da meno di un altro; poi infine, a che stillarmi il cervello? Non dovevo io intenderlo a bella prima, che avevo a che fare con uno spaccone?
E tuttavia mi rodevo, mi ci guastavo il sangue, digrignavo i denti come una fiera delusa del pasto. E perchè? Tornandoci su a mente fredda, credo che tutta la mia stizza nascesse dal pensiero di dover partire il giorno vegnente. Difatti, quale altra ragione, o pretesto, mi avrebbe soccorso, per farci rimanere laggiù, in quell’angolo oscuro di terra?
Tornai, con quella rabbia nell’anima, alla Gioiosa. Ella di certo stava in ascolto, poichè al suono de’ miei passi affrettati sulla carraia, balzò fuori dalla soglia per muovermi incontro.
— Or bene? — mi domandò, senza pure lasciarmi il tempo di entrare.
— Nessuno, signora; — risposi. — Ho fatta la strada inutilmente. —
Ella alzò gli occhi al cielo e respirò, come liberata da una grande oppressura. Afferrai le sue mani, che ella mi abbandonò, nel turbamento in cui era. Mi parvero fredde come il marmo. Ad un tratto le sentii diventare di fuoco.
— Figli miei, — diceva frattanto la contadina, con una sua dimestichezza tutta materna, — avete ragione a volervi bene, perchè siete proprio fatti l’uno per l’altro. Ma non bisogna perder la testa così. Lo dicevo per l’appunto or ora alla signora, che non doveva affannarsi tanto per un’assenza di pochi minuti. Madonna santissima! Che cosa sarà, quando, mettiamo il caso, voi dovrete per qualche faccenda star fuori una settimana? —
La buona donna seguitava a parlare, ma io non udii più altro. Mi accostai alla signora, che era rimasta tutta confusa, cogli occhi bassi, e le domandai:
— Avete pianto? e perchè? —
— Amico mio, non me lo chiedete: — mormorò ella smarrita; — pensavo a troppe cose.... che non possono interessarvi.... —
E chinò la fronte, senza spiegarsi di più.
Io ero rimasto di sasso.
— Non possono...interessarmi! — esclamai.
Ma detto ciò, come a ripetizione involontaria della sua frase, non volli, o non potei, proseguire il discorso. Sentivo ferita da quelle parole la parte migliore dell’esser mio; sentivo il cuore inondarmisi di amarezza e un empito di rabbia farmi groppo alla gola. Però, non sapendo contenermi più oltre, mi tolsi incontanente di là, e, uscito sull’aia, mi sprofondai nelle tenebre del pergolato. In quel punto ero così fuori di me, che, a trovar nulla nulla contrastato il mio pessimo umore, avrei dato in non so quali follìe. Correvo alla impazzata su e giù, stringendo i pugni e ruggendo; le parole, che mi uscivano rotte dal labbro, dovevano essere di bestemmia. Avevo un bel fare, io, con tutta la mia sconfinata passione; ero uno straniero per lei; ella pensava a cose che non potevano interessarmi. Non potevano! Era quella una forma più levigata di discorso, per farmi sentire che non dovevano esser sapute da me. Ecco dunque; io avevo dato ciecamente il mio cuore a quella donna; le avevo profferta la mia vita senza esitare un istante; e c’era un picciol mondo intorno a lei, pieno di lei, che io non dovevo conoscere; un santuario di pensieri, e di pensieri che avevano la virtù di far piangere, nel quale non doveva addentrarsi il mio sguardo profano. Morte e dannazione! Era questo l’amore, quale io lo intendevo? Oh come è vero, che la donna a ritrarne i conforti in ragione delle pene che ci costa, è mestieri possederla intiera! O tutto, o nulla; è impresa da uomini. Tra questi due termini, che c’è egli da sperare? Il più ed il meno; gran mercé! Il più ed il meno, con tutte le loro piccole vanità soddisfatte, con tutti i patti vergognosi della coscienza, che, pur di appagare i sensi infiammati, rinnegherebbe sè stessa!
E dopo tutto, che diritto avevo io a sapere il perchè delle sue lagrime? Mi amava ella? Mi aveva ella dato, in un caro abbandono di sè stessa, l’autorità di leggere nel suo cuore, d’indagarvi le tracce di un rivale, forse non al tutto cancellate, di tormentare insomma me stesso e lei colle ombre del passato, coi dubbi del presente e colle ansietà del futuro? No, nessuna parola mi aveva ella detto che cangiasse la mia speranza in certezza; anche la mia speranza poteva esser follìa; vivevo tra desiderio e timore; quell’ora medesima, piena di tante dubbiezze per me, era anche la più pericolosa per ambedue; potevo infatti, da un momento all’altro, essere il più felice, o il più triste degli uomini, parere a me stesso argomento d’invidia, o di scherno.
Non so da quanto tempo io m’andassi crucciando a quel modo, quando mi venne udito il fruscio d’una veste e un passo leggiero sul viale. Il cuore mi diede un sobbalzo nel petto; mi pentii della mia sciocca sfuriata e stetti tremante in ascolto. Avrei voluto soffocare i battiti del mio cuore, estinguere financo il respiro, pur di non perdere un nulla di quel lieve fruscio, che mi annunziava l’avvicinarsi di lei.
Era ella difatti. Giunta a pochi passi da me, rimase alquanto perplessa, come per raccapezzarsi nel buio; ma subito dopo mi scorse, fors’anco udì il mio respiro affannoso, indovinò il turbamento che mi teneva immobile e muto davanti a lei, e si affrettò alla mia volta. Io sentii la sua mano posarsi sul mio braccio; a quel tocco, un senso di arcana tenerezza mi corse per tutte le vene; volli parlare, ma la voce mi si spense in un singhiozzo e quella mano, che io avevo afferrata per recarla alle labbra, s’inumidì delle calde mie lagrime.
— Suvvia, non mi fate così! — diss’ella, con accento di affettuoso rimprovero. — Se sapeste quanto mi addolorate! Ve ne prego, siate ragionevole; abbiate senno per voi e per me; pensate alla mia condizione, allo stato nostro, ai casi, che ci hanno condotti fin qua. Che vi par egli di tutto ciò che è avvenuto? Potevo io prevedere questi capricci della sorte? Dovevo io rimanere al mio posto, partire tranquillamente, col pensiero di aver cagionato uno scontro tra due uomini che, se io non ero, non si sarebbero mai conosciuti? E adesso, che sono io qui? Che cosa dovrò io sembrarvi, se non una donna leggiera? —
Così parlando, con voce soffocata dalla commozione, ella pareva vergognarsi dei pensieri cui era costretta a dar forma. Le ultime parole, che volevano esprimere assai più che non dicessero, le uscirono a stento dalle labbra, ed io, più che udirle intiere, le indovinai tra i singhiozzi.
N’ebbi una scossa dolorosa; ma in quella scossa andò squarciato il velo che mi offuscava lo spirito. La passione, ond’ero tutto compreso, mi fece eloquente, di quella eloquenza che è tutta nell’accento della verità, di quella eloquenza che discopre alla libera i più intimi recessi dell’anima.
— Signora, e siete voi che parlate così? Dubitate di me, voi, che mi avete conosciuto in poche ore di colloquio più che altri non farebbero in dieci anni di vita? Qua, la vostra mano sul mio cuore! È il cuore di un uomo leale, di un uomo che quando non può dir cosa gradita si costringe al silenzio, ma non si è macchiato mai le labbra con una menzogna. E credete dunque che io possa far così poca stima di voi? No, non è vero, non lo credete. Ditemi che è così; ditemi che una nube importuna vi è passata sugli occhi, e che ora ella si è dileguata. Abbiate fede in me, ve ne supplico; se io non vi tenessi per una gentildonna, degna di tutto il mio rispetto come di tutto l’amor mio, non sarei qui ai vostri piedi, per implorare la vostra fiducia, per scongiurarvi di ritornare in voi stessa.
— Me lo giurate? — diss’ella con ardore, stringendo la mia mano tra le sue.
— Per la memoria di mia madre, che è in cielo; per mio padre, che amo e venero, ve lo giuro.
— Grazie; — rispose ella; — vi credo.
— State dunque di buon animo, — ripigliai, — sorridete! Io amo meglio la vostra celia che le vostre lagrime. Voi non dovrete più spargerne quind’innanzi per me.
— Non pensiamo al futuro! — soggiunse ella, con accento non bene raffidato.
E si strinse al mio braccio, come si sarebbe rifuggita al nido una colombella tremante. Non so donde mi venisse il pensiero; ma mi parve che il suo animo si trovasse ancora a disagio.