< Come un sogno
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VII IX

VIII.

Tornammo verso casa. La luna, che era già ben alta nel cielo, inondava di miti splendori la rustica dimora, e noi potevamo scorgere i vetri delle finestre al primo piano luccicare attraverso i pampini ond’era folta la pergola. Quanto a me, come fui davanti alla soglia, non mi venne fatto guardare senza trepidazione quel nido a noi dato dal caso. Parva sed apta mihi! Sì davvero, e più ancora! A me, coll’amore di quella donna che si appoggiava languidamente al mio braccio, sarebbe parsa una reggia.

La contadina ci accolse sorridendo. Quella poveretta non aveva certamente avuto col suo uomo tutti quegli armeggiamenti, che sono la quintessenza degli amori tra le persone a modo; ma i suoi dispettucci, le sue collere passeggiere, le sue paci, perchè no? Il sorriso benevolo che le stava sul volto voleva dirci senz’altro: conosco e so compatire; pensiero gentilissimo che quel gran mago di Virgilio ha espresso in una frase regale, per metterla sulle labbra della sua bella e infelice Didone.

— Venite; — diss’ella poscia; — avrete bisogno di riposare. —

E sollevando dal desco una lucernina d’ottone a quattro beccucci, che era un grande sfoggio per la sua casa, la contadina c’invitò a tenerle dietro per una scaletta interna, che metteva al pian di sopra. Io mi affrettai a seguirla, dando il braccio alla mia compagna, che mal si reggeva sui piedi; anzi a mezza scala sarebbe certamente caduta, se io non fossi stato pronto a sostenerla.

— Siete stanca ed avete sonno; — le dissi.

— No; piuttosto un po’ di freddo. — Difatti il suo braccio tremava sotto il mio.

— Forse l’aria della notte.... — balbettai, per mo’ di dire, ma pensando a tutt’altra cagione.

— Forse; — ripetè ella macchinalmente, con un filo di voce.

La nostra ospite, intanto, come fu sul pianerottolo, si volse a manca, e, tiratasi rispettosamente indietro, ci additò un uscio aperto. Era quello della sua camera.

— Il meglio della casa; — notò, con aria tutta vergognosa la contadina; — scuserete.... siamo povera gente....

— Che dite mai, la mia brava donnina? È un piccolo paradiso. Sentite, amica mia? Ci sa di gigli.

— Ah, sì; — soggiunse la contadina; — ho mandato il mio Cesarino a coglierne due ciocche, per metterle là sul canterano, davanti alla custodia di Santa Rosa. —

Difatti, sul coperchio di un cassettone di legno, che era in fondo alla camera, si vedeva una certa scarabattola di cristallo, entro la quale era raffigurata una grotta, con una monachella sdraiata, in atto di dormire; il tutto foggiato di cartapesta, salvo la testa e le mani della santa, che erano di cera, e le rose, i gelsomini, ond’era tutta fiorita la spelonca, che erano di tela colorata.

— E muove gli occhi; — entrò a dir Cesarino, che ci era venuto alle costole.

Così dicendo, il ragazzo era andato a tirare un congegno su d’un lato della custodia, per farmi vedere che la monachella apriva le palpebre, mostrando due occhioni lucenti di smalto.

— Lasciala dormire, poverina; non vedi che ha sonno? —

Cesarino lasciò incontanente la maglia del congegno, con gran soddisfazione di sua madre, che temeva di vederglielo trattare così liberamente.

— È in casa da vent’anni; — mi diceva la contadina; — me l’ha regalata il mio povero marito, il giorno della mia festa.

— Se non m’inganno, — ripigliai, — è santa Rosa di Lima. Vi chiamate Rosa, voi?

— Ai vostri comandi. —

Tutta la camera faceva testimonianza della medesima cura con cui era stata conservata quella reliquia dei primi anni di matrimonio. Poco lontano dal cassettone luccicava il forziere di legno intagliato, in cui le massaie della campagna custodiscono la biancheria e i loro abiti della domenica. Dall’altra parte, col capo a breve distanza dall’uscio, era il letto a due, grande a dirittura per tre, colla sua cassa in legno di noce, in spalliera da capo assai rilevata, la sua bella coperta di cambrì, il capezzale involto nel lembo superiore del lenzuolo e di due guanciali per giunta. La biancheria, candidissima e fragrante, che invitava al riposo, la secchiolina dell’acquasanta alla parete, con suvvi appesa la libbia, o ramoscello d’olivo benedetto, ancora fresco dell’ultima pasqua, e l’inginocchiatoio nell’anditino, dall’altra sponda del letto, facevano fede di quella lindezza, di quella sollecitudine, con cui la gente del contado suole abbellire su tutte le altre, e consacrare ad un tempo, la camera destinata al riposo.

— Ma voi, Rosa, — le dissi, dopo aver dato un’occhiata a tutte quelle cose, — dove andrete a dormire?

— Oh, mio figlio mi darà il suo letticciuolo, nella camera a riscontro di questa. Per lui ho già preparato uno stramazzo in fondo al corridoio. Non vi date pensiero di me. Così poteste star bene voi altri, e scusare la nostra povertà. Ma infine, — conchiuse ella, stringendosi nelle spalle, — poichè non vi è piaciuto di andare a star meglio.... poichè l’avete voluto!... —

Io, senza volerlo, corsi cogli occhi alla mia bella compagna. Le ultime parole della contadina andavano a lei, proprio a lei, che aveva scelto quel luogo. Ma ella in quel punto teneva gli occhi bassi e non si addiede di nulla.

Poco stante, la nostra ospite usciva dalla camera insieme col figlio, dopo averci augurata la buona notte. Per qualche tempo si udì ancora il rumore dei loro passi e il bisbiglio delle loro voci; indi, a poco a poco, bisbiglio e rumori cessarono, e il luogo, per dirla con una frase di Tommaso Gray, fu lasciato alla solitudine e a noi.

La mia compagna era rimasta seduta, come persona stanca, sulla proda del forziere, poco lunge dall’uscio. Io mi accostai rispettoso e la presi per mano.

Ardeva e tremava, quella povera mano; ardeva e tremava come per febbre. Al mio atto, la donna gentile si scosse, alzò lentamente le palpebre e mi guardò in viso. Il dubbio e la verecondia si riflettevano nelle sue pupille smarrite. Ed era bella così, bella di una nuova bellezza; di quella, io vo’ dire, che illumina il viso d’una debole creatura e ce la fa dieci volte più cara pel suo stesso abbandono.

Mi si abbacinarono gli occhi; sentii vacillare lo spirito, offuscato dall’ebbrezza, e feci uno sforzo grandissimo di volontà per comprimere quella furia d’affetti.

— Venite; — le dissi; — venite a contemplare quella splendidezza di cielo. —

Ella si arrese al mio invito, senza risponder parola; mi seguì, come avrebbe fatto un bambino.

Giungemmo alla finestra. Io dischiusi le imposte e la trassi al davanzale. Il balcone, come ho detto più sopra, dava sul pergolato, e tutto, davanti a noi, dal muro della casa fino al mare lontano, era un tessuto delle più svariate temperanze di verde, che s’infoscavano e si lumeggiavano, secondo i loro avvallamenti e le loro sporgenze, ai raggi dell’astro notturno.

Era una notte stupenda. La luna splendeva a mezzo il cielo, gloriosa del suo pieno disco, e col diffuso chiarore soverchiava la luce degli astri lontani, confondendone lo scintillìo in quella specie di polviscolo argentino, ond’era sparsa tutta la vôlta diafana del firmamento. Per contro, spiccavano netti e recisi tutti i contorni del paese sottostante, e guizzavano, lievemente increspate, le onde marine. Era una quiete universale, e tuttavia niente era sonno davanti a noi. Porgendo attentamente l’orecchio, si udivano stormire le frondi, agitate dalla brezza; si udiva il lene ed uniforme stridìo del grillo cantaiuolo, che esce la notte dalla sua buca, sotto il maggese, ov’è stato rimpiattato nel giorno, per pigliarsi la sua parte di aria e di luce. E non era poi una voce, anzi la più schietta e gradita, della sempre desta natura, quella vaporazione di sottili fragranze, che davano i fiori e l’erbe dei campi? Soave dolcezza, incantesimo, ebbrezza dei sensi, nessuna parola dirà, nessuna immagine varrà ad esprimere ciò che a noi era dato sentire.

Tratto tratto, da una frasca solitaria si udiva chiurlare l’assiuolo. Più lungi, ad intervalli, e quasi a stornare dall’invito del rapace la credula famiglia dei pennuti, un rosignuolo trillava la sua meravigliosa canzone. E il cielo splendeva amoroso; il mare commosso palpitava sotto quel nembo di luce; la brezza alitava di ramo in ramo, portando a noi le soavi fragranze dei fiori. Bella e santa natura, come sei grande quando regni tu sola, quando tacciono, interrotte dal sonno, le vanità, le ambizioni e le bizze degli uomini!

Da quella scena mirabile io ritraevo gli occhi a guardare, mutando incantesimo, il viso della mia bella compagna. Mai ninfa dei boschi apparve più leggiadra, nella valle di Tempe, sotto il tacito raggio di Cinzia, alla innamorata fantasia degli Elleni. Quel mite chiarore di cielo non spegneva già le rose del volto, nè il corallo delle labbra, o l’ebano delle morbide chiome, ma tutta la faceva risplendere del tremolo color delle perle.

E meglio d’una perla, non dava essa l’immagine di una Venere, uscita allora per me dalla conchiglia natale? Egli fu anzi un istante, che io, vedendola così immobile davanti a me, col suo capo dolcemente chino e le labbra semichiuse, la credetti una apparizione di quei classici tempi, e supplicai dentro in me lo spirito evocatore di quella forma divina, che non volesse farmela così presto sparire dagli occhi.

— Guardate, — le diss’io per uscire dalle difficoltà di quel lungo silenzio, — guardate che meraviglia di notte! Come sa la natura comporsi ad assetto di tranquilla bellezza, sotto gli occhi d’un angelo! In verità, io sono indotto a credere che qui si faccia festa per voi. Ma parlate, ve ne prego; fatemi riudire il suono della vostra voce; o penserò che siate una visione di sogno e che io debba da un momento all’altro svegliarmi, senza di voi, nella sconsolata solitudine della mia camera.

— Che debbo io dirvi? Non saprei... — balbettò ella con voce tremante.

Seguì un’altra pausa nel nostro colloquio. Ella era tornata al suo raccoglimento, si era richiusa da capo in sè stessa, come una sensitiva al subito contatto di una destra profana. Nè io, lì per lì, trovai parole a rappiccare il discorso. Scontento di me, non di lei, poichè la sua taciturnità chiaramente indicava un turbamento profondo, mi sentivo quanto lei, forse più di lei, a disagio.

Bene sapevo io quello che avrei fatto volentieri in quel punto. Mi sarei buttato ginocchioni a’ suoi piedi; avrei afferrate in un impeto di amorosa insania quelle candide mani di cui l’una si appoggiava al davanzale e l’altra ricadeva inerte sul fianco, e le avrei inondate di baci e di lagrime. Imperocchè l’amore è pianto, anche nel colmo delle sue allegrezze, come il raggiar della terra al cielo, ne’ suoi notturni rapimenti, è rugiada. E co’ miei baci, colle mie lagrime, avrei scosso quell’apparente torpore, avrei penetrato quel petto immobile e muto, avrei animata la statua. Senonchè, nel profondo dell’anima mia, il timore soverchiava l’audacia; un sospetto nuovo ed arcano vinceva il desiderio. Sentivo, così vagamente, in confuso, che forse l’avrei offesa, e che, ove pure ella non se ne affliggesse, quell’atto non sarebbe stato nuovo, nè bello, nè, per conseguenza, degno di noi. Egli c’è sempre in questi delirii dei sensi un tale indistinto di umiliazione e di violenza, che guai a leggervi dentro con mente sana; ne apparirebbe un misto di ridicolo e di brutale, da muovere a schifo ogni anima bennata. Ora, io non volevo apparire a quella donna nè brutale nè ridicolo; e soffrivo, frattanto; e avrei dato non so che, anche mezzo il mio sangue, pur di superare, senza coscienza di me, quel momento difficile.

Codardo, adunque; ma davanti ad una donna chi non lo è stato, in suo vivente, una volta? Ed io, impacciato come un bambino, mi crucciavo dentro di me, mi stillavo il cervello, per trovare una parola da dirle. Ora, come sempre accade a chi troppo cerca, trovai il peggio e a quello mi attenni, dicendo la sciocchezza più insigne che mai potesse venire in simili casi alle labbra di un uomo.

— La scorsa notte, — cominciai, con accento di tristezza, — eravate assai più umana con me. Le parole vi sgorgavano più facili dalle labbra. Dite, signora mia, c’è egli qualcosa di mutato tra noi? —

Ella mi guardò con occhio attonito, ma senza aprir bocca. Eppure, la risposta era agevole, ed io stesso, dopo aver fatto la domanda, me la sentivo fischiare all’orecchio: «Sì certo; la notte scorsa eravate un forestiero, un cortese compagno di viaggio, che faceva il debito suo di buon cavaliere, senza chiedere, senza pretender nulla in ricambio, e a cui si poteva, si doveva anzi mostrar gratitudine e fiducia, per stringergli poi la mano all’ultima stazione, e sparire; mentre ora... ora gli è un guaio de’ grossi.» Insomma la risposta c’era; ma ella fu tanto cortese da non darmela, o così turbata da non pensarci neanche. E mi guardava in quella vece, mi guardava con occhio smarrito, e taceva.

Io mi avvidi d’aver fallito la strada e volli tornare indietro. Ciò che mi venne alle labbra non era gran cosa; ma mi parve in quel punto un’ispirazione del cielo.

— Via, sono un pazzo, scusatemi! Io parlo come vien viene, e non ricordo che la scorsa notte avete vegliato; che tutta questa giornata siete rimasta in piedi; che infine sarete stanca e avrete bisogno di riposo.

— No; — rispose ella, crollando la testa; — ve l’ho detto pur dianzi; non ho sonno e non sento stanchezza di sorta.

— Vi parrà; — incalzai; — ma provate a coricarvi e vedrete; il genio del sonno verrà tosto a sfiorarvi le palpebre col sommo dell’ala. —

E mi rodevo dentro di me, parlando in tal guisa. Intendevo benissimo che al sonno non si comanda; pure sentivo che m’avrebbe fatto pena di vederla accettare il consiglio e cedere al sonno, là, sotto i miei occhi. E frattanto mi adoperavo a persuaderle la mia vergogna; e facevo bocca da ridere.

— Vi assicuro che non ho punto voglia di dormire; — diss’ella di rimando, e con tale asseveranza, che non dava appiglio a ribattere. — Porgetemi invece una scranna, ve ne prego. Avevate ragione poc’anzi; la notte è così bella! Staremo qui ad ammirarla. —

Io, come prima mi ero crucciato pensando che forse ella avrebbe accettato il consiglio di dormire, così mi crucciai allora, parendomi d’indovinare la ragione di quella insonnia ostinata.

— Ecco la scranna; — risposi. — Sedete; ma sia per poco, cioè a dire pel tempo di sentirvi a dare e di rendermi la buona notte. Io, bella signora, temo di non aver forza bastante a resistere.... di dovervi cascare a’ piedi.... e diciamo pure che questo mal tratto abbia a farvelo il sonno; — soggiunsi, masticando le parole. — Come vedete, mi fortifico contro il pericolo. —

In quel momento avevo misurate tutte le difficoltà della nostra condizione e veduta l’impossibilità di durarla più oltre. Uno strano proposito mi era balenato alla mente. Lo afferrai al volo; gittai tutte quelle parole avanti, di primo impeto, come venivano al labbro, per non aver più modo a ritrarmene.

— Mi fortifico contro il pericolo; — avevo detto. E d’un lancio fui a cavalcioni sul davanzale. Prima che ella avesse tempo a rispondermi, traevo già a me la gamba, rimasta dentro, piegandola sotto l’altra, che spenzolava nel vuoto.

— Che fate? — gridò ella, balzando in piedi sbigottita e stendendo le braccia verso di me.

Quello sgomento mi piacque. Ma avevo cominciato; la mia deliberazione mi piaceva del pari, e non volevo dare più indietro.

— Volete saperlo? — soggiunsi,  

puntellandomi sulle braccia, mentre ero già tutto fuori colla persona. — Lasciatevelo dire all’orecchio. Ho paura che l’aria lo senta e i grilli cantaiouli si piglino spasso di me. —

Ella si accostò, con moto involontario, e ansante, commossa, mi porse l’orecchio.

— Vado, — le bisbigliai, — a dormire laggiù, sull’erba del prato. Non posso già passar dalla scala, per farmi sentire dalla Rosa. Che penserebbe ella di noi? Riposate tranquillamente, vi prego. Addio, bella! a domattina!

— Ah, grazie! — mormorò ella, palpitante di gioia. — Siete un gentiluomo.

— Così tardi mi conoscete? Io vi avevo conosciuta assai prima.

— È vero; — rispose, chinando la testa in atto di confusione; — ho torto. Mi perdonate? —

E la soave parola venne, coll’alito delle sue labbra, a carezzarmi la guancia.

Arcana potenza che in un lieve tocco raccogli e sprigioni il bagliore e lo schianto del fulmine, io t’intesi, ti sentii tutta in quel punto. La parola susurrata aveva suggello in un bacio, lungo, profondo, intenso, da cui le mie forze furono insieme centuplicate e distrutte. Io non mi reggevo già più. Per fortuna, mentre le sue braccia mi trattenevano ancora, il mio piede trovò sostegno sui bronconi della pergola. Se no, mi sarei forse fiaccato il collo sull’aia.

È vero altresì che sarei morto bene!

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