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William Shakespeare - Come vi piace (1599-1600)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO


SCENA I.

La foresta delle Ardenne.

Entra il Duca esiliato, Amiens ed altri Signori,
vestiti da boscaiuoli
.

Duc. Ebbene, miei compagni d’esilio, miei fratelli d’infortunio, l’abito non ha reso questa vita più dolce per noi, di quella che si pasce nella pompa delle grandezze? Questi boschi non son più sicuri delle Corti? Qui non sopportiamo che le pene imposte ad ogni creatura; i rigori delle diverse stagioni. Allor che spira su di me il vento d’inverno e mi penetra fino nelle viscere più recondite io dico sorridendo: questo non è un adulatore; questo non cerca d’ingannarmi, e, mi avverte che sono un’assai fragile cosa. Oh, ben si possono ritrarre dolci frutti dall’avversità, che come, la testa del rospo cela spesso un prezioso diamante! La nostra vita, separata da quella del mondo, trova negli alberi voci che le favellano, libri istruttivi nei ruscelli correnti, moralità preziosia nelle selci e qualche bene in ogni cosa. No, non vorrei cambiar sorte.

Am. Voi siete felice, signore, potendo veder con tal occhio i rabbuffi della fortuna.

Duc. Vogliamo andare a caccia? E però mi duole il trafiggere quelle povere bestie.

Sign. E molto afflitto ne rimane anche il melanconico Giacomo; egli giura che cacciando, voi siete più crudele che non fu vostro fratello bandendovi. Oggi, Amiens ed io gli stavam dietro, allorchè ei giaceva sotto una quercia posta al margine di un fiumicello, colà venne un povero cervo trapassato dalla freccia di un cacciatore, che mandava gemiti così pietosi, da svegliare in tutti commiserazione. Alla vista di Giacomo, quella povera bestia si soffermò, e le lagrime cominciarono a sgorgare dai suoi occhi.

Duc. E che disse Giacomo? Non moralizzò a così fatto spettacolo?

Sign. Ah sì! ei disse cento cose, prima sul dolore di quell’animale, poscia sull’abbandono d'ogni suo compagno, che come gli amici del mondo, notava egli, fuggono dalla sventura e non accarezzan che la prosperità. Egli si diffuse quindi sulla barbarie di uccidere quelle infelici bestie che non recan danno ad alcuno, e di ucciderle nei luoghi stessi che la natura ha assegnato loro per patria.

Duc. E lo lasciaste in tali meditazioni?

Sign. Sì, monsignore.

Duc. Mostratemi la via che conduce ad esso; piacemi di intrattenermi seco, quand’è di siffatto umore.

Sign. Vi guiderò da lui. (escono)

SCENA II.

Una stanza nel palazzo.

Entrano il Duca Federico, Signori e seguito.

Duc. È possibile che alcuno non le abbia vedute? Possibile non è: qualche traditore della mia Corte sarà con esse indettato.

Sign. Non trovo nessuno che dica d’aver veduta vostra figlia. Le sue donne la lasciarono la sera in letto, e all’indomani la loro signora era scomparsa.

Sign. Scomparso è ancora il villico buffone che stava ai vostri stipendii. Esperia, la donzella d’onore della principessa, dice che sorprese segretamente vostra figlia e sua cugina, allorchè celebravano le buone grazie e la beltà del lottatore che abbattè Carlo, e crede che qualunque sia il luogo in cui le fanciulle sono andate, quel giovine debba essere con esse.

Duc. Mandate da suo fratello, fate venir qui quel zerbino: s’ei non v’è, conducetemi il fratello ch’io gliel farò trovare, e non desistete intanto dalle ricerche, fino a che ricondotto non m’abbiate quelle due pazze. (escono)

SCENA III.

Dinanzi alla casa di Oliviero.

Entrano Orlando e Adamo da diverse parti.

Orl. Chi è là?

Ad. Ah! siete voi, mio giovine signore? Oh mio caro padrone, mio buon padrone! Imagine viva del vecchio cavalier Rowland che fate qui? Ah! perchè siete voi virtuoso, perchè amato, perchè amabile, perchè prode? La vostra, gloria vi fa troppa guerra. Non sapete, mio signore, che sonvi uomini a cui tutte le virtù divengono fiere nemiche? Ecco il frutto che ricavate dalle vostre; esse sono per voi, mio caro padrone, altrettante traditrici sotto forme celesti. Mondo sciagurato, dove il bello ed il buono ingenerano la perdita di chi li possiede!

Orl. Che v’è dunque? che fu?

Ad. Oh sventurato giovine! non varcate la soglia; il nemico del vostro merito abita sotto il vostro tetto: vostro fratello (no, egli non è vostro fratello, nè il figlio è di quegli ch’io voleva chiamare suo padre) ha saputo il vostro trionfo, e questa notte vuole abbruciar la casa in cui solete coricarvi, per farvi morir tra le fiamme: se egli non riesce in tale disegno, troverà altri mezzi per assassinarvi: l’ho inteso per caso mentre meditava quest’opera, e vi dico, che questo non è più un soggiorno per voi: fuggite, fuggite di qui.

Orl. Ma, mio caro Adamo, dove vuoi tu ch’io vada?

Ad. Non importa dove, purchè non rimaniate qui.

Orl. Che! Vorresti tu ch’io corressi a mendicare il pane, o come un malandrino mi stessi sulle vie ad assalire i passeggieri? Bisogna ch’io faccia sì odiosa professione, non so che fare; e nondimeno tal professione non farò; qual che si sia la sventura che mi minaccia, più mi piace il darmi in balia di un barbaro fratello.

Ad. Ah no, io ho cinquecento scudi, frutto di lunghi risparmi che aveva accumulati per la vecchiaia: prendeteli, e quegli che nutre i corvi e alimenta i passeri, mi sarà di sostegno! Eccoveli; ve li dò tutti; pigliatemi al vostro servizio, che sebbene sembri vecchio, sono ancora robusto e simile mi mostro ad un inverno gelido, ma salubre; lasciate ch’io vi segua, vi sarò utile in ogni bisogno.

Orl. Oh buon vecchio, tu sei un’imagine fedele di quei domestici costanti del tempo antico, che servivano per amore del loro dovere e non pel salario! Tu non appartieni a questo secolo, in cui la voluttà del guadagno è la sola molla che fa agir gli uomini. Ma, povero vecchio, tu ringiovanisci un albero morto che non saprebbe produrre un fior solo, per ricompensarti delle tue pene e dell’affetto tuo: vieni nondimeno, aderisci alla tua inclinazione, e prima che abbi speso quello che avevi risparmiato, troveremo qualche modo di sussistenza.

Ad. Andate, mio signore, andate, vi seguirò fino all’ultimo sospiro con fedeltà e lealtà. Son qui vissuto dall’età dei diciasette anni, fin quasi a quella di ottanta; ma qui non mi fermerò più. Molti cercano fortuna in giovinezza, ed io ne andrò in traccia in vecchiaia: pago e felice se potrò morire al vostro servìzio. (escono)

SCENA IV.

La foreste delle Ardenne.

Entra Rosalinda vestita da uomo, Celia vestita da pastorella e Pietra-del-paragone.

Ros. Oh Giove, come sono affaticati i miei spiriti!

Piet. Poco mi curerei dei miei spiriti, se le mie gambe fossero alacri.

Ros. Se mi abbandonassi allo scoraggiamento del mio cuore, correrei rischio di disonorar l’abito d’uomo che porto, e di piangere come una femmina; ma bisogna ch’io sostenga l’onor del sesso, e i calzoni devono dar l’esempio del coraggio alla gonnella: animo dunque, cara Aliena.

Cel. In mercè, sorreggimi, io non saprei andare più oltre.

Ros. Eccoci alla foresta delle Ardenne.

Piet. E parmi che stessimo assai meglio a casa nostra: è l’unica verità su cui consentano tutti i viaggiatori.

Ros. A meraviglia; tienci allegre; ma chi vien qui? Un giovine e un vecchio in gravi deliberazioni. (Entrano Corino e Silvio)

Cor. Questo è il modo per farvi disprezzar sempre da lei.

Sil. Oh Corino! se tu sapessi quanto io l’amo.

Cor. L’indovino, perchè io pure ho amato.

Sil. No, Corino! vecchio come sei, non potresti indovinarlo, quand’anche in giovinezza tu fossi stato il più tenero amante che mai sospirasse sopra un guanciale. Se però il tuo amore fu eguale al mio (e credo che nessun uomo mai amasse come io amo), quante opere ridicole la tua passione non ti avrà ella fatte commettere.

Cor. Più di mille che ho dimenticate.

Sil. Tu non hai dunque mai amato come io, se non ti rammenti fino la più lieve follia che l’amore t’ha fatta fare, se non hai stancati i tuoi ascoltatori colle lodi della tua ganza, se non ti sei diviso all’improvviso dagli amici, come la mia passione mi fa ora dividere da te. Oh Febea, Febea, Febea! (esce)

Ros. Oimè povero pastore, vedendo la tua ferita, ho sentita la mia.

Piet. Ed io la mia: mi ricordo che quand’ero innamorato, rompevo la mia spada contro le selci, in cui inciampavo al buio, dicendo: «impara a visitar di notte Giovanna Smile»; e rammento ch’io baciavo le mammelle delle giovenche, che le sue belle mani mungevano, e le facevo doni di piselli, gridando cogli occhi piangenti: «mangiateli come se mangiaste me». Noi altri, veri amanti, andiam soggetti a strane fisime; ma se tutto nella natura è mortale, anche ogni essere della natura innamorato è pazzo.

Ros. Tu dici cose vere senza saperlo.

Piet. Son sicuro del mio spirito, e lo lascio espandersi non badandovi.

Ros. Oh Giove, Giove! la passione di quel pastorello somiglia assai alla mia.

Piet. E alla mia ancora, ve lo ripeto.

Cel. Qualcuno di voi chiegga a quell’uomo, s’ei volesse darne, pagandoglielo, qualche alimento. Muoio di fame.

Piet. Olà, villano...

Ros. Taci, è egli un tuo parente?

Cor. Chi chiama?

Piet. Persone che valgono più di te.

Cor. Se ciò non fosse, esse sarebbero ben miserabili.

Ros. Taci, ti dico. — Buona sera, amico.

Cor. Buona sera, signore, a voi e ai vostri amici.

Ros. Te ne prego, se per amicizia o per denaro si può aver qualche alimento in questo deserto, degnati condurci in parte, dove possiamo riposarci e mangiare; ecco una giovinetta che il viaggio ha stancato di troppo: ella sta per isvenire.

Cor. Bel signore, io la compiango con tutto il cuore, e desidererei più per lei che per me, che la fortuna mi avesse posto a tale da sollevarla: ma non son che un pastore agli stipendi di un padrone, e non toso per me le pecore che fo pascere: il mio padrone è d’un carattere avaro e duro, e a cui non cale d’aprirsi la via del cielo con atti d’ospitalità. Inoltre la sua capanna, i suoi armenti e i suoi pascoli sono ora in vendita, e la sua assenza fa che non vi sia nulla nella cascina ch’io possa offerirvi: venite meco nondimeno, e tutto quello che potrò fare per voi, lo farò.

Ros. Chi è l’uomo che deve comprare il suo armento e i suoi pascoli?

Cor. Quel pastorello che vedeste qui dianzi, sebbene ora poco si curi d’acquisti.

Ros. Se si potesse farlo senza mancare all’onestà, io ti pregherei di comprar la capanna e ogni altra cosa per nostro conto, noi ti daremmo di che pagare tutto.

Cel. Ed aumenteremmo quindi il tuo salario. Mi piacciono questi luoghi e vi passerei volentieri la vita.

Cor. Tutto è certo da vendere; venite con me; se il luogo vi si addice, se le entrate vi talentano e questo genere di vita vi piace, acquisterò il podere per voi e lo coltiverò con amore. (escono)

SCENA V.

La stessa.

Enrano Amiens, Giacomo ed altri.

Canzone.

Am. Tu, cui la Corte rese infelice, vieni con me fra questi boschi, vieni a gustare le dolcezze di questi luoghi, ad intendere il canto felice degli uccelli, qui dove tutto è amore e sincerità. Noi godiam ora le gioie che mai non cessano, e altro nemico non abbiamo che l’inverno e il mal tempo.

Giac. Continua, continua; te ne prego, continua.

Am. Diverreste più malinconico, Giacomo.

Giac. È quel che bramo. Continua, te ne prego, la malinconia è il mio elemento.

Am. La mia voce è aspra, nè potrebbe piacervi.

Giac. Non vi prego di piacermi, vi prego di cantare. Su via, un’altra strofa.

Am. Piuttosto per soddisfarvi che per mio diletto.

Giac. Come volete, purchè cantiate.

Am. Finirò la mia canzone. Intanto voi, signori, apprestata il desco. Il duca pranzerà sotto quell’albero. Egli vi ha cercato tutt’oggi.

Giac. Ed io l’ho tutt’oggi evitato: v’hanno giorni in cui mi sento sì tristo, che non posso parlare. Su via, cantate.

Am. (cantando) Se stanco delle Corti la vanità delle loro grandezze più non ti alletta, se non temi le vampe del sole, più che i dolori dell’anima, vieni ad abitar questi luoghi: se un parco desco può bastarti, se dalle leggi della natura non dissenti, vieni, vieni, e felice sarai, e altro nemico non avrai che l’inverno ed il mal tempo.

Giac. Vi dirò alcuni versi che feci ieri su questo metro.

Am. Ed io li canterò.

Giac. Bisogna però prima ch’io li rivegga. Non so se si conformino più allo stato della mia anima. Dove mai li lasciai? (esce)

Am. Così parte: si vada in traccia del duca: il banchetto è pronto. (esce)

SCENA VI.

La stessa.

Entrano Orlando e Adamo.

Ad. Caro signore, non ho più forze. Mi adagierò qui, e vi segnerò la misura della mia fossa. Addio, mio buon signore!

Orl. Come, Adamo! cosi ti scoraggisci? Vivi ancora un poco; racconsolati. Se qualche bestia esiste in questa foresta, o ne sarò divorato, o ti porterò da mangiare; la tua imaginazione atterrita, ti fa veder la morte più vicina a te, che essa diffatti non sia. Per amor mio, rinfrancati, allontana da te la morte un momento finch’io ritorni, e se non ti reco qualche alimento, allora ti permetterò di morire. Ma quest’aria agghiacciata potrebb’esserti fatale. Vieni, ti troverò qualche asilo, ti porterò in qualche grotta che ti ripari. Coraggio, caro Adamo, coraggio, tu non morrai! (escono)

SCENA VII.

La stessa.

Enrano il Duca esiliato, Amiens, Signori ed altri.

Duc. Credo ch’ei si sia mutato in belva, perchè non si può trovarlo in nessun luogo sotto figura umana.

Sign. Signore, non è che un istante che è partito di qui, dov’era molto lieto e provava gran piacere cantando.

Duc. Andate a cercarlo, e ditegli che vorrei parlargli.

Sign. Non avrò tal briga, perchè ecco che appunto viene. (entra Giacomo)

Duc. Qual vita è la vostra, signore, che bisogna che i vostri poveri amici vi facciano la corte? Perchè siete sì ilare?

Giac Un pazzo, un pazzo! Ho incontrato un pazzo per la foresta in abito screziato. Oh miserabile mondo! Quant’è vero che vivo di alimenti, scontrai un pazzo che giaceva per terra, imprecando alla fortuna con parole acri, e piene di veleno. Buon giorno, pazzo, gli ho detto. No, signore, non mi chiamate così mi rispose, fino che il Cielo non m’abbia mandata la fortuna. Poscia ha cavato un orologio dì saccoccia, e dopo averlo guardato con occhio malinconico, son dieci ore, ha detto, è così che passa la vita: un’ora fa non eran che le nove, e fra un’ora saran le undici: in tal guisa d’ora in ora maturiamo, finchè l’istante giunge in cui cadiamo dall’albero. Allorchè ho udito quel demente a moralizzare in tal maniera, mi son posto a cantare come un gallo, e le mie risa non han avuto più freno. Oh nobile pazzo! oh pazzo degno! il tuo abito è il solo che gli uomini onesti dovrebbero indossare.

Duc. E chi era colui?

Giac. Un uomo che fu altra volta cortigiano, e che sa dirvi che se le dame son giovani e belle, esse prima d’ogn’altro lo conoscono. Oh quanta saviezza sotto quei cenci! Potessi io pure vestir simile abito.

Duc. Ne avrai uno.

Giac È l’unico che mi convenga, allorchè vi sarebbe tolta dal cervello la idea balzana ch’io sia saggio. Ma chi vien qui? (entra Orlando colla spada sguainata)

'’Orl. Cessate e non mangiate più.

Giac. Se non ho ancora cominciato!

'’Orl'’. Nè pur comincierai.

Giac. Da che parte è escito quest’uomo?

Duc. È la disperazione, giovane, che ti rende sì ardito, o disprezzi tu tanto ogni onesto procedere, che non abbi la più lieve idea della civiltà ordinaria?

Orl. Avete colto nel segno. È il pungente stimolo del più estremo bisogno che mi toglie ogni apparenza urbana: crebbi nondimeno in questo paese, e vi ricevei qualche educazione: ma non mangiate altro, vi dico: morirà colui che assaggerà di quel frutto prima che i miei bisogni siano soddisfatti.

Giac. Se non volete appagarvi di ragioni, dovrò allora soccombere.

Duc. Che volete da noi?

Orl. Sto per mancare per difetto di alimenti, e vi prego di darmene.

Duc. Assidetevi, mangiate, e siate il benvenuto alla nostra mensa.

Orl. Parlate da senno? Allora perdonatemi, ve ne scongiuro; ho creduto che qui tutto fosse selvaggio, e presi quel tuono duro che udiste. Ma chiunque vi siate che passate le ore fuggitive della vita in questo deserto inaccessabile all’ombra malinconica di queste frondì, se mai aveste giorni più lieti, se mai abitaste luoghi più ospitali, se mai vi assideste alla mensa di un mortale benefico, se i vostri occhi versarono una lagrima generosa, se conoscete infine che cosa sia pietà e quanto dolce sia l’esserne oggetto, allora la preghiera e la dolcezza siano le mie sole armi, e valgano a farvi violenza. Con questa speranza, arrossendo, io ripongo la spada.

Duc.. Sì, non dubitate, noi vedemmo giorni più lieti; noi ci assidemmo al desco d’uomini virtuosi e benevoli. I nostri occhi s’inumidirono delle lagrime della pietà, onde assidetevi e disponete di tutto quello che possiamo offerirvi.

Orl. Ebbene astenetevi del mangiare finch’io qui ritorni. Sta qui presso un povero vecchio, che con passi vacillanti mi seguì guidato dall’affezione; egli è oppresso da mali crudeli, l’età e la fame. Io non gusterò alcun cibo, finch’egli non abbia soddisfatti i suoi bisogni.

Duc. Andate a cercarlo; vi aspetteremo per mangiare.

Orl. Vi ringrazio; il Cielo vi benedica del vostro soccorso. (esce)

Duc. Tu vedi che noi non siamo i soli infelici; questo vasto teatro del mondo presenta spettacoli più tristi di quello a cui noi assistiamo.

Giac. Sì, tutto il mondo è un teatro, e tutti gli uomini e le donne sono attori che vengono e vanno. Ogni uomo nel corso di sua vita compie diverse parti; dapprima è il lattante che vagisce fra le braccia della nutrice; poi il bambino piangente, sebben col volto fresco come l’aurora; poi l’adolescente innamorato che sospira e canta gli occhi dell’amata sua; poi il giovine ispido di peli, vivo, infiammabile, pronto ai litigi, che cerca la riputazione e l’onore in tutti i luoghi in cui non stanno: poi l’uom di toga dal ventre rotondo, che digerisce un cappone con occhio severo, detta motti e sentenze e massime volgari, il tutto con entezza e dignità. Della vecchiaia non parlerò, della vecchiaia che assottiglia le gambe, pon gli occhiali nel naso e le saccoccie ai fianchi, strema la voce, e toglie ogni vigor dell’animo; assopisce in una specie d’obbllo, e ci lascia senza denti, senz’occhi e senza palato. (rientra Orlando con Adamo)

Duc. Siate il benvenuto! Deponete il vostro venerabile fardello, e ch’ei si cibi.

Orl. Vi ringrazio con tutto il cuore per lui.

Ad. Fate bene a ringraziar per me, perchè io non ho più forza di parlare.

Duc. Qui siete il ben accolto; mangiate, e non pensate ad altro. — Caro cugino, tu intanto canta. (Amiens canta)

Canzone.

I. «Inverno, sfoga tutto il tuo rigore, la tua crudeltà è meno sensibile della dimenticanza dei cuori ingrati. L’amicizia non è che perfidia, l’amore non è che follia, restiamo in questi climi fino che la morte ci colga.»

II. «Infierisci, infierisci, cielo rigoroso, versa sul nostro capo la pioggia e la tempesta: lo sdegno tuo è meno sensibile che non sia l’obblio di quelli che abbiamo amato. Restiamo in questi luoghi, in questa solitudine cara fino a che l’ora della morte ci colga».

Duc. Se è vero che voi siate il figlio del buon cavalier Rowland, come vi si è udito dire, e come tutto annunzia nel vostro volto, siate qui il ben accolto: io sono il duca amico di vostro padre. Venite nella mia grotta a raccontarmi le vostre avventure, e tu buon vecchio, riguardati come della nostra famiglia. Dategli il braccio, e sorreggetelo per questi ardui sentieri finche le forze gli siano ritornate. (escono)



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