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ATTO TERZO
SCENA I.
Una stanza nel Palazzo.
Entrano il Duca Federico, Olivero, Signori e seguito
Duc. Non l’aver più visto dappoi? Non può essere, non può essere; e se la clemenza non prevalesse in me, non andrei a cercar più lontano altri oggetti della mia vendetta: ma pensaci bene, disotterra tuo fratello dovunque ei sia, riconducilo a me dinanzi, o rinunzia all’idea di vivere in questo paese. Fino a che non possa giustificarti dei sospetti che abbiamo concepiti contro di te, noi c’impossessiamo delle tue terre e di ogni tua proprietà.
Ol. Oh, se Vostra Altezza potesse leggere nel mio cuore! Non mai in vita mia io amai mio fratello.
Duc. Tanto più scellerato sei. Su via, cacciatelo dal palazzo; e si proceda alla confisca dei suoi beni: si faccia senza indugio e senza attendere ad alcuna rimostranza. (escono)
SCENA II.
La Foresta.
Entra Orlando con un foglio.
Orl. Restate qui appesi, miei versi, e rendete testimonianza dell’amor mio: e tu, regina della notte, dalla triplice corona, dall’alto della tua pallida sfera abbassa i tuoi casti sguardi, sul nome della tua bella cacciatrice che domina in questo mio cuore. Oh Rosalinda! io scolpirò in questi alberi i miei pensieri affinchè tutti quelli che passeranno di qui, veggano quant’io onorassi la tua virtù. Affrettati, Orlando, affrettati a incider sopra ogni scorza: Rosalinda è bella, Rosalinda è casta, Rosalinda è una meraviglia ineffabile. (esce; entrano Corino e Pietra-del-paragone)
Cor. Come vi piace questa vita pastorale, messer Pietra-del-paragone?
Piet. Schiettamente parlando, pastore, ella è per se stessa una buona vita; ma rispetto a quel che è una vita da pastore, è una povera vita. Per ciò che è solitaria molto mi piace, e piacemi pure perchè si passa nei campi; nondimeno è pur forza dire ch’ella è assai noiosa. Sobria e frugale si addice molto al mio temperamento, ma molto si oppone al mio stomaco. Pastore, sei tu filosofo?
Cor. Sì, quanto basta per sapere, che più si è malati più si sta male; che quegli che non ha denaro non ha amici; che l’acqua bagna e il fuoco brucia; che i buoni pascoli ingrassano le pecore, e che una delle grandi cagioni della notte è l’assenza del sole.
Piet. Un uomo che ragiona come te è filosofo. Sei mai vissuto alla Corte, pastore?
Cor. No.
Piet. Sei dunque dannato.
Cor. Per non essere stato alla Corte? Strana ragione!
Piet. Se non sei mai stato alla Corte, non conosci le belle maniere; se non conosci le belle maniere, le tue maniere son necessariamente cattive, e quello che è cattivo è peccato, e il peccato porta dannazione, tu dunque sei in istato di dannazione.
Cor. No, amico; le belle maniere della Corte son così stolte alla campagna, come gli usi della campagna son ridicoli alla Corte. Ma io non sono che un semplice pastore, e non debbo intrattenermi di questo tema: contento della mia umile condizione, non invidio la felicità dei grandi.
Piet. E tale temperanza è appunto un nuovo difetto. Se con tante colpe l’inferno non ti ingoia, di’ pur che il diavolo è stanco di pastori.
Cor. Ecco il giovine Ganimede, fratello della mia nuova padrona. (entra Rosalinda leggendo un foglio)
Ros. Dall’India all’Oriente alcun tesoro non v’ha che eguagli Rosalinda: la sua fama si estende in ogni parte, e riempie l’universo del nome di lei: i capi d’opera più vantati, le miniature più perfette, non son che cose deformi in paragone della sua beltà.
Piet. Se voleste, sarei anch’io buono di rimar così per otto anni interi, eccettuandone però le ore del pranzo, della cena e del riposo.
Ros. Vattene, stolto.
Piet. Dove trovaste quei bei versi?
Ros. Sotto un albero.
Piet. Un albero che dà cattive frutta.
Ros. Taci, ecco mia sorella che vien pure leggendo: vattene in disparte. (entra Celia leggendo un foglio)
Cel. Perchè questo deserto sarebbe egli silenzioso? Forse perchè non è abitato? Che vale? Darò ad ogni albero lingue che parlino l’idioma della città. Le une diranno quanto breve è la vita dell’uomo e gli errori del suo pellegrinaggio; le altre mostreranno tutti i giuramenti violati fra i cuori di due amici, e tutte le vanità di questa terra; sopra i più bei rami poi, o alla fine d’ogni sentenza, scriverò il nome di Rosalinda, e insegnerò a tutti quelli che leggeranno i miei versi che il Cielo, volendo mostrare in lei un compendio delle perfezioni degli angeli, commise alla natura di accumulare tutte le grazie sopra un solo oggetto, e la natura ebbe ricorso alle guance di rose di Elena, senza però prenderne il cuore; alla maestà di Cleopatra, ai vezzi di Atalanta, alla modestia di Lucrezia. È così che il consiglio degli Dei decise che Rosalinda sarebbe la bella delle belle, e radunerebbe in sè i pregi di cento illustri. Il Cielo volle ch’ella avesse tante doti, e ch’io vivessi e morissi suo schiavo.
Piet. Oh buon Giove! Come avete voi potuto stancare i vostri parrocchiani con sì noiosa omelia d’amore, senza mai gridare: abbi pazienza, buon popolo!
Cel. Che fate là, spie? Allontanatevi di qui.
Piet. Andiamo, pastore, facciamo una ritirata onorevole: se non portiam via tutto il bottino, ne abbiamo almeno una buona parte. (esce con Cor.)
Cel. Udisti questi versi?
Ros. Sì, ed altri ancora ne intesi.
Cel. E vedesti come il tuo nome sta inciso su questi alberi?
Ros. Lo vidi, e fu estrema la mia meraviglia.
Cel. Potresti indovinare chi sia l’uomo che ti ama così?
Ros. Ti prego con ardore di dirmi chi è. Non mi far arrossire. Un minuto d’indugio di più è per me come un viaggio nel mare del Sud. Te ne prego, dimmi subito chi è.
Cel. Quantunque io supponga che tu lo sappia, sarò pur tanto cortese per dirtelo: è il giovine Orlando che, abbattendo un uomo, si cattivò un cuore.
Ros. Lascia le celie, te ne scongiuro: parla da senno.
Cel. Di buona fede, cugina, è quello che ti dico.
Ros. Orlando?
Cel. Orlando.
Ros. Oimè! che diverrà il mio abito da uomo? Che ha egli fatto allorchè tu l’hai veduto? che ha detto? che aspetto aveva? dov’è andato? che venne a far qui? mi ha chiesta? come t’ha lasciata? dorè dimora? quando lo rivedrai? Rispondimi in una sola parola.
Cel. Bisogna che cominciate dal prestarmi la bocca di Gargantua; la parola che mi chiedete è di troppo volume per una bocca di donna; rispondere sì o no a tante dimande è cosa più difficile che il rispondere a un catechismo.
Ros. Ma sa egli che sono in questa foresta, e che vi sono cogli abiti d’uomo? Quale lo trovasti? favella.
Cel. Lo trovai sotto una quercia, come una ghianda caduta.
Ros. Quella quercia potrebbe ben dirsi l’albero di Giove, se lascia cadere simili frutti.
Cel. Datemi udienza, mìa buona signora.
Ros. Continua.
Cel. Ei stava là steso come un cavalier trafitto.
Ros. Quantunque dovesse destare pietà, doveva pur essere vezzoso in tal atto.
Cel. Taci, te ne prego. Era armato da cacciatore.
Ros. Oh, cattivo presagio! Ei verrà per ferirmi.
Cel. Tu mi fai perdere il filo, interrompendomi così spesso. Zitto; non lo vedi che viene alla nostra volta?
Ros. Sì, è desso; fuggiamo. (Cel. e Ros. si ritirano; entrano Orlando e Giacomo)
Giac. Vi ringrazio della vostra compagnia: ma davvero sarei stato bene anche solo.
Orl. Ed io pure; ed è unicamente per cerimonia che vi ringrazio della compagnia vostra.
Giac. Dio sia con voi! Cerchiam di vederci il meno possibile.
Orl. Desidero che diveniamo l’uno dall’altro interamente stranieri.
Giac. Non rovinate più gli alberi, ve ne prego, scrivendovi sopra canzoni.
Orl. Né voi i miei versi, leggendoli con così cattivo garbo.
Giac. Rosalinda è il nome della vostra amante?
Orl. Appunto.
Giac. È un nome che non mi piace.
Orl. Nessuno pensava a piacervi allorché ella venne battezzata.
Giac. Di quale statura è essa?
Orl. D’altezza bastante per giungere al mio cuore.
Giac. Siete pieno di argute risposte. Avreste per avventura conosciuto la moglie di qualche orefice, e rubatole quelle anella che vi veggo in dito?
Orl. No, e potrei rispondervi come merita la domanda.
Giac. Volete che ci assidiamo, e che declamiamo tutti due contro le nostre amanti, contro il mondo e la nostra trista fortuna?
Orl. Non vuo’ riprendere nessuno nel mondo tranne me, di cui conosco bene i difetti.
Giac. Il più gran difetto che abbiate è d’essere innamorato.
Orl. È un difetto che non cambierei colle vostre più belle virtù. Sono stanco di voi.
Giac. In fede mia, cercava un pazzo allorchè v’ho trovato.
Orl. Ei s’era annegato nel fiume: guardate nell’acqua, e lo vedrete.
Giac. Vi vedrò me stesso.
Orl. Che reputo un pazzo o uno zero.
Giac. Non mi fermerò più a lungo con voi: addio, messer amore.
Orl. Godo della vostra partenza: addio, signore malinconico. (Giac. esce; Celia e Ros. s’avanzano)
Ros. Vuo’ parlargli col tuono d’un valletto impertinente, e recitar la parte d’uno scapestrato. — Olà, boscaiuolo, udite?
Orl. Assai bene: che volete?
Ros. Che ora è?
Orl. Dovreste piuttosto chiedermi a qual parte del dì siamo giunti, perchè non vi sono orologi nella foresta.
Ros. Non vi son dunque veri amanti, altrimenti i sospiri mandati da essi ogni minuto, i gemiti d’ogni istante, segnerebbero lo scorrere del tempo neghittoso bene al pari d’un orologio.
Orl. E perchè chiamate neghittoso il tempo? Non sarebbe stato più conveniente il dirlo veloce?
Ros. No; il tempo cammina con passo differente, secondo la differenza delle persone: io vi dirò con chi esso procede lento, con chi trotta, con chi galoppa e con chi si ferma.
Orl. Udiamo: ditemi, con chi trotta?
Ros. Trotta colla giovinetta dal dì del contratto fino a quello in cui il matrimonio è celebrato: quand’anche l’intervallo non fosse che di sette giorni, esso è così penoso, che sembra durare sette anni
Orl. E con chi va di passo ordinario?
Ros. Col prete che non sa il latino, e col ricco che non ha la gotta: il primo dorme tranquillo, perchè non può studiare, e il secondo mena un’allegra vita, perchè non prova alcun dolore: l’uno è scevro del fardello d’una sterile scienza, l’altro non sa quel che pesi una noiosa povertà. Ecco le persone per cui il tempo va di passo ordinario.
Orl. E con chi galoppa?
Ros. Col ladro condotto al patibolo: il quale, sebbene vada adagio, ponendo un piede dinanzi all’altro, arriva sempre troppo presto.
Orl. Con chi alfine si ferma?
Ros. Coi curiali quando trattano cause, perchè essi dormono durante i dibattimenti, e non s’avveggono che il tempo passa.
Orl. Dove abitate voi, bel giovinetto?
Ros. Con questa pastorella che m’è germana qui al termine di questa foresta, come una frangia sul lembo d’un abito.
Orl. Siete nativo di questi luoghi?
Ros. Al par del coniglio che vedeste saltellar qua e là.
Orl. V’è nel vostro accento qualche cosa di più delicato, che non avreste potato acquistare in un luogo così selvaggio.
Ros. Molti altri me l’han già detto; ma per verità io ho imparato a parlare da un vecchio zio divenuto divoto, che però in giovinezza visse nel mondo, e seppe innamorarsi. Io gl’intesi far molte prediche contro l’amore, e ringrassio Dio di non esser nato donna e di non essere esposta alle follie di cui egli accusava il sesso gentile in generale.
Orl. Vi sovverreste di qualcuno dei principali difetti ch’egli imputava alle donne?
Ros. Non ve n’aveva di principali; tutti si rassomigliavano.
Orl. Ditemi, ve ne prego, qualcuno di sì fatti difetti.
Ros. No, non vuo’ far uso del mio rimedio che sopra quelli che sono malati. V’è un uomo che percorre la foresta, e che si sollazza a guastare i nostri arboscelli, incidendo Rosalinda sulla loro scorza: egli appende odi ed elegie alle rose ed alle spine, che tutte divinizzano il nome di Rosalinda. Se potessi scontrarmi in quel pazzo, gli darei alcuni buoni consigli, perchè ei sembrami tocco da un male quotidiano.
Orl. Io son quell’uomo così cruciato dall’amore: amministratemi di grazia il vostro rimedio.
Ros. Non veggo in voi alcuno di que’ sintomi descritti da mio zio; egli m’ha insegnato a distinguere gl’innamorati, e son sicuro che voi non siete male.
Orl. Quali erano quei sintomi?
Ros. Una guancia magra e scolorata, che voi non avete; un occhio livido e insolcato, che non avete; uno spirito taciturno, una barba negletta, un vestire scomposto, una non curanza in tutto procedente da disperazione, cose che voi non avete. Invece io veggo che siete assai ricercato nei vostri abbigliamenti, ciò che prova che voi v’amate ancora molto più, che non amiate gli altri.
Orl. Bel giovine, vorrei poterti far credere che amo.
Ros. Io crederlo? Vi sarebbe facile del pari il persuaderlo a quella che voi amate, di cui nullameno ella vorrà mostrarsi convinta più presto, che non vorrà confessare di riamarvi; una delle cose per le quali le donne dan sempre una mentita alla loro coscienza. Ma ditemi in buona fede, siete voi che scrivete sugli alberi quei versi che fan tanto elogio di Rosalinda?
Orl. Ti giuro, giovine, per la bianca e bella mano di lei, che son io: si, io sono quello sfortunato.
Ros, Ma siete poi così innamorato come narrano le vostre rime?
Orl. Nè la rima, nè alcun altro mezzo, potrebbero esprimere tutto il mio amore.
Ros. L’amore non è che follia, e meriterebbe, come i pazzi, l’ospitale e le verghe: quello che fa che non s’abbia ricorso a questi mezzi per guarire gl’innamorati, è che siffatta frenesia è così comune, che quelli che dovrebbero sanarla, ne son pure tocchi: nondimeno mi studierò di guarirvi con buoni consigli.
Orl. Avete mai guarito nessun altro amante in tal guisa?
Ros. Sì, n’ho guarito uno, e appunto nel modo che. sto per dirvi. Il suo farmaco era d’immaginarsi ch’io fossi la sua innamorata, e ogni giorno io lo costringevo a farmi la corte. Assumendo il carattere di fanciulla capricciosa e incostante, piena di fantasie bizzarre, leggera, volubile, fantastica, ridendo e piangendo volta a volta senza motivo, ostentando tutte le passioni senza sentirne alcuna, come fanno la maggior parte delle giovani, ora io l’amavo, ora lo detestavo, ora l’accoglievo con gioia, ora lo rigettavo da me; qualche volta piangevo di tenerezza, qualche volta non lo degnavo d’uno sguardo, cosicchè feci tanto alla fine, ch’egli passò da un eccesso d’amore a uno di follia, e abborrendo il mondo intero, andò a finire i suoi dì in un chiostro. È così ch’io l’ho sanato, e così guarirò voi se volete.
Orl. Non mi cale d’esser guarito in tal guisa, amico mio.
Ros. Vi guarirei, se voleste soltanto acconsentire a chiamarmi Rosalinda, e a venir tutti i giorni nella mia capanna per farmi la corte.
Orl. Oh! quanto a ciò, ti giuro sul mio onore che acconsento: dimmi dove abiti.
Ros, Venite con me e vi mostrerò il mio ricetto, e lungo la via m’insegnerete voi pure la vostra dimora: volete venire?
Orl. Con tutto il cuore, amabile giovane.
Ros. No, no, bisogna che mi chiamiate Rosalinda. Andiamo, sorella, venite con noi. (escono)
SCENA III.
Entrano Pietra-del-Paragone e Andrey; Giacomo li guarda da lontano.
Piet. Su via, cara Andrey; vado a cercare le vostre capre. Sono io sempre, Andrey, quell’uomo che vi piace? Siete voi contenta della mia fisonomia? Io sto qui con voi e le vostre capre, come l’onesto Ovidio, il più bizzarro dei poeti, se ne stava fra i Goti.
Giac. Oh scienza profusa! Un gran pazzo è costui. (a parte)
Piet. Io dunque, mia Andrey, voglio sposarti, e perciò ho veduto sir Oliviero Martext, vicario del vicino villaggio, il quale m’ha promesso di trovarsi in questa parte della foresta per accoppiarne.
Giac. Sarò ben lieto di tal incontro. (a parte)
And. Gli Dei ne concedano la felicità!
Piet. Così sia! Io imprendo un’opera che spaventerebbe ogni uomo timido, perchè noi non abbiamo altri templi che i boschi, altre congregazioni che quelle delle bestie cornute. Ma che vale ciò? Coraggio! Se le corna sono odiose, esse son necessarie. Molti uomini ne riconoscono il vantaggio e la convenienza. Forse che i poveri soli le hanno? Il cervo più nobile le innalza auguste, come il cervo più tristo. L’uom che vive solo è forse felice? No. Come una città circondata di mura è migliore d’un villaggio, così la fronte coronata d’un marito è più onorevole che la fronte nuda d’un garzone. Ecco sir Martext. (entra Martext) Sir Martext, voi siete il benvenuto. Volete unirci qui sotto a quest’albero, dovrem venire alla vostra cappella?
Mar. Non vi è qui nessuno per presentare la donna?
Piet. Non vuo’ riceverla in dono dalla mano di nessun uomo.
Mar. In verità, conviene che qualcuno la presenti, altrimenti il matrimonio sarà irregolare.
Giac. (avanzandosi) A ciò non pensate, io la presenterò.
Piet. Buona sera, mio bel signore: come state? Sono lieto di vedervi. Che fate qui?
Giac. Volete ammogliarvi?
Piet. Debbo assoggettarmi a quel freno e a quel giogo, che il bue e il cavallo dividono con me. Su via, cara Andrey, bisogna che ci sposiamo. Andiamo al tempio a celebrare il fausto imeneo.
Mar. Andate innanzi ch’io vi verrò dietro. (escono)
SCENA IV.
Innanzi a una capanna.
Entrano Rosalinda e Celia.
Ros. No, non dirmi altro: ho volontà dì piangere.
Cel. Calmati, te ne scongiuro, e pensa, di grazia, che il pianto disdice a un uomo.
Ros. Ma non ho io motivo di versarne?
Cel. Quanto aver se ne possa.
Ros. Tutto in lui è mendace.
Cel. Tranne i suoi baci.
Ros. I suoi baci son casti come la barba di un eremita.
Cel. Una monaca non darebbe baci più verecondi.
Ros. Ma perchè ha giurato che verrebbe questa mattina, e poi non viene?
Cel. In lui non è alcuna sincerità.
Ros. Lo credi? Credi ch’ei non sia sincero in amore?
Cel. Potrà esserlo, qnand’è innamorato, ma non prima.
Ros. Tu l’hai udito giurare, senza esitanza, che lo era.
Cel. Che lo era, non vuol dir che lo sia: inoltre i giuramenti d’un amante non hanno alcun peso. Egli è qui nella foresta al seguito del duca vostro padre.
Ros. Incontrai ieri il duca, con cui parlai a lungo; egli mi chiese qual era la mia famiglia, e gli risposi ch’essa poteva compotere colla sua: allora si mise a ridere, e mi lasciò andare. Ma perchè, parliam noi di padri e d’avoli, quando v’è nel mondo un uomo come Orlando?
Cel. Quello è il zerbino di moda, che adopra espressioni alla moda, fa versi alla moda, giura alla moda, e viola ogni giuramento del pari: amante falso e mal destro che sfiora soltanto il cuore della sua amata, come un giovine cavaliere i fianchi del corridore di cui paventa troppo la foga. — Chi viene? (entra Corino)
Cor. Padrona, voi mi avete spesso chiesto chi fosse quel pastore che si lagnava dell’amore, quel pastore che vedeste assiso accanto a me sui prati, vantando la superba pastorella da lui amata?
Cel. Ebbene, che hai a dirci di lui?
Cor. Se volete assistere ad una vera commedia, seguitemi, e vedrete cosa sia l’amore.
Ros. Partiamo: la vista degli innamorati alimenta quelli che lo sono. Conducine a questo spettacolo: esso mi piacerà assai. (escono)
SCENA V.
Un’altra parte della Foresta.
Entrano Silvio e Febéa.
Sil. Vezzosa Febéa, non disprezzarmi: dimmi che non mi ami, ma non dirmelo con asprezza: il carnefice medesimo, il di cui cuore è indurito dalla vista familiare della morte, non lascia mai cadere la scure sul collo sottomesso alla sua mano, senza prima chieder perdono al paziente: vorreste voi esser più dura dell’uomo che ha per mestiere lo spargere il sangue? (entrano Rosalinda, Celia e Corino in distanza)
Feb. Non voglio essere il tuo carnefice: ti lascio per non offenderti. Tu dici che i miei occhi ti fan molto male, che son tiranni e micidiali, ed io farò sì che tu più non li vegga, onde non n’avessi a infermare.
Sil. Oh mia cara Febéa! se mai doveste un dì provare i fuochi dell’amore, voi saprete allora che le freccie acute di esso possono fare ferite invisibili.
Feb. Ma fino che quel momento non giunga, non venirmi appresso; e quando verrà, scherniscimi, e non avere alcuna pietà di me, come io fino ad ora non n’ebbi di te alcuna.
Ros. (avanzandosi) E perchè, ve ne prego? Da qual madre siete voi nata per insultare così gli infelici? Perchè vi reputate un po’ bella, dovrete essere tanto barbara? A che accennano quegli sguardi? Perchè mi affisate così? Io non veggo nulla di più in voi, che una di quelle opere più comuni della natura. Forse voi vi credevate l’ottava meraviglia? Oh via, donzella, il vostro volto è ben volgare per me, non vale che arrossiate: io in voi non iscorgo nulla di raro. E voi, insensato pastore, perchè la seguite sempre in mezzo alle lagrime e ai sospiri, come il mezzodì nebuloso che soffia i venti e le pioggie? Voi siete mille volte più bell’uomo, che ella non sia leggiadra fanciulla, e l’adulate dicendole che è bella, sicchè è mercè vostra che va tanto superba. Ma, donzella, imparate a meglio conoscervi: inginocchiatevi e ringraziata il Cielo d’aver ottenuta la tenerezza di un onest’uomo: giova che io ve lo dica amichevolmente all’orecchio: vendetevi fin che potete, perchè non siete merce offeribìle ad ogni trafficante. Chiedete perdono a questo giovine, amatelo, e accettatene le dichiarazioni: la laidezza divien più laida quando vuole umiliar gli altri: pastore, ella è tua sposa; addio.
Feb. Bel giovine, garritemi per un anno intero: mi piacciono più le vostre invettive, che le carezze di costui.
Ros. Egli si è innamorato dei difetti di questa pastorella, ed ella vuol, credo, innamorarsi del mio sdegno. Se questo è, io le dirò parole di cruccio ogni volta che ella ti vibrerà (a Sil.) sguardi minacciosi. Perchè mi guardate ora cosi? (a Feb.)
Feb. Non perch’io vi voglia alcun male.
Ros. Non diventate amante di me, ve ne prego; perch’io son più falso dei giuramenti che si proferiscono in ubbriachezza, e inoltre non vi amo. Se volete sapere la mia casa, ella è qui vicino al bosco degli olivi. Volete venire, sorella? (a Cel.) Andiamo. Pastore, stringila da presso, e tu, pastorella, guardalo con occhio più mite, nè essere così superba; sebbene ognuno possa vederti quale sei, alcuno non ha nondimeno la vista più intenebrata di lui per te. Andiamo a raggiungere il nostro armento. (esce con Cel. e Cor.)
Feb. In verità, pastore, trovo ora che la tua vista ha molto potere. Chi amò mai che non amasse al primo sguardo?
Sil. Cara Febèa.
Feb. Che dici, Silvio?
Sil. Compiangimi, dolce Febèa.
Feb. Veramente mi dolgo del tuo stato, mio gentil Silvio.
Sil. Quando le pene altrui affliggono, si dovrebbe pensare ad alleggiarle. Se vi affanna il dolore cagionato in me dalla tenerezza, concedetemi il vostro amore, e allora non avrete più ambascie, nè io dispiaceri.
Feb. n mio amore tu lo hai.
Sil. Aspiro anche alla felicità di possedervi.
Feb. È un essere troppo avidi. Vi fu un tempo, Silvio, in cui ti odiavo: non è già ch’io ti ami ora; ma poichè tu puoi così bene discorrere sopra l’amore, soffrirò la tua compagnia che m’era altra volta infesta, e mi varrò di te senza che tu debba chiedermene la ricompensa.
Sil. Il mio amore è così puro, così perfetto e così avvezzo alle privazioni, che crederei fare la più abbondante messe, prendendo soltanto le sparse spiche, dopo coloro che avran fatta la raccolta; non mi ricusate di tratto in tratto un sorriso, ed esso mi appagherà.
Feb. Conosci tu quel giovine che mi parlò dianzi?
Sil. Non molto, ma l’ho veduto spesso: è quello che comprò la capanna e le terre vicine.
Feb. Non creder ch’io l’ami, sebben t’interroghi sopra di lui; ei non è che un impronto. Pure parla bene assai, e le parole fan ottimo effetto: sopratutto quando quegli che le proferisce piace a colui che le ascolta: egli è un bel giovine superbo, ma a cui la superbia si confà a meraviglia; diverrà un bel uomo, e se la sua lingua ferisce, i suoi occhi guariscono tosto: ei non è grande, ma è abbastanza grande per la sua età: il vermiglio delle sue labbra, il roseo delle sue gote allettano. Se vi fosse stata qualche donna, Silvio, che l’avesse esaminato come io ho fatto, essa vi sarebbe innamorata di quel giovine: per me non l’amo e non l’odio, e nondimeno avrei più motivo di odiarlo che di amarlo; perocchè qual ragione aveva per riprendermi così? Egli mi disprezzò, e stupisco dì non avergli risposto in modo dicevole. Voglio scrivergli una lettera pungente, che tu gli porterai: lo farai tu, Silvio?
Sil. Con tutto il cuore, Febèa.
Feb. La scriverò subito, la testa mi bolle; la mia lettera sarà breve, ma arguta: vieni con me. (escono)