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Inferno - Canto II Inferno - Canto IV

C A N T O   III.





1Per me si va nella città dolente:
     Per me si va nell’eterno dolore:
     Per me si va tra la perduta gente.
4Giustizia mosse il mio alto Fattore:
     Fecemi la Divina Potestate,
     La somma Sapienzia, e il primo Amore.
7Dinanzi a me non fur cose create,
     Se non eterne, et io eterna duro:
     Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.
10Queste parole di colore oscuro
     Vid’io scritte al sommo d’una porta;
     Perch’io: Maestro, il senso lor m’è duro.
13Et elli a me, come persona accorta:1
     Qui si convien lasciare ogni sospetto:
     Ogni viltà convien, che qui sia morta.
16Noi siam venuti al loco, ov’io t’ho detto
     Che tu vedrai le gentedolorose,2
     Ch’ànno perduto il ben dell’intelletto.

19E poichè la sua mano alla mia pose
     Con lieto volto, ond’io mi confortai,
     Mi mise dentro alle secrete cose.
22Quivi sospiri, pianti et alti guai
     Risonavan per l’aer sanza stelle,
     Perch’io al cominciar ne lagrimai.
25Diverse lingue, orribili favelle,
     Parole di dolore, accenti d’ira,
     Voci alte, e fioche, e suon di man con elle
28Facevan un tumulto, il qual s’aggira
     Sempre in quell’aer sanza tempo tinta,
     Come la rena quando a turbo spira.3
31Et io, che avea d’error la testa cinta,
     Dissi: Maestro, che è quel ch’io odo?
     E che gente è, che par nel duol sì vinta?
34Et elli a me: Questo misero modo
     Tengon l’anime triste di coloro,
     Che visser sanza fama e sanza lodo.4
37Mischiate sono a quel cattivo coro
     Delli angeli, che non furon rebelli,
     Nè fur fedeli a Dio; ma per sè fuoro.5
40Caccianli i Ciel, per non esser men belli,6
     Nè lo profondo Inferno li riceve,
     Ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli.
43Et io: Maestro, che è tanto greve
     A lor, che lamentar li fa sì forte?
     Rispose: Dicerolti molto breve.

46Questi non ànno speranza di morte:
     E la lor cieca vita è tanto bassa,
     Che invidiosi son d’ogn’altra sorte.
49Fama di loro il mondo esser non lassa:
     Misericordia e Giustizia li sdegna.
     Non ragionar di lor; ma guarda e passa.7
52Et io, che riguardai, vidi una insegna,
     Che girando correva tanto ratta,
     Che d’ogni posa mi pareva indegna:
55E dietro lei venia sì lunga tratta8
     Di gente, ch’io non averei creduto,
     Che morte tanta n’avesse disfatta.
58Poscia ch’io n’ebbi alcun riconosciuto,
     Vidi, e conobbi l’ombra di colui,
     Che fece per viltà il gran rifiuto.
61Incontanente intesi e certo fui,
     Che questa era la setta de’ cattivi
     A Dio spiacente, et a’ nimici sui.
64Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
     Erano ignudi, e stimolati molto
     Da mosconi e da vespe, ch’erano ivi.
67Elle rigavan lor di sangue il volto,
     Che mischiato di lagrime, a’ lor piedi
     Da fastidiosi vermi era ricolto.
70E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
     Vidi gente alla riva d’un gran fiume:
     Perch’io dissi: Maestro, or mi concedi,
     73Ch’io sappia quali sono, e qual costume
     Le fa di trapassar parer sì pronte,
     Com’io discerno per lo fioco lume.

76Et elli a me: Le cose ti sien conte,
     Quando noi fermerem li nostri passi
     Su la trista riviera d’Acheronte.
79Allor con li occhi vergognosi e bassi,
     Temendo che il mio dir li fosse grave,9
     Infino al fiume del parlar mi trassi.10
82Et ecco verso noi venir per nave
     Un vecchio bianco per antico pelo
     Gridando: Guai a voi, anime prave,
85Non isperate mai veder lo Cielo:
     Io vegno per menarvi all’altra riva
     Nelle tenebre eterne in caldo, e in gielo.
88E tu, che se’ costì, anima viva,
     Partiti da cotesti, che son morti:
     Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
91Disse: Per altra via, per altri porti11
     Verrai a piaggia, non qui, per passare:
     Più lieve legno convien che ti porti.
94E il duca a lui: Caron, non ti crucciare:
     Vuolsi così colà dove si puote
     Ciò che si vuole; e più non dimandare.
97Quinci fur quete le lanose gote
     Al nocchier della livida palude,
     Che intorno alli occhi avea di fiamme rote.
100Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
     Cangiar colore, e dibattèr li denti,
     Ratto che inteser le parole crude.
103Biastemavano Idio e’ lor parenti,12
     L’umana spezie, il loco, il tempo, e il seme
     Di lor semenza, e di lor nascimenti.

106Poi si ritrasser tutte quante insieme,
     Forte piangendo, alla riva malvagia,
     Ch’attende ciascun uom, che Dio non teme.
109Caron demonio, con occhi di bragia,
     Loro accennando, tutte le raccoglie:
     Batte col remo qualunque s’adagia.
112Come d’autunno si levan le foglie,
     L’una appresso dell’altra, infin che ’l ramo
     Vede alla terra tutte le sue spoglie;
115Similemente il mal seme d’Adamo:
     Gittansi di quel lito ad una ad una,
     Per cenni, come augel per suo richiamo.
118Così sen vanno su per l’onda bruna,
     Et avanti che sien di là discese,
     Anco di qua nuova schiera s’aduna.
121Figliuol mio, disse il Maestro cortese,
     Quelli che muoion nell’ira di Dio,
     Tutti convegnon qui d’ogni paese,
124E pronti sono a trapassar lo rio:
     Chè la Divina Giustizia li sprona,
     Sì che la tema si volve in disio.
127Quinci non passa mai anima buona:
     E però se Caron di te si lagna,
     Ben puoi saper omai che il suo dir suona.
130Finito questo, la buia campagna
     Tremò sì forte, che dello spavento
     La mente di sudor ancor mi bagna.
133La terra lagrimosa diede vento,
     Che balenò una luce vermiglia,
     La qual mi vinse ciascun sentimento;
136E caddi, come l’uom, cui sonno piglia.

  1. v. 13. I nostri codici ànno di frequente elli, delli e simili in vece di egli, degli. In ciò non vogliamo punto alterare la grafia, memori che gli antichi a mo’ de’ Romani e Trovatori mettevano due ll dove noi gl. E.
  2. v. 17. C. M. genti.
  3. v. 30. C. M. al turbo.
  4. v. 36. sanza infamia.
  5. v. 39. Terminata in o la terza singolare del verbo primitivo al passato singolare, ne venne la terza plurale con la solita giunta del ro o rono: Fuo-ro, fuo-rono. E.
  6. v. 40 C. M. Cacciarli.
  7. v. 51. Non ragionian.
  8. v. 55. C. M. li venia.
  9. v. 80. no ’l mi dir.
  10. v. 81. di parlar.
  11. v. 91. C. M. Per altre vie.
  12. v. 103. Biastemare o blastimare è voce tuttora viva nel popolo toscano, e viene dal blastimar de’ Trovatori. E.





C O M M E N T O


Per me si va nella città dolente ec. In questo terzo canto lo nostro autore incomincia il trattato del suo poema ponendo, com’elli guidato da Virgilio entrò nell’inferno, e principalmente fa due cose in questo canto: imperò che prima pone come entrò nell’inferno e quel che trovò nel primo andito dell’inferno innanzi che venisse al fiume Acheron; nella seconda parte, che sarà la seconda lezione, pone come pervenne al fiume, quivi: E poi ch’a riguardar oltre mi diedi ec. La prima che è la prima lezione si divide in 6 parti: imperò che prima1 pone quel che vide sopra la porta dell’inferno, e come di ciò spaurito ricorse a Virgilio. Nella seconda pone come Virgilio lo conforta, quivi: Et elli a me, come persona accorta ec. Nella terza pone quello che sentìe dentro alla porta, e come ne domanda Virgilio, quivi: Quivi sospiri ec. Nella quarta pone la risposta che fece Virgilio, quivi: Et elli a me ec. Nella quinta pone una domanda ch’elli fa a Virgilio, e la risposta che Virgilio li fa di ciò, quivi: Et io, Maestro ec. Nella sesta pone come vide quel che prima aveva sentito, quivi: Et io, che riguardai ec. Divisa la lezione ora è da vedere la sentenzia litterale la quale si continua così.
     Poi che Virgilio ebbe preso il cammino, et io Dante dietro a lui, venimo2 ad una porta sopra la quale era questa scritta: Per me si va nella città dolente: Per me si va nell’eterno dolore: Per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto Fattore: Fecemi la Divina Potestate, La somma Sapienzia, e il primo Amore. Dinanzi a me non fur cose create, Se non eterne, et io eterna duro: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. La quale scritta poi ch’io ebbi letta, spaurito per questo ultimo verso, cioè: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate, ricorsi a Virgilio e dissi: Maestro, la sentenzia di questo ultimo verso m’è dura, quasi dicesse: Io ò paura d’entrare. Allora Virgilio, come persona accorta, mi rispose: Qui si convien lasciare ogni sospetto; et Ogni viltà ec. Noi siamo venuti al luogo ov’io ti dissi che tu vedrai li dannati, e presomi per la mano mi tirò dentro alla porta, e qui io udi’ risonare per l’aere nero, che quivi era sospiri, pianti, et alti3 guai, onde per pietà io ne cominciai a lagrimare. In quello aere nero si udiva uno tumulto che s’aggirava per quell’aere così, come la rena s’aggira al turbine del vento, e questo procedea da orribili linguaggi, e diverse lingue, e parole dolorose, con profferimenti d’ira, da voci alte e fioche, e suoni di mani; per la qual cosa io Dante domandai Virgilio che era quello ch’io udiva, e quale era quella gente che parea sì vinta nel dolore. Allora Virgilio mi rispose, che questo modo misero teneano l’anime triste di coloro, che vivettono nel mondo sanza fama e loda, e sono mescolate alla compagnia delli angeli cattivi che non furono però rebelli a Dio, nè ancora furono con Dio; ma stettono per sè nella discordia che mosse il lucifero dopo la creazione loro, contro a Dio, e non possono stare nelli cieli, che se ne assozzerebbono d’essi; nè non sono nel profondo dell’inferno: però che alcuna gloria avrebbono i dannati di loro. Oltra questo io Dante addimandai ancora Virgilio, e dissi: Maestro, che è loro tanto greve, che li fa lamentare sì forte? Rispose Virgilio: Io tel dirò in brieve. Questi non ànno speranza di morte, e la lor cieca vita è tanto bassa che sono invidiosi d’ogni altra sorte. Il mondo non lascia essere fama di loro: misericordia e giustizia li rifiuta. Non ragionare più di loro; ma guarda quel che vedi e passa. Et io Dante, ragguardando vidi una insegna che correa in giro, come in giro era il luogo dove eravamo, tanto ratta che non parea che mai si dovesse posare, e dietro ad esse veniva una lunga traccia di tanta gente, ch’io non avrei mai creduto che tanta ne fosse morta, della quale alcuno conobbi, e massimamente colui che fece per viltà lo grande rifiuto. Incontanente io intesi che questa era la setta de’ cattivi spiacenti a Dio, et a’ suoi nimici, et erano questi sciagurati, che mai non si può dire che fossono vivi, ignudi e stimolati da mosconi, e da vespe ch’erano quivi, e da lor volto cadea sangue mischiato con lagrime, ch’era ricolto giù da’ lor piedi da vermini fastidiosi. E qui finisce la sentenzia litterale della prima lezione, ora è da vedere il testo con le moralità ovvero allegorie.

C. III - v. 1-12. In questi primi quattro ternari il nostro autore finge che menato da Virgilio elli giunse ad una porta, sopra la quale era scritto queste parole, nelle quali s’induce a parlare la porta, e fa l’autore due cose: chè prima pone la scritta che vide; nella seconda narra come la vide e come impaurito di ciò, ricorse a Virgilio, quivi: Queste parole ec. Dice adunque prima che la scritta parlando della porta, diceva: Per me; cioè per me porta, si va nella città dolente; cioè nell’inferno che è pieno di dolore. Non che propriamente si chiami città; ma abusivamente: imperò che quivi non è concordia di cittadini; ma quivi è continua discordia: imperò che v’è sommo odio; come in vita eterna è perfetta carità. Per me; cioè per me porta, si va nell’eterno dolore; cioè nel dolore che non dee mai aver fine, e ponsi qui eterno per perpetuo: imperò che eterno propiamente non ebbe mai principio nè fine; ma perpetuo non dee aver fine, benchè abbia avuto principio, come l’inferno ch’ebbe principio, come si dirà incontanente, benchè non debba mai aver fine. Per me; cioè per me porta, si va tra la perduta gente; quanto alla grazia. Giustizia mosse il mio alto Fattore. Parla ancora la porta dicendo che Idio per giustizia si mosse a fare l’inferno, il quale è significato per la porta: chè in questo parlar presente l’autore pone la parte per lo tutto, secondo l’uso de’ rettorici, lo quale inferno fu creato da Dio per punire li rei: imperò che secondo la giustizia si richiedea che fossono puniti li rei, come remunerati li buoni. Fecemi la Divina Potestate; cioè il Padre, al quale s’attribuisce la potenza del creare, fece me porta perchè di ciò fare niuno avrebbe avuto potenza, se non Idio. La somma Sapienza; cioè il Figliuolo, a cui è attribuita la sapienza d’ordinare le cose create, fece me porta: però che di ciò fare niuno avrebbe avuto il sapere, se non Idio, e il primo Amore; cioè lo Spirito Santo, a cui s’attribuisce l’amore di conservare le cose create, fece me porta: imperò che di far ciò niuno avrebbe avuto volontà, se non Idio il quale non vuole se non bene, e la giustizia è bene. Dinanzi a me non fur cose create. Parla ancora la porta dicendo che nulla cosa fu creata dinanzi a lei: imperò che quando Idio fece il mondo, il primo di’ che fece il cielo e la terra, fece ancora l’inferno, sì che in uno stante insieme fu creato l’inferno con le prime cose create, sì che niuna cosa creata fu dinanzi a lui; ma insieme con lui, e ponsi qui la porta per lo inferno, come detto è di sopra. Et intende l’autore della creazione del mondo, secondo che tiene la santa Scrittura che il primo di’ Idio creasse lo cielo, la terra e l’acque, et allora creasse l’inferno nel centro della terra, quivi ove l’autor mostra nel poema che sia, onde ben dice che innanzi a lui non fur cose create, Se non eterne; cioè se non Idio che è ab eterno: però che non ebbe mai principio. Et io eterna duro; in eterno, cioè in perpetuo: chè non debbo mai aver fine, e ponsi qui la parte per lo tutto: imperò che si pone la porta per l’inferno. Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Diceva ancora la scritta: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate nell’inferno: però che mai non ne dovete uscire. Ora dice l’autore che, veduta questa scritta, impaurito ricorse a Virgilio onde dice: Queste parole; che sono scritte di sopra, di colore oscuro Vid’io; cioè Dante, scritte al sommo d’una porta; cioè sopra l’arco della porta dello inferno, di colore oscuro come si convenia a quel luogo, ove ogni cosa è nera e tenebrosa, e però dice scuro e non chiaro. Perch’io: Maestro; cioè per la qual cosa io dissi: Maestro, il senso lor; cioè il significato loro, m’è duro: imperò che dura cosa mi pare dovere entrare in sì fatto luogo e massimamente, perchè dice: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Non vuol già dire l’autore che li paia duro l’intelletto delle parole; ma che li apparea dura sentenzia questa, sicchè ne avea paura, come apparirà per la risposta di Virgilio. Ora qui è da considerare, che questa porta che l’autore finge litteralmente all’inferno, allegoricamente s’intende il principio della vita viziosa che mena l’uomo a disperazione in questo mondo: imperò che allegoricamente di ciò intese l’autore, della quale ciascuno può leggere nella mente sua quello che è scritto di sopra la porta; cioè che per essa si va nella città dolente che è la congregazione delli disperati, e per essa si va nell’eterno dolore: imperò che in tal vita è dolore sempre e continuo, e dopo la vita sua nel dolore perpetuo, e per essa si va tra la perduta gente e che per giustizia fu fatto da Dio4 chi entra in tal vita non uscisse mai, e che questa parte punitiva di giustizia fu fatta da Dio siccome5 con le cose create primamente: imperò che infino allora volle questo; sì che questa creazione si dee intendere, secondo la volontà divina la quale sempre è giusta: imperò che, secondo atto non fu, se non quando li uomini cominciarono a pigliar tal città6: e che queste cose ciascuno che le considera le vede scritte nella mente sua di colore scuro; cioè d’apparenzia che genera oscurità nella mente: e che la sensualità pensando sopra questo ne spaurisce, e però ricorre a Virgilio; cioè alla ragione.

C. III - v. 13-21. In questi tre ternari finge l’autore che Virgilio avvedutosi della sua paura, lo confortò e tirollo dentro. 7 Et elli; cioè Virgilio, a me; cioè Dante disse, come persona accorta; che s’avide ch’io era invilito: Qui si convien lasciare ogni sospetto; cioè in questo luogo; cioè nell’entrata si vuole lasciare ogni sospetto di paura. Ogni viltà convien, che qui sia morta; cioè ogni viltà d’animo conviene che in questo incominciar si lasci, e per questo si può comprendere che il dubitar di Dante fu per paura di quelle parole ch’erano scritte, e massimamente per quello ultimo versetto: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Aggiugne Virgilio per confortar Dante: Noi siam venuti; cioè tu et io, al loco ov’io t’ho detto; cioè ov’io ti dissi nel primo canto, Che tu vedrai le genti dolorose; cioè li dannati, sicchè la città dolente, e l’eterno dolore, e la perduta gente, e lasciar la speranza s’intende per loro, e non per te. Ch’ànno perduto il ben dell’intelletto; cioè di Dio, il quale è bene dell’intelletto umano, lo quale tanto è beato quanto lui pensa e lui intende. E poichè la sua mano alla mia pose; cioè poi che mi prese per la mano, con la sua mano. Con lieto volto; che mostra non paura ma sicurtà, ond’io mi confortai; cioè per la letizia del volto, io Dante mi confortai e presi speranza. Mi mise dentro alle secrete cose; cioè dentro dalla porta dell’inferno mi tirò, ove sono le cose segrete le quali niuno vivo può sapere, se non per revelazione, o per fede; et allegoricamente si dee intendere che la ragione conforti la sensualità per lo modo sopraddetto, quando teme d’entrare a considerare e conoscere sì fatta vita, acciò che sappia poi fuggire e dispregiare.

C. III - v. 22-33. In questi quattro ternari l’autore finge che poi che fu entrato nell’inferno per lo modo che fu detto di sopra, elli udì molti suoni di dolore, per la qual cosa domandò Virgilio, onde dice: Quivi; cioè in quel luogo ove Virgilio m’avea tirato, sospiri; che significano ansietà di cuore, pianti; che significano dolore, et alti guai; cioè alti8 voci di dolore, come grida et urli, Risonavan per l’aer sanza stelle; cioè per l’aere dell’inferno ove non sono stelle, Perch’io; cioè per la qual cosa io Dante, al cominciar ne lagrimai; perchè io non sapeva la cagione, al principio n’ebbi compassione. Diverse lingue; e per questo vuol significare che v’erano genti d’ogni linguaggio, orribili favelle; cioè parlari da far paura altrui, Parole di dolore, come a dire: Oimè! accenti d’ira; cioè modo di profferere che fa l’uomo quando è crucciato, voci alte; come a chi parla sopra voce usata, e fioche; come parla l’uomo quando è infreddato, e suon di man con elle; cioè e con quelle voci suoni di mani, cioè percotimenti dell’una man nell’altra; tutte queste cose insieme, Facevan un tumulto; cioè uno romore, il qual s’aggira; cioè sempre si ravvolge quel romore in giro: imperò che il luogo è tondo, secondo che finge l’autore sì, che il tumulto s’aggirava, Sempre in quell’aer sanza tempo tinta; cioè sempre in quell’aere tinto sanza tempo; cioè successione9: imperò che quivi non è successione di tempo: imperò che non succede la notte al di’, nè l’uno di’ all’altro, et ancora quivi non è tempo, perchè v’è perpetuità; o vogliamo intendere tinto sanza tempo, che l’aere era nero sanza tempo che ne fosse cagione, come a noi la notte quando è nubilosa, sicchè vuol dire, che quello era per propria natura del luogo, non per accidente. Come la rena quando a turbo spira. Fa una similitudine che così s’aggirava quello tumulto nell’aere, come s’aggira la rena nel mondo quando soffia il vento in giro. Turbo è impeto di vento; alcuna volta si piglia per lo giro come ora quivi, se il testo dice a turbo: imperò che s’intende quando il vento spira, cioè soffia a turbo, cioè a giro; ma se dicesse quando turbo spira, s’intenderebbe, quando l’impeto del vento che va in giro, soffia. Et io; cioè Dante, che avea d’error la testa cinta; cioè ch’era in errore di quel tumulto, Dissi: Maestro; a Virgilio, che è quel ch’io odo? E che gente ec.? Domanda se quella è gente: dubitava Dante, se quel tumulto che udiva, procedeva da gente, e però domanda: È quella gente? imperò che non comprendea che fosson voci, se non che poi ne fu certificato da Virgilio. che10 par nel duol sì vinta; cioè si stanca nel dolersi? Sopra questa parte doviamo notare che l’autore tratta del primo adito11 dell’inferno; cioè del primo spazio dentro dall’entrata, della divisione del quale dirò di sotto nel Canto iiii che comincia: Ruppemi l’alto sonno nella testa ec. Ma al presente doviamo sapere che l’autor finge che l’inferno abbia una porta per la quale s’entra, della quale fu detto di sopra, e che dentro della porta abbi uno spazio che va in giro e tiene dalla concavità della terra, che è come mura dell’inferno infino a uno fiume che è dopo questo spazio et ancor va in giro, che si chiama Acheron; e dentro dal fiume finge esser nove cerchi che l’uno è minor che l’altro infino al centro della terra, ove è il minor cerchio, di tutti di quali si dirà di sotto. Ora finge l’autore che in questo spazio allato alla crosta della terra, dentro dalla porta sieno puniti coloro, che sono vivuti in questo mondo sanza operare bene o male; e convenientemente li pone in questo luogo: imperò che costoro non si possono distintamente porre sotto alcune specie di peccato, e però non li dovea porre in alcuno de’ cerchi, ove sono distinte le specie de’ peccati come apparirà di sotto. E se volesse altri dire: Elli li dovea porre nel limbo; cioè nel primo circolo, si può rispondere che non era cosa convenevole: imperò che quelli di quel cerchio sono dannati quivi per lo peccato originale, e questi di tal peccato sono purgati per lo battesimo: imperò che l’autore intende che tutti costoro fossono cristiani. E non si può dire che li dovesse porre con li accidiosi; imperò che l’accidia dice solamente essere negligenzia intorno al bene; ma non dà ad intendere negligenzia intorno al male. Li accidiosi fanno ancora di grandissimi mali; ma costoro non fanno nè bene, nè male, se non che mangiano, e beono, e dormono secondo che è bisogno alla natura, e stannosi senza altro aoperare, e però questa fizione poetica è verisimile. Dubiterebbesi ancora da alcuno che sia impossibile che così fatti uomini si truovino che non facciano qualche cosa. A che si può rispondere che questi così fatti sono li vili d’animo e dubitosi, che discorrono di pensiero in pensiero, e mai non si diliberano di fare alcuna cosa; e se pure incominciano, incontanente la lasciano stare e vanno ad altro, e sempre d’altro in altro e così non fanno alcuna cosa. E convenientemente pone li loro dolori, questi; cioè sospiri, pianti, guai e alte voci, et in voci fioche, parole dolorose, parole irose, diversità di lingue, orribilità di parlari, e percussioni di mani: imperò che è conveniente cosa che in quella miseria che sono vivuti di qua, sieno ancora di là. E questi nove segni si convengono ancora alli uomini vecordi, de’ quali allegoricamente intende il nostro autore di trattare in questa prima lezione, et in loro si truovano, e per questi segni si possono conoscere; sicchè questo è fizione poetica dell’autore a dimostrare la condizione di sì fatti uomini essere vilissima, in quanto non sieno da essere posti nè tra buoni, nè tra rei, onde la lor vita si può dire morte. Questi così fatti tutto il tempo consumano in sospiri e pianti, che significano la tristizia del cuore; in guai alti e fiochi che significano lo scialo della impazienza delle passioni; in parole dolorose, et irose contra a sè medesimo, e contra altrui; in diversità di lingue: però che non stanno fermi in uno proposito nè in uno dire; in orribilità di parlare: imperò che sè medesimi da ogni opera spauriscono; in percussioni di mano, in quanto l’una opera impaccia l’altra, sicchè nulla fanno, dovendo fare la buona opera rimangonsene, sopravvenendo il pensiero della ria, e volendo cominciare la ria non si sanno deliberare, e così l’una mano ripercuote l’altra che nulla fanno. All’ultimo finge che la sensualità dimandi la ragione, in quanto dice ch’elli dimandò Virgilio che era quello che udiva, e quale era quella gente: imperò che di questi così fatti non si può avere conoscimento sensibile, o se sono buoni, o se sono rei; se non che la ragione pratica determina che non sono nè buoni, nè rei.

C. III - v. 34-42. In questi tre ternari l’autore pone la risposta che li fece Virgilio alla sua dimanda, dicendo: Et elli; cioè Virgilio disse, s’intende, a me; cioè Dante, Questo misero modo: però che i modi sono di persona posta in miseria, Tengon l’anime triste di coloro, Che visser sanza fama e sanza lodo; in questa vita s’intende, et è fama nome così di buone cose, come di rie; ma qui piglia l’autore più per lo nome delle cose ree, come recita Virgilio nel quarto, quando dice: Fama malum, qua non aliud velocius ullum, Mobilitate viget ec.: imperò che dice poi, e sanza lodo. È lodo virtù propriamente; ma qui si pone per lo lodamento che è diceria di colui che loda la virtù, sicchè l’uno; cioè la fama, pone l’autore in male, e l’altro; cioè lo lodo, puose in bene. Mischiate sono a quel cattivo coro; cioè questi tristi de’ quali è detto sono mischiati a quella compagnia, Delli angeli, che non furon rebelli, Nè fur fedeli a Dio; ma per sè fuoro. Qui pone l’autore una sua fizione poetica, che pare consonante alla ragione pratica, che ultra alli angeli che si levarono con Lucifero contra Dio, fossono di quelli che stessono in quel mezzo, che non fossono nè con Dio, nè con Lucifero; e questi così fatti sieno posti in questa prima parte dell’inferno ove non è spezialità neuna di peccato; ma bene ci è dannazione, e questo è ragionevole: imperò che Cristo disse nel Vangelio: Qui non est mecum, contra me est, et qui non colligit mecum, dispergit. Tiene bene la Chiesa che vi fossono di quelli, che fossono più colpevoli e meno, e li più colpevoli sieno nel profondo dell’inferno, e li meno sieno nell’aere, e sono quelli che fanno illusione alli uomini. Assegna la sua ragione, perchè sieno posti quivi, la quale è apparente: Caccianli i Ciel, per non esser men belli: però che in cielo non può stare cosa che non sia perfetta, Nè lo profondo Inferno li riceve, Ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli; cioè che sarebbe alcuna gloria e consolazione a’ rei angeli avere mischiati seco questi così fatti. Ma chi riguarda l’allegorica menzione vedrà essere vera la sentenzia dell’autore, e però appare che l’autore ebbe altra intenzione che pur quella della lettera del testo: imperò che, intendendo di quelli del mondo che non fanno nè bene, nè male quanto alla civilità del mondo: imperò che quanto a Dio chi non fa bene, fa male, è vero che sono mischiati con li demoni men colpevoli: imperò che meno colpevole è chi non fa nè bene, nè male quanto al giudicio mondano, che colui che fa male solamente. Et è vero che quelli così fatti sono nell’entrata dello inferno a rispetto di coloro che fanno pur male, che si possono dire essere nel profondo, quanto alla condizione e quanto alla obbligazione. Imperò che, se la virtù leva in alto l’animo umano, e il vizio el12 manda a basso, chi è più vizioso è più basso, e chi è men vizioso è men basso; sicchè chi non fa bene, nè male, è men basso che colui che fa pur male, sicchè ben si può dire che sia nella superficie della bassezza, che è significata per l’entrata dell’inferno. E quanto ad obbligazione, come li uomini fanno il peccato, sono obbligati alla pena, et a maggior pena è obbligato colui che fa maggior peccato che colui che fa minore; e però si può dire che chi in questo mondo fa più male sia obbligato a maggior pena, che colui che non fa nè bene, nè male, e secondo questa obbligazione si può dire che sia già nell’inferno, qual più basso, e qual meno, secondo la sua colpa.

C. III - v. 43-51. In questi tre ternari l’autore pone una sua domanda della pena ch’essi sostengono13, e la risposta che sopra essa li fa Virgilio. Dimanda adunque prima Dante, dicendo: Et io; cioè Dante, s’intende, domanda14 Virgilio: Maestro, che è tanto greve A lor; cioè grave a questi tristi, de’ quali è detto di sopra, che lamentar li fa sì forte; come manifestato fu in quelli nove segni di pene. Rispose; allora Virgilio, Dicerolti; cioè a te Dante, molto breve. Ben risponde brievemente quando dice: Questi non ànno speranza di morte; cioè costoro son fuori d’ogni speranza: imperò che eziandio sono privati della speranza della seconda morte, per la quale s’intende l’annichilazione, et in questo si manifesta la loro miseria, in quanto dice che vorrebbono innanzi essere annichilati, che vivere in tanta miseria, e soggiugne la lor miseria quando dice: E la lor cieca vita è tanto bassa, Che invidiosi son d’ogn’altra sorte. Per questo significa l’autore che sono tormentati dalla invidia che è gravissimo dolore, secondo che pone Orazio nel libro primo delle sue Epistole, ove dice: Invidia Siculi non invenere tyranni Maius tormentum ec.; quasi dica Virgilio a Dante: Questi sono in tanta oscurità, et in tanta bassezza che ogni altro stato pare loro migliore, che il suo; e però d’ognuno posto in qualunque stato ànno dolore: ecco la cagione perchè sono invidiosi d’ogni altro. Fama di loro il mondo esser non lassa. Quasi dica: Il mondo che secondo il suo costume dà fama a chi opera male, non lascia a costoro averla; cioè non la dà loro che non ànno fatto nè bene, nè male, e però sono invidiosi delli altri che ànno fama, de’ buoni che ànno lode manifesto è che sono invidiosi: imperò che per lor voglia ognuno sarebbe simile a loro; e qui si potrebbe dire che fama se pigliasse comunemente così in bene, come in male. Et attendendo15 allegoricamente di quelli del mondo, le parti sopra dette si deono sporre così: Che questi miseri ànno sì vile animo che in niuna cosa ànno speranza, eziandio nella morte corporale che finisce le miserie corporali non sperano, e la lor cieca vita, imperò ch’ànno perduto il ben dell’intelletto, è tanto bassa che sono invidiosi d’ogni altro stato, e che il mondo nel quale vivono così miseramente, non lascia essere fama di loro: imperò che secondo sua usanza non dà fama, se non a chi opera grandi beni e grandi mali: però che vengono a ben dell’universo; ma questi così fatti non possono essere al bene dell’universo, e però di loro si tace. Misericordia e Giustizia li sdegna; misericordia e giustizia sono due virtù le quali Idio insieme adopera verso l’umana generazione; e come dice santo Augustino quanto al fine, considerando che alquanti delli uomini si salvano, e alquanti delli uomini si dannano, sono divise; ma considerando pur li santi, sono mischiate insieme: imperò che la beatitudine de’ santi è sempre del dono della grazia e del merito della giustizia. Ma qui parla l’autore poeticamente dicendo: Che la misericordia e la giustizia li sdegna; cioè li ànno a vile e non li degnano di sè; cioè che poco si curano di loro, sì come appare nella misericordia che al tutto li lascia sì, come coloro ne’ quali non si trova nessuno bene, e la giustizia poco si cura di loro in quanto li punisce leggiermente; cioè nell’entrata dell’inferno, e non li pone sotto certa regola di giustizia, se non sotto l’universale dannazione in quanto li pone nell’inferno; ma intendendo allegoricamente di quei del mondo, è vera la sentenzia, intendendo della giustizia, e misericordia umana: imperò che li uomini misericordiosi non reputano questi così fatti degni di misericordia, nè li giusti li sanno condannare, ma passanli come cosa vile da non curarsene, e secondo questo intelletto è vera la sentenzia dell’autore: chè secondo il primo conviene intendersi contra la verità della santa Teologia, secondo parlar fittivo come è sposto di sopra. Non ragionar di lor; ma guarda e passa; ammonisce Virgilio Dante che di lor non ragioni; ma guardi la lor miseria e passi oltre, e questa dice per confermare quel che à detto di sopra, che il mondo non lascia essere fama di loro: et allegoricamente la ragione ammonisce la sensualità che di sì fatti non cerchi di sapere; ma lascili come vili, guardando la loro miseria, e partendosi da essa.

C. III - v. 52-69. In questi sei ternari l’autore pone altre pene che sostengono quelli miseri de’ quali è stato detto di sopra, et occultamente tocca la storia d’alcuno che cadde in simile peccato. Dice: Poi che Virgilio m’ammonì ch’io non ragionassi di loro; ma guardassi e passassi oltre, Et io; cioè Dante, che riguardai; in quel luogo, vidi una insegna. Finge l’autore che costoro andassono in circuito, secondo il giro dell’inferno, dietro a una bandiera, Che girando correva tanto ratta, Che d’ogni posa mi pareva indegna; cioè non mi pareva che mai si dovesse posare: E dietro lei venia sì lunga tratta; cioè dietro all’insegna, Di gente, ch’io non averei creduto, Che morte tanta n’avesse disfatta; cioè sì grande traccia era dietro alla insegna di genti, ch’io non avrei creduto che mai tanti ne fossono morti, e per questo pare che il numero di questi miseri fosse grandissimo. Questa pare conveniente pena a costoro, che mai non ànno voluto fare alcuna cosa che sieno posti a sempre correre in giro, a ciò che non abbino mai fine, e mai non si posino coloro che sempre si sono posati e sono vivuti pur per mangiare, e bere, e dormire come le bestie, e corrono dietro all’insegna della carnalità, che sono stati nel mondo seguitatori pur del corpo, et a lui ànno sottoposto l’animo, e veramente di costoro è stato grandissimo numero, et è ancora nel mondo. Poscia ch’io; cioè Dante, n’ebbi alcun riconosciuto; di questi cattivi, Vidi, e conobbi l’ombra di colui, Che fece per viltà il gran rifiuto. Notantemente l’autore non ne nomina alcuno d’essi: però che li reputa indegni di fama; ma li esponitori dicono che costui che conobbe Dante che lo descrive che fece il gran rifiuto; cioè che rifiutò gran cosa per viltà d’animo, fu papa Celestino, il quale fu cavato dell’eremo e fatto papa dopo la morte di papa Nicolao delli Orsini papa quarto, e per viltà di cuore, non dicendoli il cuore di sapere governare la chiesa, et ancora a petizione et ad istanzia di cardinali e dello imperadore Carlo secondo in Napoli rinunciò al papato. Ma quanto alla verità non fu così, che per viltà rinunciasse; ma per vera umiltà, non vedendosi di potere fare per la chiesa di Dio16 sanza danno dell’anima sua, inducendolo ancora a ciò la improntitudine de’ cardinali et ancora di cardinale17 che dopo lui fu papa, chiamato Bonifazio VIII. Il quale essendo procuratore in corte, e vedendo i cardinali mal contenti di sì fatto papa e lui ancora18 essere in sì fatto ufficio, del quale si reputava indegno19, si proferse ai cardinali che se li voleano promettere di chiamar papa cui elli dicesse dopo lui, ch’elli lo farebbe rifiutare; e fattali la promessione, costui cominciò a mostrare al papa ch’elli non facea per la chiesa, nè la chiesa per lui: imperò che ella avea perdute molte delle sue tenute, e che avrebbe bisogno d’uno che le racquistasse, e che s’elli intendesse a ciò, farebbe contra l’anima sua guerreggiando. Et oltre a questo ordinò uno buco, che veniva sopra lo letto del papa, avendosi fatto dare una camera a lato a quella del papa, abitando di di’ e di notte con lui, perchè il papa sopraddetto si fidava molto di lui, et a certe ore della notte metteva uno cannone per questo buco e diceva al papa ch’elli era l’agnolo mandato da Dio, e comandavali da parte di Dio che lasciasse il papato, e questo fece molte volte tanto, che il papa consigliandosi con lui prese partito di rifiutare: et allora se n’andò a’ cardinali e fecesi dare tutte le voci con fermezza, et avutele fece rinunciare al detto papa, e fatta la renunciazione elli fu co’ cardinali e prese l’ammanto20 di san Piero e tenendolo in mano disse: Voi siete bene contenti d’avermi date le voci ch’io possa far papa ch’io voglio, et a cui io metterò questo ammanto, voi tutti confermate che sia papa; e risposto sì e fatte le solennità e cautele che di tanta cosa si richiedeano, elli mise l’ammanto a sè, et in questo modo fu fatto papa Bonifazio, e confermato poi da’ cardinali con l’aiuto de’ Colonnesi che lo favoreggiarono molto, perchè non fosse nessuno delli Orsini. E per questo modo papa Celestino rinunciò al papato, per tornare all’eremo onde s’era partito, et ebbe nome Pietro Morone e dopo la morte sua per sua santa e buona vita fu canonizzato per papa Clemento e posto nel catalogo de’ santi e chiamato santo Pietro confessore. Ma perchè Dante compose questa comedia innanzi che fosse canonizzato, forse in questo luogo lo pose, avendo pur rispetto alla viltà dell’animo, che non sapesse sedere nella sedia di Roma; e però altri voglion dire che Dante in questo luogo intendesse d’Esaù figliuolo d’Isach figliuolo d’Abraam, che per una scodella di lenti che Iacob suo fratello li diede, rinunziò alla benedizione paterna, e questa storia non verrebbe contro alla determinazione della chiesa21. Et aggiugne: Incontanente intesi e certo fui; io Dante, Che questa era la setta de’ cattivi A Dio spiacente, et a’ nimici sui. Questi uomini vecordi et ignavi che ben s’adoperano in nulla, se non a nutricare il corpo come bestie, dispiacciono a Dio, et al mondo, et al diavolo. Questi sciaurati, che mai non fur vivi. Ben si può dire che mai non fossono vivi: imperò che non ànno operato, come dee operare chi vive, le virtù e le buone operazioni. Onde Sallustio nel proemio del Catellinario dice di questi così fatti: Eorum ego vitam mortemque iuxta aextumo, quoniam de utroque siletur. E il Savio dice: Otium sine litteris mors est et vivi hominis sepultura. Erano ignudi. Ecco l’altra pena conveniente a loro. e stimolati molto Da mosconi e da vespe, ch’erano ivi. Questo si conviene a chi è stato pigro in questa vita, che poi nell’altra sia stimolato da mosconi e da vespe, vili animali, siccome vile è stata questa vita, et occupata a disutili pensieri, nudo d’ogni difensione. Elle rigavan lor di sangue il volto; cioè si bagnava il volto di sangue che uscia delle punture, e gocciolava giù lo sangue mischiato con le lagrime: e benchè dica il volto, intende di tutto il corpo; ma dice dal volto per mostrare che cominciavano dal capo quelle punture et andavano infino a’ piedi: Che mischiato di lagrime, a’ lor piedi Da fastidiosi vermi era ricolto; dal volto ai piedi, e quivi era ricolto da fastidiosi vermi. Questi vermi si può dire che fossono serpi, botte22, et altri fastidiosi vermi, reptanti come sono quelli che genera la terra; e questa è conveniente pena al loro peccato: imperò che come ànno dato tutta la lor vita a vili pensieri e passioni; così sieno privati del sangue, in che sta la vita, da pungenti e stimulosi animali; benchè potremo dire che l’autore volesse intendere che i demoni, che sono in quel luogo in sì fatta forma di vespe e mosconi, mosche e tafani e simili noiosi animali, stimolino quelli peccatori e cavino lo sangue dal volto infino a’ piedi: imperò che tutto lo corpo ànno dato a vilissimo ozio. Aggiugnevi le lagrime, a denotare il dolore che sostengono essere con grande dispiacimento et afflizione: imperò che le lagrime significano dolore: però che in esse prorompe il dolore e dimostrasi di fuori, et è conveniente cosa che sia ricolto da fastidiosi vermi, siccome i loro pensieri ch’andavano poi in vilissime occupazioni. Potrebbesi qui muovere uno dubbio, secondo la lettera; cioè se nell’inferno sono punte l’anime, come dice l’autore che n’usciva sangue: imperò che l’anima non è corpo ch’abbi sangue, ella è spirito, e lo spirito non à carne, nè sangue? A questo si può rispondere quel che dice questo autore determinando questo dubbio nella seconda cantica 25 canto che, come vuole Idio, l’anima uscita del corpo piglia corpo d’aere, e per quel corpo finge l’autore che fossono visibili a lui l’anime passate di questa vita, e che piagnessono e ridessono, e facessono tutti li altri atti che fanno l’anime, che sono nelli corpi della carne del mondo; e per questo si verifica ciò che di loro si dirà nel processo del libro. Ora è da notare che allegoricamente questa pena si trova ne’ miseri cattivi, che in tale modo vivono in questo mondo: imperò che se bene si considera, questi così fatti sono nudi d’ogni operazione et occupazione virtuosa, e poi sono tutti punti dal capo a’ piedi da’ mosconi e vespe; cioè da vilissimi e noiosissimi pensieri e cocenti23, li quali cavano il sangue del corpo; cioè consumano la vita: imperò che per lo sangue s’intende la vita, e da fastidiosi vermi è ricolto a’ piedi loro; cioè le loro affezioni sono accompagnate con occupazioni vilissime, e fastidiosissime nelle quali s’occupa e consuma la lor misera vita, et è mischiato con lagrime: imperò che tutta la lor vita è piena di dolore e tristizia. E qui finisce la prima lezione.
     E poi ch’a riguardar ec. Nella lezione passata l’autore tratta del primo luogo dentro alla porta dell’inferno, ove à posto la miseria de’ cattivi vivuti nel mondo sanza fama e loda, ora tratterà dell’avvenimento suo al fiume dell’inferno chiamato Acheron. Et in questa lezione fa sei cose: imperò che si divide in sei parti: imperò che prima pone come vide il fiume Acheron, e grande moltitudine di genti intorno ad esso, e come di ciò dimanda Virgilio, e com’elli risponde. Nella seconda, come appressato al fiume vide un vecchio chiamato Caron venire in su una nave per lo fiume, e quel che disse a quell’anime ch’erano alla proda, e quel che disse anche a lui, e come Virgilio li rispose, et incomincia qui: Et ecco verso noi ec. Nella terza pone quello che l’anime feciono, udite le grida di Caron, e come Caron le ricolse in nave, et incomincia qui: Ma quell’anime ec. Nella quarta pone una similitudine al navicamento di quella nave a passar lo fiume, e comincia qui: Come d’autunno ec. Nella quinta pone come Virgilio li dichiara chi sono quelli che passono24 a lo fiume, e perchè Caron non à voluto passar lui, e comincia quivi: Figliuolo mio, disse ec. Nella sesta et ultima parte pone un nuovo accidente che avvenne di tremuoto, baleno e vento, e come cadde in terra addormentato, e comincia qui: Finito questo ec. Divisa la lezione è da vedere, secondo l’ordine usato, la sentenzia litterale la quale è questa.
     Dice l’autore che attraversando il primo giro dentro della porta dello inferno di qua dal fiume Acheron, andando per diritto, oltre ov’elli avea veduti i miseri cattivi, de’ quali fu detto di sopra, ragguardando più oltre vide una gente alla riva d’uno gran fiume, per ch’elli pregò Virgilio che li concedesse ch’elli sapesse che gente era quella, e qual costume le facea sì pronte di trapassare lo fiume. E Virgilio allora rispose che li sarebbe manifesto ciò che volea sapere, quando si fermeranno in su la riva del fiume. Allora Dante vergognoso, con li occhi bassi temendo che il parlar suo fosse grave a Virgilio, si ritrasse dal parlare infino al fiume; e quando furono al fiume vide venire in verso loro in su una nave uno vecchio canuto, che gridava: Guai a voi, anime rie. Non sperate mai di vedere lo cielo: chè io vengo per menarvi all’altra riva nelle tenebre eterne in caldo et in gielo, e verso Dante parlando disse: E tu, che se’ costì anima viva, Partiti da cotesti, che son morti. E poi che vide che Dante non si partia, disse: Per altre vie e per altri porti verrai a piaggia per passare; ma non qui: chè convien che ti porti più lieve legno che questo. Allora Virgilio lo chiamò per nome dicendo: Caron, non ti crucciare che questi passi questo fiume: vuolsi così in cielo, ove si può ciò che si vuole, e non voler sapere più. Allora Caron stette cheto, e quell’anime sgridate prima da lui, stanche e nude, cambiarono colore e cominciarono a tremare, poi che intesono le dure parole di Caron, e cominciarono a bestemmiare Idio et i lor parenti, e tutta l’umana specie et il tempo e il luogo e il seme loro, e poi si raggiunsono a quella malvagia ripa, ove va ciascuno che non teme Idio. Allora Caron con li occhi infiammati, accennandole le raccoglie tutte nella nave, e batte col remo qualunque penava ad andare. E come d’autunno caggiono le foglie delli arbori alla terra, infino che gli arbori tutti si spogliano; così tutte quelle anime ad una ad una passano dalla riva in su la nave, e navicano per lo fiume Acheron; et innanzi che discendessono di là, di qua si ragunava ancora nuova schiera. E dopo questo dice che Virgilio li parlò, dicendo: Figliuolo, quelli che moiono nell’ira di Dio, d’ogni paese tutti vengono qui, e sono pronti a trapassar questo fiume: imperò che la divina Giustizia li sprona, e così la paura si volge in desiderio. Per questo luogo non passò mai anima buona, et imperò se Caron non vuole passare te Dante, ben puoi vedere che importa il suo dire; cioè che tu se’ buono, e però non ti vuol passare. E dice che, finito il parlar di Virgilio, addivenne questo accidente; che quella campagna scura tremò sì forte, che per la paura ancora la mente si bagna di sudore, e la terra lagrimosa diede vento, del quale balenò una luce vermiglia sì fatta, che vinse ogni sentimento di Dante25, come l’uomo che s’addormenta; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere il testo con l’allegoria.

C. III - v. 70-81. In questi quattro ternari l’autore fa tre cose: imperò che prima pone quello che vide, e come pregò Virgilio che lo lasciasse andare a certificarsi di quello che vedea; nella seconda pone la risposta di Virgilio; nella terza pone la sua condizione dopo la risposta di Virgilio; e la seconda, quivi, Et elli a me ec.; la terza, quivi: Allor con li occhi ec. Dice adunque così nella prima: E poi ch’a riguardar oltre mi diedi; cioè io Dante, Vidi gente alla riva d’un gran fiume. Questo fiume nomina di sotto l’autore Acheronte, e finge l’autore che questo fiume vada in giro, e circondi lo primo cerchio dell’inferno, e conseguente ancora tutti li altri cerchi che sono dentro da esso digradati, come detto è di sopra; e che a questo fiume vengano tutte l’anime de’ peccatori per andare e passare ciascuna al luogo deputato per pena del suo peccato; e che a questo fiume stia uno demonio ch’elli chiama Caron, che con una navicella passa tutte l’anime di là, che vengono alla piaggia per trapassar di là, e questo apparirà di sotto nel testo. Seguita: Perch’io; cioè per la qual cosa io Dante, dissi: Maestro; a Virgilio, or mi concedi; cioè dammi licenzia, Ch’io; Dante, sappia quali sono; cioè quelle anime, e qual costume Le fa di trapassar parer sì pronte, Com’io discerno per lo fioco lume; cioè oscuro. Come è oscura ad intender la voce fioca, così si può dire lo lume fioco, quando non è chiaro; come la voce fioca, quando non è chiara. Pone la risposta di Virgilio dicendo: Et elli; cioè Virgilio, disse, s’intende, a me; cioè Dante, le cose ti sien conte; cioè manifeste, Quando noi; cioè tu et io, fermerem li nostri passi Su la trista riviera d’Acheronte. Ecco qui denomina lo fiume riviera e ripa, e però dice quando noi ci fermeremo in su la trista riva del fiume, tu vedrai quel che vuoi sapere ora. Allor con li occhi vergognosi e bassi. Dice gli occhi vergognosi; cioè volti in altra parte: imperò che quando l’uomo si vergogna, volge il volto in altra parte e calalo giuso, e però aggiunse, e bassi; cioè chinati, come dicesse allora vergognandomi. Temendo che il mio dir li fosse grave; cioè che il mio parlare gravasse Virgilio, Infino al fiume del parlar mi trassi; cioè mi ritirai dal parlare, e stetti cheto. E qui dimostra l’autore quanta reverenzia si dee avere dal discepolo in verso il maestro. Sopra questa parte non è allegoria: però che questo pone l’autore per continuare lo suo processo, se non sopra il fiume che qui si nomina, e non poi. E perciò doviamo sapere che i poeti fingono che lo inferno abbi quattro fiumi e così lo nostro autore; cioè Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito. E parlano i poeti in questo allegoricamente, intendendo del vivere viziosi delli uomini nel mondo: chè quel che sia nell’inferno non sa se non a cui Idio lo vuole rivelare. Possono ben fingere per una cotale convenienzia che questi fiumi sieno nello inferno: imperò che Acheron s’interpetra sanza allegrezza: veramente chi va allo inferno, principalmente è privato d’ogni allegrezza. Secondo trova Stige che s’interpetra tristezza, e questo è conveniente: chè chi va allo inferno, prima è privato d’allegrezza e poi è accompagnato di molta tristizia. Terzo truova Flegeton che s’interpetra ardente, e questo è conveniente secondo che dice la Teologia che nell’inferno è fuoco e arsione, sicchè prima è il peccatore privato d’allegrezza, poi ripieno di tristizia, poi arso nel fuoco e nel suo furore. E quarto trova Cocito che s’interpetra gelo, o vero pianto, e questo è conveniente secondo la Teologia che dice che nell’inferno è gielo e pianto, sicchè prima è lo dannato privato d’allegrezza, poi è ripieno di tristizia, poi arso nel fuoco e nella sua ira, e poi nel suo pianto e freddura d’ogni carità e sommerso nel profondo dell’inferno. E questo è vero, secondo i peccatori che vivono nel mondo, de’ quali allegoricamente intende l’autore: imperò che chi entra nella vita viziosa, che si può dire essere entrato nell’inferno, quanto alla condizione, et obbligazione, come mostrato è di sopra, principalmente è sanza allegrezza, e però tali uomini mai non sono veramente allegri; sicchè si può dire che passi Acheronte: appresso si riempie di tristizia, e così passa Stige: oltre s’intende26 nella ira e nel furore delle sue scellerate affezioni, e così s’attuffa27 in Flegetonte: e poi s’affligge in pianto et in dolore, raffreddandosi d’ogni carità, e così si bagna in Cocito, e qui si sommerge come nel profondo della vita viziosa. E non s’intende che l’autore voglia che ognuno li passi tutti: imperò che nel testo si mostra il contrario; ma alcuni sì, et alcuni infino all’uno et alcuni infino all’altro, secondo la diversità de’ peccatori. E questo intesono i poeti per li fiumi dell’inferno.

C. III - v. 82-99. In questi sei ternari l’autore dimostra quello che vide quando fu giunto al fiume, e fa quattro cose: però che prima pone come vide Caron venire con la nave, e quello che dicea a quell’anime; nella seconda pone quel che disse a lui, quivi: E tu che se’ ec.; nella terza pone la risposta di Virgilio, quivi: E il duca a lui ec.; nella quarta pone quel che seguitò della risposta, quivi: Quinci fur quete ec. Dice prima: Et ecco verso noi; cioè verso Virgilio, e me Dante, venir per nave Un vecchio bianco per antico pelo; era canuto per antichità, Gridando: Guai a voi, anime prave; cioè rie, dannate, Non isperate mai veder lo Cielo. Ecco come li priva di speranza. Io vegno per menarvi all’altra riva; del fiume Acheronte, Nelle tenebre eterne; cioè perpetue, in caldo e in gielo; cioè nello inferno, ove sono sempre tenebre, e caldo, e freddo. E volgendosi a Dante dice: E tu, che se’ costì, anima viva: però che Dante quanto alla verità, quando finge che vedesse questo, non era ancor morto, Partiti da cotesti, che son morti. E perciò non si partiva Dante, benchè il dicesse, onde aggiugne: Ma poi che vide ch’io non mi partiva; cioè io Dante, per lo suo dire, Disse; Caron: Per altra via, per altri porti Verrai a piaggia, non qui, per passare. Quasi dicesse: Tu verrai bene alla piaggia di là per altre vie che queste, e per altri porti che questi; ma non per passar qui: chè tu non passerai già per questo fiume in su questa nave. Più lieve legno convien che ti porti; che questa navicella: però che Dante addormentato si trovò portato di là, poi che si svegliò dal sonno, che finge che il prendesse, quando la fulgure venne, che dirà alla fine del canto. E per questo detto si può comprendere che Dante finge che fosse portato di là dall’Angelo, come si dirà di sotto: chè in su la nave non appare per nessun detto del testo che fosse portato. Qui si può muovere uno dubbio litterale, se Caron è dimonio, come finge l’autore, e per voluntà del dimonio ognuno anderebbe all’inferno, come finge l’autore che Caron accommiatasse lui e che non lo volesse portare in su la nave: con ciò sia cosa che il demonio riceva volentieri qualunque va a lui? A che si risponde che l’autore finge questo per mostrare la natura del dimonio, che sempre sotto specie di bene si sforza d’ingannare altrui, o a farlo cadere, o a rimuoverlo dal bene. Caron sapeva bene che Dante non era venuto per passare in sulla sua nave; ma che era venuto per vedere il passamento de’ dannati, per spaurire sè, e tutti li altri28, a cui lo farà manifesto, da sì fatta colpa chi e’ sieno obbligati a sì fatto passamento; e però per farlo tornare a dietro, e che ciò non vegga, nè facci manifesto, nè quel che è più oltre, l’accommiata; assegnandoli la ragione vera che elli è vivo e color sono morti, e il vivo non dee star coi morti; o vogliam dire che secondo la volontà di Caron, Dante sarebbe mescolato con li altri dannati. Ma perchè questo non permette la divina Giustizia, alla quale niuno può contrastare, però l’accommiata: però che non lo potea ricevere, con ciò sia cosa che Dante fosse nella grazia di Dio, con proposito di non uscire di quella. Che se Dante ne fosse voluto uscire, l’avrebbe ricevuto volentieri; ma sapea ben che no, e però aggiugne che poi che il vide stare fermo, li predisse che passerebbe per altra via e per altri porti, et in su più lieve legno che prima non li dicea, o per farlo tornare a dietro, o aspettando che Dante29 passasse, permutando proposito, e volesse essere de’ suoi. E il duca a lui. Pone la risposta di Virgilio. il duca; cioè Virgilio disse, intendesi, a lui; cioè a Caron: Caron. Ecco che lo nomina. non ti crucciare; perchè Dante sia venuto qui, e perchè non si parta: elli è venuto per passare: vuolsi così colà dove si puote Ciò che si vuole; cioè in cielo: imperò che ciò che vogliono li santi possono fare, et ellino non vogliono se non che quel che vuole Idio: imperò che la lor volontà sempre si conforma con la volontà di Dio. e più non dimandare. Per questo pose fine a molte obiezioni ch’avrebbe potute fare Caron, e similmente a molte domande ch’avrebbe potuto dire: Come ci passerà: chè questa nave non porta se non morti, e dannati? e Virgilio non li volea manifestare il modo, e però disse: e più non dimandare. Quinci; cioè per la risposta di Virgilio, fur quete; cioè acchetate, le lanose gote; cioè le canute gote, Al nocchier della livida palude; cioè a Caron ch’era nocchiere; cioè governatore della nave per quel fiume Acheron che lo chiama palude livida; cioè nera, perchè, come vogliono coloro che parlano de’ fiumi infernali, Acheron nasce nel fondo dell’inferno, e del suo ribocco si genera Stige, palude infernale, della quale nasce Cocito. E secondo Virgilio nell’Eneida nel sesto, Stige nove volte circunda l’inferno, onde Caron non solamente passa con la nave Acheron; ma Cocito e Stige in alcun luogo; e però ben si può chiamare nocchiere della palude ancora, e non osta perchè l’autore non faccia menzione altro che di Stige e Cocito: imperò che se Stige nove volte circunda l’inferno, e Cocito corre a tondo verso il fondo dell’inferno, verisimile è che ancora30 altro Dante vi debba trovare discendendo giuso. Che intorno alli occhi avea di fiamme rote. Per questo mostra che Caron avesse li occhi che fiammeggiavano d’intorno, e facevano ruote di fuoco intorno a sè. Ora è da vedere, perchè l’autore nostro fa questa fizione in questo luogo et appresso l’allegorica esposizione. E quanto al primo doviamo sapere, come detto fu di sopra, che questo fiume che l'autore finge che passano l'anime dannate, che si chiama Acheron, è a dire sanza allegrezza; e veramente l'anima che passa all'inferno, passa in luogo dove mai più non può avere allegrezza; e veramente di questo fiume si genera Stige, che s'interpetra tristizia, che si conviene ancora passare: imperò che chi va all'inferno perde non solamente allegrezza; ma ancora acquista tristizia; e di Stige si genera Cocito, perchè s'interpetra pianto, che si convien ancora passare: imperò che chi va all'inferno è sanza allegrezza e pieno di tristizia e di pianto, e passa in su la nave; questa nave significa la colpa della congregazione, e collegazione de' sette peccati mortali, e delle loro specie, sopra la quale passano tutte l'anime dannate: imperò che ciascuna à peccato in una o più di quelle specie, per la colpa del quale peccato è dannato all'inferno; e questo appare per lo testo, quando dice: Più lieve legno convien che ti porti. Lo nocchiere Caron, che l'autor finge che sia il demonio, è l'amore disordinato che guida l'anima per tutti i peccati, come si mostrerà per la divisione che si porrà di sotto; siccome l'amore ordinato guida31 l'anima per tutte le virtù; et intorno a questo, primo è da notare che niuno uomo è sanza amore e che l'obietto dell'amore è il bene: imperò che niuna cosa è amata, se non in quanto è bene o è creduto essere bene; et ancora32 è da notare che il bene o è eterno, o è temporale, e l'uno di questi due; cioè, temporale si divide in tre: imperò ch'elli è onesto, dilettevole et utile. Premesse queste cose, soggiungo ora queste conclusioni ancora; che allora è l'amore ordinato, quando il bene eterno s'ama assai quanto si dee, e lo bene temporale s'ama poco quanto si dee; et allora è l'amor disordinato quando il bene eterno s'ama poco, e lo bene temporale s'ama troppo. Et aggiungo questa divisione, se il bene eterno s'ama poco, allora se commette dall'amatore il peccato dell'accidia, e così il disordinato amore guida l'amatore in su la nave dell'accidia; e se il bene temporale onesto s'ama troppo, allora lo disordinato amore guida l'amatore in su la nave della superbia, dell'ira, e dell'invidia. E questo si dimostra così: imperò che o l'uomo ama eccellenzia di sè medesimo sopra tutti, et allora si commette il peccato della superbia, in quanto l'uomo vuole avanzare tutti li altri e segnoreggiare, e per avere questa eccellenzia ogni altro dispregia; o l'uomo ama conservazione di sè medesimo, e per questo si commette il peccato dell'ira, in quanto s'accende l'uomo a vendicarsi di chi l'à offeso, o à voluto offendere, o crede che voglia; o l'uomo ama parità di sè medesimo con tutti li altri, e così si commette il peccato della invidia, in quanto l’uomo à in odio qualunque l’avanza et à meglio di sè, e così l’amore disordinato guida lo misero amatore per questi tre peccati; cioè superbia, ira et invidia. Se il bene temporale dilettevole s’ama troppo, allora lo disordinato amore guida l’amatore in su la nave della gola e della lussuria: imperò che il bene dilettevole temporale dell’uomo, o è secondo lo gusto, o è secondo lo tatto; se è secondo il gusto, commette il peccato della gola; se è secondo il tatto, commette lo peccato della lussuria. E se il bene utile s’ama troppo, allora lo disordinato amore guida l’amatore in su la nave della avarizia, la quale è intorno al bene utile: e così appare come Caron; cioè lo disordinato amore, guida l’anime de’ miseri peccatori degnamente in su la nave de’ peccati all’inferno, il quale bene si può dire vecchio e canuto: imperò che questo disordinato amore cominciò infino alla natura angelica, in quanto vi fu di quelli che desiderarono troppa eccellenzia di sè medesimi. Et ancora si può dire avere li occhi focosi et infiammati: imperò che la ragione e lo intelletto dello amatore fa essere ardente di desideri insaziabili, come lo fuoco: imperò che eziandio colui che ama poco l’eterno bene, l’ama poco, perchè il minor bene; cioè lo temporale, ama troppo; e così appare che à ardente desiderio. E dice ancora il testo che guida per la livida palude; cioè per l’inferno che è luogo pieno di livore; cioè di mala volontà: imperò che quivi non si vuole se non male. Et ancora è conveniente cosa che tale amore sgridi l’anime dei peccatori: imperò che la coscienzia di sì fatto amore grida contro a ciascuno; e che accommiati Dante il quale era vivo, non pur quanto al corpo; ma quanto alla grazia di Dio, sicchè non dovea passare allo inferno come obbligato a pena; ma come conceduto d’andare per grazia; e che altre vie et altri porti sieno quelli di Dante: imperò che Dante passò per grazia, dovente ritornare e non quindi ov’è la via irremeabile; cioè non ritornevole; e che più lieve legno conviene che il porti che la nave: imperò che Dante finge essere portato dall’Angelo come si dirà di sotto, e non dalla nave che è gravissima, che è de’ peccati mortali. E che Virgilio risponda a Caron e faccialo star cheto si conviene: imperò che la ragione dee escusare la sensualità, quando non è colpevole. E che la volontà di Dio faccia stare cheti li demoni è convenevole, perchè nulla può resistere alla sua volontà, e debbasi33 notare che la risposta di Virgilio non è che Dante voglia passare in su la nave; ma è che stia fermo a vedere: imperò che a lui era conceduto dalla grazia di Dio vedere l’inferno tutto, e quel che si facea quivi, con l’intelletto mentale e farlo come sensibile a sè stesso, o a chi lo leggerà. Veduta la convenienzia34 della fizione quanto alla lettera, ora è da vedere l’allegorica esposizione come l’autore intendesse di quelli del mondo. Et a questo si può dire che questo fiume Acheron, a che giungono35 tutti li morti, sia l’ostinazione, alla quale viene il peccatore, poi che è morto nel peccato, quanto alla grazia di Dio: imperò che quando è venuto a quella, sempre è poi sanza allegrezza: imperò che prima non è privato d’allegrezza ch’elli può resurgere, e susseguentemente viene alla palude Stige; cioè a tristizia: imperò che sempre sta pieno di tristizia, e così poi a Cocito; cioè pianto: imperò che chi è in tristizia non è sanza pianto. E lo nocchiere Caron è il disordinato amore, come detto è di sopra, che guida il peccatore per sì fatti fiumi, o veramente lo demonio che di ciò à a tentare; e che la nave significa quello che è detto lo genere36 de’ peccati mortali con le loro specie; e che l’inferno ove passano è obbligazione alla pena perpetua, e lo stato infimo in che si trova tal peccatore. E che Dante vada a veder costoro s’intende per considerazione, e che sia accommiatato e che Virgilio risponda puossi dire che sia come risposta a chi dubitasse: Come Dante seppe queste cose? Provolle elli per esperienza? A che elli risponde occultamente che no; ma fulli dato a sapere dalla grazia di Dio.

C. III - v. 100-111. In questi quattro ternari l’autore fa due cose: imperò che prima pone che feciono quelle misere anime, poi che ebbono inteso Caron; nella seconda pone quel che fece poi Caron inverso loro, quivi: Caron demonio ec. Dice adunque così: che poi che Caron ebbe sgridato quell’anime, come detto è di sopra, e parlato a Dante dandoli commiato, e risposto li fu per Virgilio, quelle anime mutarono condizione, e però dice: Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude. Quasi dica: Virgilio rispose per me a Caron, come detto è, ma quell’anime ch’eran lasse; cioè stanche, e nude37 come di vestimenti, così d’ogni defensione, non feciono alcuna difensione se non che Cangiar colore; divenendo pallide, e dibattèr li denti; tremando di paura, Ratto; cioè tosto, che inteser le parole crude; cioè la sentenzia crudele di Caron detta di sopra. Biastemavano Idio. Qui si dimostra l’ostinazione dei dannati che insurge incontra Dio, e’ lor parenti; cioè biastemavano38 i lor padri e madi, L’umana spezie; cioè biastemavano tutti li uomini, come biastemavano biastemavano, il loco, il tempo, e il seme; cioè lo luogo ove fu la generazione loro e natività, e lo tempo quando fu, e lo seme onde fu la loro generazione, e nazione. Di lor semenza e di lor nascimenti. Quasi dica: Non solo biastemavano lo logo e il tempo e il seme di lor semente; cioè di loro generazione; cioè della loro natività che s’intende per le semente; ma eziamdio di lor nascimenti; cioè della loro natività. Differenzia è tra seme, e semente; imperò che seme è innanzi che si semini, semente è poi ch’è seminato; sicchè vuol dire che bestemmiavano lo luogo dov’ erano generati e nati, et il tempo quando furono generati e nati, e lo seme paterno e luogo materno, del quale e nel quale erano generati e nati. Questa bestemmia39 finge l’autore come conveniente a’ dannati: imperò che i dannati vorrebbono innanzi che Dio et ellino e tutto il mondo fosse annichilato, che essere dannati, o che ogni cosa parimente dannata fosse con loro. Poi ci ritrasser tutte quante insieme; le dette anime, Forte piangendo, alla riva malvagia; del fiume Acheron, che è bene malvagia: chè dà privamento d’allegrezza, Ch’attende; cioè la quale aspetta, ciascun uom, che Dio non teme; la riva d’Acheron aspetta ciascun che non teme Dio. Chi non teme Idio è dannato, et ogni dannato è aspettato da quella riva. Caron demonio. Ecco che lo nomina e ponlo per demonio, come si conviene alla sentenzia litterale. con occhi di bragia; cioè con occhi fiammeggianti, questo fu posto di sopra. Loro accennando, tutte le raccoglie; in su la nave. Lo cenno del dimonio, quanto a quelli del mondo, è la suggestione e il conforto e l’incitamento al peccato; ma quanto a quelli dell’inferno è lo rappresentamento del peccato commesso. Batte col remo qualunque s’adagia; cioè qualunque non va40 tosto. Lo remo di Caron che batte li miseri peccatori quanto a quelli del mondo, è la complacenzia delle cose mondane: imperò che con questo remo, l’amor disordinato fa andare li peccatori in su la nave de’ vizi e de’ peccati; e quanto a quelli dell’inferno si dee intendere che sia la coscienzia: imperò che noi doviamo credere che, come l’anime escono de’ corpi, elle se ne vanno là, ove la coscienzia loro le giudica; e questo volle intendere l’autore per lo remo: però che niuna anima può indugiare la sua punizione: imperò che la sua coscienzia la sollecita.

C. III - v. 112-120. In questi tre ternari pone lo nostro autore lo passamento della nave di Caron, e raccoglimento dell’anime per una bella similitudine, dicendo: Come d’autunno si levan le foglie, L’una appresso dell’altra, infin che ’l ramo Vede alla terra tutte le sue spoglie. Quasi dica: Come d’autunno, che è una delle quattro parti dell’anno, tra la state e il verno, le foglie caggiono delli arbori non tutte insieme; ma quando l’una e quando l’altra, l’una qui e l’altra colà, tanto che il ramo tutto si spoglia; Similemente il mal seme d’Adamo; cioè li miseri peccatori che discesono del seme di Adamo primo uomo. D’Adamo sono discesi li buoni e li rei; ma quelli sono pure li rei, e però disse il mal seme d’Adamo. Gittansi di quel lito; cioè di quella piaggia d’Acheron in su la nave, ad una ad una; cioè non tutte insieme; ma l’una dopo l’altra: nè per ordine; ma l’una di qua e l’altra di là, Per cenni; che faceva lor Caron, come augel per suo richiamo. Qui fa la similitudine dell’uccellatore che richiama lo sparviere con l’uccellino, e lo falcone con l’alia41 delle penne, e l’astore col pollastro, e ciascuno con quel, di che l’uccello è vago; così pone l’autore che il demonio che è uccellatore dell’anime, chiamasse quell’anime e rappresentando a ciascuna lo suo peccato; cioè al superbo quell’atto di superbia in che era stato peccatore, e così delli altri; e possiamo intendere che allogasse ciascuno al luogo del suo peccato nella nave, e però non le raccolse tutte insieme; e questo è conveniente, secondo l’esposizione fatta di sopra della nave. Ancora era necessario per verificare la sentenza allegorica di quelli del mondo: imperò che non tutti li uomini viziosi ad una ora diventono viziosi; ma l’uno innanzi e l’altro poi, e non pur in uno peccato: ma in diversi, e però ben si conviene che Caron li raccolga l’uno dopo l’altro. Et è da notare che ciascuno richiama col cenno; cioè con l’obietto del suo desiderio; cioè lo superbo con la eccellenzia di sè medesimo, lo goloso con la delicatezza de’ cibi, e così di tutti li altri. Così sen vanno su per l’onda bruna; cioè così navicano su per l’onda nera di Acheron, come è detto, Et avanti che sien di là discese; cioè innanzi che scendano dall’altra riva, Anco di qua nuova schiera s’aduna. Questo finge l’autore a dimostrare la moltitudine de’ dannati e la moltitudine de’ moventi continuamente in breve tempo. E questo ancora è vero di quelli del mondo: chè innanzi che l’una gita sia passata nell’ostinazione, si raguna l’altra di qua dalla ostinazione, per passare di là; e per questo mostra l’autore che grande è il numero di coloro che vanno a perdizione.

C. III - v. 121-129. In questi tre ternari l’autore pone lo dichiarimento, che42 fa Virgilio a lui di due dubitazioni ch’elli potea avere; prima se quell’anime aveano paura di passare, come erano sì sollicite di passare; appresso, perchè Caron accommiatò pur Dante e non li altri che v’erano. Dice adunque prima così: Figliuol mio, disse il Maestro cortese; cioè Virgilio disse a me figliuol mio, e potrebbe ancor dire il testo: mi disse; cioè disse a me: Quelli che muoion nell’ira di Dio; cioè li dannati. Ognuno o muore nell’ira di Dio, o nella grazia: se muore nell’ira va a perdizione, se muore in grazia va a salute. Tutti convegnon qui d’ogni paese; cioè di qualunque paese sieno tutti vanno all’inferno et a perdizione: E pronti sono a trapassar lo rio; cioè lo fiume Acheronte, Chè la Divina Giustizia li sprona. Assegna la cagione della lor sollicitudine che è la Giustizia di Dio, che vuole che chi à fatto bene sia meritato, e chi à fatto male sia punito; e per tanto ogni anima costretta dalla sua coscienzia va al luogo che à meritato. E benchè l’inferno sia luogo d’averne paura, e che ognuno lo tema; niente di meno l’anima spronata dalla Divina Giustizia desidera d’andarvi, e però dice: Sì che la tema si volve in disio; cioè che la paura si volge in desiderio come colui che va alle forche, perchè è sforzato, desidera di giugnere tosto, poi che pur ne li conviene andare, per ispacciarsi tosto. E come questo è cosa conveniente a quelli dell’inferno; così si può mostrare allegoricamente di quelli del mondo, che per li loro peccati, che ogni di’ accrescono, vengono nell’ira di Dio tanto, ch’ellino scorrono nella ostinazione, meritante ciò il loro peccato, e la Divina Giustizia permettente, e lascianteli cadere. Et aggiugne: Quinci; cioè per questo fiume, in su la nave sotto il governo di Caron si dee intendere. Quinci non passa mai anima buona: imperò che passano pur li nocenti e peccatori. E però se Caron di te si lagna; cioè si lamenta, e duole, Ben puoi saper omai che il suo dir suona. Quasi dica: Ben puoi avvederti che elli si duole che tu sia buono: imperò che vorrebbe che tu fossi peccatore come li altri, e passassi in su la sua nave, e così onestamente l’autore à posta la sua propria loda: chè è licito in atto di coscienzia, anzi è dovuto non farsi peccatore se l’uomo non è; e perciò l’autore in nessuna parte del testo pone che passasse lo fiume in su la nave di Caron, in su la quale non passano se non peccatori dannati all’inferno; ma occultamente dimostra l’autore, che fosse portato di là dall’Angelo che venne, come si dirà nella seguente parte.

C. III - v. 130-136. In questi due ternari et uno verso l’autore significa il passamento suo di là dal fiume, fatto per Grazia divina, essendo lui insensibile, e però non pone il modo perchè elli à finto sè essere insensibile; ma debbasi intendere che fu portato dall’Angelo, perchè dimostra la sua venuta per li accidenti che pone essere avvenuti, i quali sono segni dell’apparizione dell’Angelo, siccome appare di sotto nel canto viiii, dove dice: E già venia su per le torbide onde Un fracasso d’un suon pien di spavento, Per cui tremavan amendue le sponde. Non altrimenti fatto, che d’un vento ec.: ove chiaramente dimostra che quelli accidenti fossono per lo avvenimento dell’Angelo, siccome può vedere chi quella parte legge, e quelli medesimi accidenti pone qui, se non che ce ne aggiugne uno. Imperò che pone lo tremuoto e il venteggiare come pose quivi, e la folgore la quale non pose quivi; ma pose quivi il suono che non lo mette qui; e questo non fe l’autore sanza cagione: imperò che in quella parte pone che Virgilio li avesse turati li occhi, sicchè, perchè43 la folgore venisse, non la vide; ma qui li avea aperti e però pone che il vedesse, e benchè non dica del tuono, s’intende che vi fosse per lo baleno: imperò che innanzi è il tuono, che il baleno44, benchè il baleno si veggia innanzi che s’oda il tuono, perchè la vista è più presta a vedere che l’audito ad udire. Adunque questi tre accidenti; cioè tremuoto, vento e baleno, e per consequente tuono, sono finti qui dal poeta a dimostrare l’avvenimento dell’Angelo, il quale finge che vegna ai dannati con ispaventevoli segni, per mostrare loro la potenzia di Dio. E perchè niuna cosa spaurisce più l’uomo che li detti accidenti in questa vita, però finge che sieno di là, per spaurire i dannati della venuta dell’Angelo con questi accidenti; la quale venuta a loro non dee essere consolazione. Dice così il testo: Finito questo; che disse Virgilio, la buia campagna. Campagna è luogo piano et ampio, e ben dice buia45; cioè scura e tenebrosa. Tremò sì forte, che dello spavento La mente di sudor ancor mi bagna. Ecco il tremuoto che è naturalmente nelle caverne della terra per venti, che vi sono dentro che cercano l’uscita: e finge l’autore che avesse di quello sì gran paura, che ancora ricordandosene ne suda. Quando l’uomo à paura, il sangue corre a soccorrere il cuore e abbandona tutti li altri membri e però diventa46 pallido: et alcuna volta è la paura sì grande, che li membri abbandonati dal sangue mettono fuori per li pori alcuno licore gelato, che pare sudore; e se non ritornasse il sangue, l’uomo verrebbe meno e morirebbe, et ad alcuni non ritorna, sicchè ne rimangano spesse volte debilitati di qualche membro: ancora si suol dire per li volgari che tali siano percossi da mali spiriti, la quale cosa è naturalmente; cioè per difetto che pate la natura, e non per percussione di dimonio. Seguita: La terra lagrimosa; cioè l’inferno, che è terra piena di lagrime e di tristizia. Vogliamo intendere che certe umiditadi, che sono nella terra congelate per lo freddo, si risolvessono per lo caldo in modo di lagrime47. diede vento. Naturalmente nelle caverne della terra entra spesse volte il vento, e fa tremare la terra cercando d’uscire fuori, e conviene che la terra rompa in alcuno luogo e quindi esca il vento. Dicesi per li filosofi il vento essere vapori ovvero esalazioni calde levate in su dalla terra, e ripercosse da alcuno freddo che trovano per l’aere, et allora vanno in alto48 e commuovono l’aere, e generasi il vento, e così il vento non è altro che aere agitato. Che balenò una luce vermiglia; cioè lo quale vento arrecò seco uno baleno di una luce vermiglia, come appare alcuna volta il fuoco; cioè apparve col vento una luce vermiglia a modo di uno baleno: però che venne meno tosto, come fa il baleno. Queste cose; cioè tremuoto e vento, possono ben essere nelle caverne della terra, sicchè, perchè49 l’autore finga essere avvenuti questi accidenti nell’inferno, non è contro alla vera similitudine50 della poesi. Ma il baleno bene è contro alla verisimilitudine, se non si escusasse, questo fosse cosa sopra natura come molte altre che finge l’autore essere nell’inferno per la potenzia di Dio, che per natura non vi potrebbono essere; e questo finge, per dare ad intendere l’avvenimento dell’Angelo, il quale lo portò di là dal fiume: però che per grazia divina passò l’intelletto suo a considerare le cose, che di là secondo la sua fizione, dovessono essere. La qual mi vinse ciascun sentimento. Pone che la luce fosse sì grande, che li suoi sentimenti non la potessono sofferire; ma stupefatti da essa s’addormentassono, e per questo si verifica che volesse intendere che questa fosse luce sopra natura: chè non è alcuna luce naturale che li sentimenti non portino, o vero patiscono. E caddi, come l’uom, cui sonno piglia; cioè come l’uomo che s’addormenta; e così mostra che s’addormentasse, come si finge, nel seguente canto. Questa fizione è molto conveniente secondo la lettera, come appare a chi bene la considera, secondo la ragione della poesia; ma sotto questa, allegoricamente l’autore volle dimostrare il suo processo nella vita virtuosa, che avea preso dimostrando che, poi che per la grazia preveniente era uscito del vizio, et era già entrato nello inferno con la considerazione; cioè considerava già la bassezza e viltà del vizio e voleva procedere a vedere le sue specie e le loro pene, et a questo li era bisogno la grazia seconda; cioè la illuminante, la quale dimostra ora a lui essere venuta, et avere addormentata la sua sensualità, sì che passi Acheron51; cioè ad uno stato ove non senta le vane allegrezze del mondo52, nè della carne; e poi si svegli a considerare le predette cose, stando obediente alla ragione, lasciandosi guidare a lei. E questo volle significare per la luce vermiglia, e per lo suo addormentamento, e passamento53 di Acheron, e svegliamento che ebbe poi di là; e qui finisce, il canto terzo.

  1. Il nostro codice avea seconda e noi abbiamo sostituito prima, come legge il M. E.
  2. Venimo, ora venimmo; e la prima di queste configurazioni è più regolare, perchè più conforme alla lingua latina e romanza.  E.
  3. Il nostro codice anche altri guai.  E.
  4. C. M.  che chi.
  5. C. M.  da Dio insieme con le cose create.
  6. C. M.  tal vita.
  7. Il nostro codice legge pure: E quelli.  E.
  8. C. M.  alte.
  9. C. M.  cioè senza successione.
  10. che è nel duol.
  11. C. M.  del primo andito.
  12. El, lo, lui. Questa maniera de’ Trovatori ebbe de’ seguaci eziandio fra i nostri scrittori del secolo xviE.
  13. C.M. che sostengono questi miseri, perchè sì forte si lamentano, e la risposta ec.
  14. C. M.  domandai Virgilio.
  15. C. M.  intendendo.
  16. C. M.  fare pro alla chiesa.
  17. C. M.  ancora di Bonifazio de’ Savelli che seguitò papa dopo lui. Il quale ec.
  18. C. M.  et ancora lui desiderando d’essere ec.
  19. C. M.  degno.
  20. C. M.  lo manto.
  21. La rettitudine del nostro poeta e l’incertezza de’ commentatori ne inducono a credere che per colui il quale fece il gran rifiuto si abbia da intendere Augustolo, colla deposizione del quale morì fra noi la maestà del romano imperio. Quest’epoca tanto famosa nella storia non era certamente sfuggita alla mente dell’Allighieri.  E.
  22. C. M.  bodde.
  23. Contenti legge il nostro codice, che ci siamo arbitrati di correggere col Magliabechiano, al quale pure ci atteniamo ogni volta che il senso lo richieda.  E.
  24. Passono, ora passano. Tale terminazione si rinviene presso gli antichi tra per una certa uniformità di cadenza e per imitazione de’ Romani.  E.
  25. C. M.  di Dante, e cadde allora Dante, come ec.
  26. C. M.  s’incende.
  27. C. M.  s’immerge in Flegetonte: oltre poi.
  28. C. M.  a cui elli lo farà manifesto.
  29. C. M. Dante mutasse per passare proposito - Il nostro codice legge pure così - o aspettando che Dante mutasse proposito per passare e volesse.
  30. C. M. che anco altrove Dante li debbia trovare.
  31. C. M.  mena l'anima.
  32. C. M.  e tanto è.
  33. debbasi. È una di quelle riduzioni di verbi della seconda coniugazione alla prima, le quali truovansi non di rado nelle antiche scritture.  E.
  34. C. M.  la continenzia della fizione.
  35. Altrimenti - a che vengono tutti.
  36. C. M.  lo generare de’ peccati con le loro specie.
  37. C. M.  nude; cioè private, così di difensioni come di vestimenti e di guida non fenno difension nulla, se non.
  38. C. M.  biastimavano.
  39. C. M. biastemma.
  40. C. M. qualunqua si riposa. Lo remo.
  41. C. M.  ala.
  42. C. M.  che finge che faccia Virgilio.
  43. C. M.  benchè.
  44. C. M.  il baleno, o almeno insieme, benchè.
  45. C. M.  buia, perchè finge che fosse oscura.
  46. C. M.  diventa l’uomo pallido.
  47. C. M.  di lagrime, e però finge che quella terra fosse lagrimosa.
  48. Altrimenti - vanno in lato.
  49. Perchè vale benchè, e Dante medesimo ce ne offre un esempio nel canto iv di questa cantica, al verso 64 «Non lasciavan l’andar, per ch’ei dicessi».  E.
  50. C. M. alla verisimilitudine.
  51. C. M. Acheron, Stige e Cocito; cioè.
  52. C. M. del mondo, nè tristizia, nè pianto, per essere privato di quelle; e poi.
  53. C. M. passamento de’ fiumi, e.

Note


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