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DISCORSO
DI
FELICE CAVALOTTI
IN ONORE
DI
PAOLO FERRARI
PRONUNCIATO
NEL
TEATRO MUNICIPALE DI MODENA
IL
- Illustre Sindaco!
Perchè, Signor Sindaco, saran quasi vent’anni che un giovane poeta, il quale per la prima volta affacciavasi dalle battaglie della politica alle battaglie della scena, ricercava di consigli un maestro, che della verde virilità del suo ingegno fosforescente sotto i capelli grigi e della fama del suo nome riempiva, a quei giorni, tutti i teatri d’Italia. Fidente rivolgevasi a lui, dal quale le vicende della politica lo avevano tenuto diviso e lontano, e al quale il suo nome fino a quel dì non era giunto che attraverso il rumore di campi ostili; volgevasi colla fiducia istintiva che ai giovani rivela le nature nate per amare e comprendere la gioventù.
Ed ei mal non s’appose: chè la risposta venne affettuosa: e il giovine poeta la serbò religiosamente: ma il dì che l’antico maestro cadde sul campo dell’arte sua come il forte lavoratore che ha compiuto la sua giornata, quel giovine tra le carte frugando ritrovò la lettera antica e con viva commozione rilesse i caratteri ingialliti dal tempo.
La lettera era questa: e diceva tra l’altro:
«3 Luglio 1873. |
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sissignore, Ella dice bene, in politica non posso trovarmi d’accordo con lei.... Sono troppo più avanzato e radicale di Lei: ciò le sembrerà una celia e non è: perchè, se Ella considera, il più avanzato e radicale è colui che nel vagheggiato assetto avvenire degli uomini desidera vedere e lavora perchè sia sradicata tutta la mal’erba dei vecchi pregiudizii......
Con che non voglio dire di essere uno scettico: no: ho tanta fede e tanto entusiasmo per la mia fede, da non temere la concorrenza di nessuna anima ventenne: e questa mia franca e seria parola gliene fa malleveria....
In politica non ci troviamo: in arte, ah! in arte sì, ci si potrebbe intendere Amo le forti fantasie giovanili, in questa età di banchieri e di uomini politici non punto migliori — senza distinzione di partito — amo il giovane poeta che crede ancora a questa immortale civilizzatrice che è la Musa.
Lasci che gli uomini seri, le persone ammodo, la gente di garbo schernisca e motteggi... Anche Giusti fu schernito e motteggiato e oltraggiato e calunniato e abbeverato di aceto e di fiele così dai Leopoldini, come dai Bruti e dai Cincinnati dell’età sua. Che n’è di quei motteggiatori e diffamatori pubblici? Brulicame d’uomini ingoiati dall’oblio: e se alcuno sopravvisse, è perchè si conservi il tipo di quella specie deforme.....
Mi scusi se mi son lasciato trasportare non chiesto a sermoneggiare.... Ma vede, una delle cose che io piglio sul serio è il dovere che incombe ai vecchi di cogliere ogni occasione per gettare una onesta e calda parola nelle anime generose e gagliarde dei giovani. Questa fisima mi procacciò canzonature — me ne importa molto a me! — ma da Lei ho in mente che questa mia sarà accolta con gentilezza di sentimento di giovane....»
Ah, come il vecchio maestro lo possedeva, il linguaggio che va dei giovani al cuore! perchè la lettera era sua, di Paolo Ferrari, e chi la ebbe era colui che ha qui l’onore di parlarvi. Tre mesi dopo ci davamo del tu.
Ma voi che qui mi ascoltate, incliti rappresentanti di Modena, raccogliente al bacio della madre le ossa dilette del suo figlio glorioso — e voi giovani di Modena, d’Italia che, di età prosternantesi alle glorie procellose, cumulatrici di ruine, v’inchinate alla gloria pacifica e serena che illumina la tomba di un poeta, voi perdonatemi se io chiesi a quel ricordo personale la ragione per cui suona la povera mia parola tra voi, nel giorno che Modena scioglie il pio debito materno. Poiché a quel ricordo, nella mia mente, si lega uno dei titoli maggiori onde il nome di Paolo Ferrari vivrà nel mondo dell’arte a cui dischiuse tanto spazio di cielo. Se, per impossibile, tutto intero il teatro di Paolo Ferrari perisse, come quello del principe della greca commedia perì, se svanisse dalla memoria degli uomini la superba schiera di tipi viventi creati dal suo soffio di poeta, che passeggiarono trionfanti le scene salutati dal plauso di cento platee, — ancora e sempre di Paolo Ferrari rimarrà un profilo ideale, una leggenda che farà caro ai giovani d’Italia il suo nome, che lo farà di luce viva e perenne risplendere a quanti il soffio dell’arte immortale baciò, a quanti su queste tavole tentatrici e contese, sospiro e sogno di giovanetti, si arrischiano, chiamati veramente dall’interno Iddio.
Perchè Paolo Ferrari fu dei giovani amico, consigliere, confortatore e suscitatore; egli a cui l’arte un dì svelossi nei fascini di una eterna giovinezza, egli che l’amò con entusiasmo di giovane e che per lei augurava ardente e perenne il culto delle anime giovanili.
Invece di chiudersi nella superbia delli ingegni che saliti a un certo punto della fama e della gloria, si appartano dalla folla che li acclamò, che li portò sugli scudi, e guardan gelosi, come lor retaggio esclusivo, il tempio dell’arte che un dì riempirono del proprio nome; gelosi e sospettosi ne guardano le soglie, sbarrandone l’accesso ai nuovi sacerdoti, — egli il ministro già canuto della Dea, si affacciava dall’augusto limitare e pareva che ai giovani dicesse: — Venite! affrettatevi, che io son sull’andarmene non lasciate che si spenga la sacra fiamma che, superbo custode, tanti anni alimentai; non per conquisto di una sterile fronda tenni alta tanti anni la bella bandiera, ma per dare tempo ai soldati nuovi di venire a raccogliersi alla sua ombra: non lenocinio di rotti costumi, non istupido svago di fantasie pervertite, ma un sacro còmpito ho sognato, ho adempiuto e trasmesso a voi; perchè io non vedo avvenire della patria mia, se poeti a lei non parlino la maschia poesia del dovere e dell’ideale; io non intendo la vita della Italia nuova senza il bacio fecondo dell’arte educatrice.
Questo fu il grido che lo accompagnò sino alla tomba: ond’è primamente nel nome dei giovani che a Te rivolgo, immagine cara di Paolo Ferrari, il saluto, — io figlio della Città che fu tua patria seconda e dove fino a ieri le tue ossa riposarono, qui nella città dove dormono i tuoi cari, e dove il tuo nome vivrà, come vera itala gloria, affidata alla religione dell’orgoglio cittadino.
Sì, di Paolo Ferrari fu gloria vera (sebben altri gliela ascrivessero a torto) che, affacciatosi a tempi in cui l’arte era per la Italia la sola sua affermazione — oltre la affermazione dolorosa dei martirii e dei patiboli — a tempi in cui l’arte era per lei il suo certificato di vita fra i popoli, — in cui l’arte era tutta una santa, audace, perigliosa battaglia, — egli non solo accettò serenamente sin dal primo giorno il suo posto di combattente in prima fila, — ma a quel concetto di una missione augusta, civile dell’arte tenne fede costante anche quando, nei tempi mutati, parve il compito mutato.
Sempre guardando a se innanzi, come ad un punto luminoso, come ad un faro che tra le luci della notte si fa distinguere per il variar dei colori, il dovere dello artista e del poeta ben veniva a’ suoi occhi cangiando di forme col cangiar degli eventi, ben veniva rivelandogli aspetti sempre nuovi e diversi, ma rimanendo pur sempre quell’uno circonfuso della medesima luce. La Musa gioviale e pugnace, attenta osservatrice del vero, arguta ricercatrice dello spirito, che nei tempi della tirannide tedesca e nostrana, alla vigilia delle italiche riscosse, trovava l’arcano linguaggio preparatore dei cuori, gittava nelle platee sature d’elettricità le parole incandescenti che riempivano l’aria di scintille, ricercavano di brividi di entusiasmo le turbe, — quella Musa istessa, nella patria redenta, studierà i bisogni della sua vita nuova, le malattie morali, i vizi sociali che la insidiano, le piccinerie che la immiseriscono, le virtù nuove civili che le occorrono, i nuovi ideali che la chiamano. E allora a lei più non basta lo aver rievocato in un capolavoro vincitore del tempo, le purissime linee della Commedia nazionale italiana, agitantesi piena di freschezza e di vita, tutta viva e tutta vera, intorno alla figura egualmente viva e parlante del suo padre immortale; più non le basta aver nello Alfieri della Poltrona Storica additato ai giovani l’esempio del volere tenace che da una vita frivola e nulla assurge ai culmini della gloria; nè lo aver nel Parini tracciato l’austero còmpito della satira civile, richiamate le lettere italiche al culto sano e ritemprante del poeta di Eupili, svegliato nelli animi, sotto gli auspici del genio patrio invocato in cospetto dei birri pallidi e furibondi il fremito ascoso della riscossa imminente; non le basta aver nella Prosa rinnovato dalla scena l’acerba rampogna del poeta lombardo delle Fantasie contro la gioventù frolla, neghittosa e scettica, obliante fra i piaceri snervanti e i disordini della vita i doveri dell’ora sacra che, di là dal Ticino, in nuvola densa si appressava; ormai da un capo all’altro della Penisola, nella festa delle aurore liberatrici, l’Italia lo ha riconosciuto, lo ha battezzato il suo poeta drammatico nazionale, lo sperato redentore della scena italica dalla invasione umiliante ed assorbente dell’arte straniera; ormai già sulle scene del Carignano fra i trionfi e le ovazioni del Parini, Camillo Cavour pensoso del domani, è venuto a dirgli grazie dell’opera sua; Giovanni Prati, insuperato cigno della italica melodia, gli ha portato il saluto dei poeti d’Italia.
Da ora in là, al poeta del Goldoni, del Parini, della Prosa il nome antico più non basta. Alla generazione delle battaglie egli l’ha già detta la sua parola; ora è la vita della Italia nuova che si avanza; è una nuova generazione che sorge, che egli, il poeta, vorrebbe degna de’ mutati destini e scorge oppressa dalla stanchezza che succede agli sforzi supremi. Ed è a questa che muove ora incontro, da poeta mutato in filosofo studiatore di problemi, in medico scrutatore di cuori e malattie di cuori, in consigliere affettuoso di coscienze e di anime.
Ed è ora ch’egli insorgo più energico contro quella che a lui pare bestemmia dell’arte per l’arte: è ora ch’egli più alto invoca nelle pagine sue il genio artistico italiano, augurandolo non più soltanto lascivo facitore di pitture, di sculture e di liriche: «e voglio, esclama e scrive, — voglio l’artista profeta, apostolo e sacerdote, che ponga il bello al servizio del vero e del buono; voglio l’arte che diffonda la scienza e predichi la morale; voglio la Musa che all’uman genere presenti Minerva e Temi inghirlandate di rose eterne; voglio la sublime triplice armonia che svegli un’eco titanica nel grande cuore del popolo.»
E così ora il poeta, ormai acclamato principe della scena, si volge con più fervido amore all’arte sua e le domanda tutte le risorse segrete, tutti i sorrisi, le grazie, i colori, i lampi, gli slanci, le arguzie e le astuzie perchè ella possa adempiere il còmpito suo senza parere: perchè il teatro diventi scuola feconda senza mutarsi in tribuna noiosa ne in pulpito catechizzatore. Questa è la idea fissa del Ferrari, riaffacciantesi ad ogni tratto nei proemii de’ lavori suoi. Avanti dunque un dopo l’altro, problemi nuovi di una società appena uscita da una rivoluzione politica, che ancor serba nel grembo assai delle tristi eredità del passato e ancora non ha trovato la formola dell’avvenire! avanti pregiudizi ridicoli, malattie morali, ipocrisie, ingiustizie sociali, che aspettano la provvida fèrula della Musa castigatrice! Dal Duello alla Marianna, all’Amor senza stima, a Cause ed effetti, al Ridicolo, al Suicidio, alli Uomini serii, a Per Vendetta, al Giovine Ufficiale, al Pregalli e via via, — la è tutta una serie di lavori dove l’autore afferra a volo un caso, un fenomeno, una questione palpitante della vita che gli si agita intorno, e vuole trascinare il suo pubblico alla conclusione morale che la Musa meditante ne trarrà; sia che sferzi le bassezze e le miserie morali cui spesso ricopre l’orpello delle vertenze d’onore, le ignorate codardie che s’appiattano dietro il Codice della Cavalleria, le ciarlatanerie che si fan largo giuocando sulla vita e sull’onore dei galantuomini; sia che satirizzi la posa dei giovani Uomini seri a venticinque anni, ripudianti le care fiamme e li entusiasmi della giovinezza, o la boria delle auree nullità che trovano il modo, nulla facendo, di essere tutto, nulla dicendo, di sembrare saper tutto, e inutili al mondo, farsi credere nel mondo indispensabili; sia che svergogni le ambizioni che dello intrigo si fanno scala al salire, gli egoismi che calpestan gli scrupoli e gli affetti della natura, le infamie che del cinismo e dell’audacia si fanno passaporto nella società; sia che inviti a meditare sulla triste responsabilità di chi lascia innanzi tempo il suo posto nella battaglia della vita e diserta la milizia del dovere, immemore degli esseri cari e dei cuori schiantati che lascia dietro di se: sia che avverta del triste buio che attende i colpevoli nodi cui non sorride un domani, e della infelicità che apposta al varco della età senile e farà pesanti e odiose le catene a vita, intrecciate dalla colpa e dall’inganno, non più scusate dalla febbre degli anni, non confortate dalla poesia della famiglia: o ammonisca del ridicolo che accompagna nei matrimoni sbagliati le scelte malcaute, o affronti il pregiudizio sociale che insegue, pur nella riabilitazione della virtù e del sacrificio, i ricordi di una vita leggiera: o studi nei matrimoni l’amore quando dai cuori la mutua stima è bandita ed ei più non sopravive a se stesso che come colpa dei sensi o come abnegazione dell’anima; o difenda contro l’onda del costume il prestigio della famiglia antico, la poesia delle sue gioie pure e serene, e poetizzi il sentimento dell’amicizia e dell’onore che in petti maschi e giovanili vince le febbri del sangue e la passione soggioga alla religione del dovere, — dappertutto, e sempre, è lui, il poeta, che, dove altri nulla vede e nulla scopre, sente il Dio interno che lo avverte, e segna e nota e si ricorda del suo còmpito e lo adempie con una forza di convinzione, con una tenacia di propositi, con una onestà di intenti che costringe al rispetto e alla ammirazione gli stessi non convinti da lui. Sì, essi stessi son costretti a far ala sul suo cammino ed a inchinarsi e a salutare questo apostolo festoso che divertendo le turbe, con una fede viva nel cuore, passa in mezzo a una età che non crede.
Inseguendo l’altissimo scopo, concesse a lui l’arte sempre ch’ei volle, tutti i fascini suoi? Riuscì a lui sempre di costringerla fra le morse del volere, alle esigenze della idea? o al trionfo meditato della tesi sacrificò più d’una volta lo slancio della ispirazione?
Sia il dubbio concesso: questo rimane certo, che a servizio di quell’alto civile intendimento egli pose, non solo una grande coscienza di uomo, ma qualità drammatiche di primissimo ordine, le quali spiegano largamente il primato ch’ei tenne, fin che visse, sulla scena italiana e il posto che il teatro gli assegna nella sua storia. Era in lui una ricca armonia e un felice equilibrio delle doti che attestano la vocazione della scena. Per la scena egli era nato, essa lo avrebbe chiamato a se, qualunque fosse stata la sua condizione sociale. Fantasia, spirito pronto di osservazione, agilità dello scernere nel vero la materia greggia dalla materia estetica, indole viva agli affetti, vis comica e festività native, sapienza del disegno, del colorito, del rilievo, dei chiaroscuri e dei contrasti, sposantisi a una padronanza assoluta di tutte le piccole e le grandi astuzie della scena.
Caratteristica dei lavori del Ferrari e segreto di molti de’ suoi successi (un segreto che io raccomando a quelli fra i miei giovani colleghi d’arte i quali credono che basti per fare una commedia applaudibile, prendere un foglio di carta bianca, scriverci su: atto primo, scena prima e tirar innanzi come l’estro li porta) segreto, io dico, di molti successi del Ferrari, è un’intima organica simmetria, a volte curata al punto da rilevarsi e parer sino eccessiva, ma simmetria, in cui tutte le parti si combaciano e si corrispondono, in cui ogni contrasto è studiato, ogni minuzia — a quel dato posto — risponde a quel dato fine, ogni più lieve sfumatura ha il suo motivo e tutti i congegni sono così delicati e connessi che se un solo ne togli o ne sposti, tutta la struttura se ne risente. Eppure da questo lavoro di pazienza artistica, minuta, che parrebbe dover fermare ogni volo della ispirazione, che spaventa il conoscitore per le difficoltà superate, balzano fuori ogni tanto figure delle quali, appena affacciatesi, la leggenda dell’arte si impadronisce, caratteri che vanno di diritto a mischiarsi nel famedio colla famiglia dei tipi che rimangono, macchiette vive e palpitanti, pagine di alta e commovente eloquenza, e scene strazianti ove il poeta riversa, come nel quart’atto del Cause ed effetti, le angoscie vissute della vita sua. Oh come allora questo idealista sa trovarle in se, nel suo cuore di padre tornante alla imagine della figlia perduta, la potente e terribile illusione del vero! Come allora paiono vere e profonde le parole di un maestro della scena francese, che il dolore ha spezzato molte nature alle quali per vincerlo è mancata solo la facoltà di versarlo in un’opera d’arte, in un libro, o in una commedia! Perchè il dolore che si espande si calma. Traversando lo spirito del poeta il dolore vi depone i germi fecondi; il cervello li raccoglie, li elabora, e gitta, trasformata, la sua sensazione alla folla dicendole: ora soffri a volta tua.
Oh sì, Ferrari ebbe ragione di scrivere che «In arte nulla si fa, nulla si ottiene, se il cuore non c’entra.» È desso che veramente afferma l’io del poeta: la stessa fantasia non gli offre tante risorse quante questo viscere che un’arte moderna si vanta di anatomizzare e che ella sa interrogare ed intendere così poco! Esso è all’artista il primo e grande rivelatore del vero; triste pronostico a lui, se, scrivendo una scena comica, il riso ogni tanto non gli arresti la penna, o se a mezzo di una scena commovente non sentasi le lagrime in gola: triste avvertimento ch’egli sta lavorando sul falso e che della comicità o del dolore non le ha trovate le parole giuste, che dei cuori ascoltanti gli schiudano la via. È il cuore che sopratutto rivela all’autore drammatico la legge artistica e segreta del connubio del riso e del pianto, della fusione intima omogenea del comico e del drammatico, il segreto del poeta che dalla gaiezza comica di una scena esilarante sa spremere la lacrima, come stilla di pioggia illuminata dal sole!
A questa fonte Paolo Ferrari attinse i più felici dei lavori suoi: dei quali taluno anche dei minori spira una freschezza che non teme insulto del tempo, perchè le due corde vi si sposano all’unisono, l’armonia è completa, la fusione è perfetta.
Si vorrà qui domandarmi quali e quanti, del vasto repertorio a cui nessun genere fu ignoto, siano i lavori perfetti; quali il tempo abbia vinto e quali no?
Scrisse W. Göethe nel Wilhelm Meister che i lavori d’immaginazione dovrebbero essere perfetti o non esistere; ma Alfredo di Musset, che ne aveva le sue ragioni, affrettossi a soggiungere che se questa massima venisse accettata, troppi lavori non esisterebbero, dal Wilhelm Meister incominciando.
Io non risolvo questo problema, perchè è un altro il pensiero che mi visita.
Quando nei lavori di Ferrari, anche i meno completi, in quelli stessi cui meno arrise la fortuna, a cui più arcigni mostraronsi il pubblico e la critica, che all’autore del Goldoni e del Parini conversero tante volte in tormento immeritato — col rinfacciarglieli ad ogni suo nuovo lavoro — quei due suoi primi ricordi di gloria, — quando voi arrivate alla pagina dove l’artista ha impresso la sua marca, dove il leone ha stampato la sua orma, quando arrivate alla scena, e non manca mai, — dove la presenza del maestro si rivela, — e pensate insieme alle condizioni nelle quali il Ferrari lavorava, — della sua arte per sè, e per i suoi cari vivendo (perchè non è solo all’artista ma alle virtù dell’uomo che io qui rendo tributo d’onore), — voi siete indotto a domandarvi quale influenza abbiano avuto sulla produzione artistica del Ferrari le dure ed aspre necessità della vita. E allora mi torna e mi parla melanconicamente nella memoria il lamento, o la bestemmia che sia, che io lessi un giorno non mi ricordo più in quale pagina di un poeta magiaro che finiva dolorosamente i suoi giorni: «Guai al poeta, che sogna afferrare per le corna gli spiriti, dare la scalata agli eterni ideali, strappare alla Musa gli eterni segreti, mentre le pallide cure della prosa della vita gli fanno cerchio alle tempia e gli stringono la fronte in una morsa di ferro.»
Vi è qualche cosa, a me pare, del supplizio di Ruy Blas, che sogna la gloria e li eccelsi destini mentre il ghigno di Sallustio lo richiama alla realtà.
E venne, pur troppo venne per Paolo Ferrari il giorno che l’antico lavoratore apparve o si credette vinto. Un dubbio, come un’ombra, era sorto tra il pubblico e lui: dal suo labbro era scomparso il sorriso. Un mutamento innegabile si era prodotto nel gusto del pubblico: ed egli parea dire fra sé, scrollando tristamente il capo, che il pubblico aveva insieme ragione e torto: che l’arte sua — di lui — era sempre la vera, ma che a lui non restava più tempo di trovarne la formola nuova.
Diremo dunque anche noi, come altri, che allo autore drammatico, giunto ad una certa età, più non resti se non morire come Molière o ritrarsi dall’arringo come Shakespeare e come Racine? Errò forse sul labbro di Paolo Ferrari, negli ultimi suoi anni dell’arte e della vita, il lamento di Shakespeare fatto vecchio: «Tu vedi in me la stagione dell’anno in cui le foglie ingiallite pendono dai rami tremolanti alla brezza: vedi in me i lampi di un fuoco che si spegne sotto le ceneri della gioventù, che spira consunto da ciò che lo alimentava?»
Alessandro Dumas figlio, in una pagina stupenda, piena di profonda tristezza, descrive il periodo dello autore drammatico in cui la malinconia degli anni sopra il suo capo s’aggrava.
«Il Teatro, egli dice, è simile all’amore, vuole il buon umore, la salute, la potenza, la giovinezza. A misura che gli anni si accumulano, l’autore drammatico prova una specie di malessere; i suoi studi lo hanno portato più in là del punto a cui la folla, sempre giovine nella sua massa, si trova, e quando essa vi sarà giunta non è più a lui che essa verrà. Arrivato a quel momento difficile, l’autore drammatico che ha creduto alla sua arte, che l’ha onorata ed amata, che avrebbe voluto farne non pure un piacere, ma un insegnamento, si trova preso fra il suo ideale e la sua impotenza. Comprende che non più alla forma di cui egli si è servito fin allora, l’umanità chiederà la soluzione dei problemi che la agitano, sebbene egli creda di averla trovata per se: sente che sta per succedere, tra il pubblico e lui, un malinteso di cui egli sarà la vittima, se vorrà costruirvi su il monumento de’ suoi ultimi pensieri. È venuto il momento di far come Prospero nella Tempesta di Shakespeare, d’uscire dall’isola incantata e affrettarsi al luogo del ritiro: di dire ad Ariele, lo spirito invisibile dell’aria che fin allora lo ha obbedito e lo ha fatto trionfar di Calibano: Ariele, augellino mio, ritorna agli elementi, sii libero e statti bene.»
Dumas figlio, così scrivendo, forse parlava per sè; forse vergando quelle parole a proposito della sua Etrangére, dove già si sente l’artista che sta per ismarrire la sua via, che sta per divagare tra le fredde astrazioni ignote ai bollori della gioventù, egli presentiva il giorno che avrebbe percorso «la strada di Tebe» e che sul suo nome circonfuso di tanta ammirazione e tanta gloria, sarebbe passato un sorriso del pubblico, quasi di indefinibile ironia. — Ma per Paolo Ferrari, vissuto tra gli affetti sani e forti della sua arte, del suo paese e della sua famiglia, quell’ora non venne: a lui non bastò l’animo di dire ad Ariele l’addio: lo volle seco fino all’ultima ora nell’isola incantata. E fu proprio quando egli più dubitava di se stesso, ch’ei ritrovò d’un tratto il suo pubblico, il pubblico dei bei giorni antichi: fu quando la stanchezza parea vincerlo, che l’antico lottatore si drizzò: e la fiamma che parea languire mandò guizzo di luce più viva. Sta dunque per rinnovarsi l’esempio di Racine che anch’egli, nella vecchiaia, dopo un decennio di silenzio sconfortante si sveglia, ma pentito e contrito si sveglia e i pensieri della sua arte rivolge dalla Venere greca all’altare, e i peccati dei trionfi profani d’Andromaca e Fedra, riscatta colle sacre produzioni cristiane di Ester e di Atalia, che faranno andare in visibilio madama di Sevignè e che le scuole proclameranno capolavori, ma che faranno dormire il pubblico in piedi, sia pure d’un sonno pieno di alta reverenza?
Che! Che! l’autore del Goldoni non ha di queste fisime in testa. Egli non ha bisogno di convertir la sua arte nè alla Chiesa nè a Dio, nè di darle altro altare da quello che il suo cuore le eresse il primo dì; egli non ha che da frugar nelle sue memorie, le quali dal fondo degli anni lontani gli mandano una nota gaia, limpida, giovanile: e a quella il suo cuore sussulta, risponde, prova un brivido e rammenta, come chi ravvisa dopo gran tempo esseri cari. È lui, il bello antico ideale che ritorna, sono le figure festose del Goldoni che rivivono, che gli vengono incontro, è il tramonto che si ricongiunge in una festa di lampi all’aurora! In quanto alla Chiesa, se ancor vuole il tributo di Racine e pretende nel trionfo la sua parte, bisognerà che s’accontenti della predica del Cardinal Malaspina e della similitudine della lavandaia.
Oh io la ricordo come oggi la sera che fu la prima del Fulvio Testi a Milano! non fu una recita, ma una festa di famiglia: la commozione era nell’aria. Io lo rivedo, il vecchio poeta, là fra le quinte, commosso alle lagrime, stringere convulso, senza quasi conoscere alcuno, le mani che stringevano la sua: quasi ringiovanito di dieci anni dalla speranza che tornava ad alitargli sul viso, — già sognante vittorie venture! Quanto amarezze quell’ora consolò! che scossa di gioia febbrile in quello spirito cui già pareva di ricominciar la battaglia! Era bastato quel riso di sole per fugare il dubbio dallo spirito di lui, la cui esistenza era stata tutta quanta una battaglia contro il dubbio combattuta: di lui, che era entrato nell’arte non a suon di oricalchi, come sognano di entrarvi tanti giovani poeti, ma sudando, ma conquistando palmo palmo il terreno, ma sforzando le porte vietate: di lui, che avea durato due anni prima di veder resa giustizia al suo Goldoni; che se l’era veduto da Gustavo Modena respingere, da Gustavo Modena che gli scriveva promettendogli la sua ammirazione a patto che tra loro due non sorgesse mai lo spettro di un lavoro da rappresentare!
Deh come oggi Ferrari avrebbe diritto di sorridere di quei giovani nostri colleghi che, ai primi passi nell’arte, per il primo ostacolo empiono l’aria di lamenti, e si drappeggiano nel manto del genio incompreso, se subito per loro la fama non dia fiato alle trombe, e chiaman dura la battaglia prima di averla conosciuta!
Ma è a questo esempio di costanza tenace, confortata dall’ultima vittoria, dall’ultima gioia, che io amo fermarmi: perchè io non conosco nulla di più bello del sacerdozio dell’artista che paga coll’esempio e di persona, e documenta le sue tesi colle virtù della sua vita. È a questo esempio che io amo fermarmi, perchè io non conosco nulla di più alto del poeta e del soldato che cadendo si aggrappa alla bandiera e porta con sè la parola e la fede che ebbe il suo estro e i suoi sogni, il suo cuore e la sua spada.
Ah dormi pure tranquillo l’eterno sonno, o Ferrari, dormi pure tranquillo che ella non è morta con te, che ella non morrà, l’arte tua, l’arte che hai amata, l’arte in cui hai creduto! Resterà di lei la parte più bella onde avesti i più cari dei trionfi tuoi: resterà contro il mutar delle scuole che, nate appena, l’una dopo l’altra si succedono rumorosamente, si incalzano, si urtano, muoiono, come i flutti scroscianti dell’Egèo morivano appie’ della statua della Venere antica. Molti lavori or celebrati tramonteranno, passeranno insieme colle brutte realtà di cui furono la nuda fotografia; passeranno insieme con esse e con la società che le vide, quando i nepoti, nati (speriamolo!) ad aure più sane, non saran più in grado di intenderle; passeranno, perchè tale è la legge dell’arte che copia solo materialmente il vero fuggevole e non ne sa scernere le linee estetiche eterne. Ma vivranno tante figure, strappate alla natura in un bacio dell’ideale, che il tuo estro mandava a popolar le scene; perchè la poesia del bello difende essa sola contro gli insulti del tempo i fantasimi del vero. Da quella luce baciate aleggieranno — così io amo sognarmele! — aleggieranno, esili spiriti, intorno al tuo tumulo le figlie immortali del tuo pensiero; e ascenderanno le voci per l’aria; e qui, in Modena tua, che ti rivolle al bacio materno, in Modena dove la festa di oggi ti attesta che, se dura ed amara sotto il sole d’Italia è fatta ai combattenti la vita, la ingratitudine oltre la tomba non è vizio italiano, in Modena superba de’ suoi eroi, de’ suoi apostoli, de’ suoi credenti e de’ suoi martiri, diran quelle voci, che, dove la fede d’Italia ebbe martiri, era giusto ch’Ella avesse il poeta; passerà nell’aria la danza fantastica e ripeterà ai poeti d’Italia il tuo canto:
. . . . . . . . . . . . «Non è la poesia |