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Questo testo fa parte della raccolta Il pastor fido e il Compendio della poesia tragicomica

COMPENDIO DELLA POESIA TRAGICOMICA TRATTO DAI DUO VERATI PER OPERA DELL’AUTORE DEL PASTOR FIDO, COLLA GIUNTA DI MOLTE COSE SPETTANTI ALL’ARTE. La favella umana, maraviglioso dono d’Iddio, all’uomo fu conceduta perché potesse manifestarci sensi dell’animo, in modo che si può dire che lo ’ntelletto sia una muta favella e la favella un intelletto parlante, ciò che die’ materia ai nostri teologi di ordinare le due preghiere, che a Dio si porgono: l’una vocale, che si fa con la lingua; l’altra mentale, che si fa con lo spirito. Ora, essendo la lingua ministra dello’ntelletto, bisogna ch’ella il vada secondando e servendo, e si trasformi di si fatta ma- niera in lui, che quanto egli pensa, tanto ella parli, e quante cose l’uno può concepire, tante l’altra s’ingegni di bene espri- mere e partorire. E, tutto che queste siano infinite, niente di meno a duo capi famosissimi si riducono, imperocché tutto quello, che opera lo ’ntelletto e parla la lingua, bisogna che necessariamente o vero o verisimile sia. Lascio da parte il falso e ’l non verisi- mile, si perché lo ’ntelletto non l’ha per fine, come anche perché dalla cognizione del vero segue senza dubbio quella del falso, es- sendo, come dicono i filosofanti, che le contrarie cose, per esser d’una stessa natura, si conoscon l’una per l’altra. Ma che cosa è egli alfin questo vero? Niente altro che ’l concetto adeguato alla cosa intesa, il quale nello ’ntelletto si spoglia della materia e nella lingua si veste della favella. Questo vero è poi di due sorte, o contempiabile o eligibile. Il verisimile parimente è pur di due sorte, cioè probabile e imitabile. Da questi quattro, termini, «contempiabile», «eligibile», «probabile» e «imita bile», nascono tutte le scienze, tutte le facoltá e tutte l’arti. Dal vero contempiabile deriva la divina filosofia, la scienza naturale, le matematiche, con le lor subalterne, e la logica. Le quali tutte non hanno altro fine che di trovare il vero, e in quel trovato posarsi. Dal vero eligibile poi procedono le morali, l’etica, la politica e 1’economica, che insegnano di governar se stesso, la republica e la famiglia, le quali hanno per fine il vero in quanto buono, e però in quel non si fermano, ma un altro fine at- tendono, che consiste nell’operare, perch’egli è buono. Nel pro- babile son fondate la dialetica e la retorica, maestra Luna del disputare e l’altra del persuadere. Dall’ultima finalmente vien la poetica, che ha per fin Limitare. E, benché tutte l’altre, chi le considera bene, non sieno in tutto lontane dall’imitare, come appresso si mostrerá, niente di meno a questa sola si con- vien propriamente il nome d’«imitatrice», si come quella che per lo piú rappresenta non concetti, non pensieri, non forme, si come l’altre, ma umane operazioni, che sono appresso tutti di tanto pregio. E veramente che cosa è rassomigliarsi al vero, se non imitare? La qual maravigliosa e veramente divina operazione che alla natura umana sia tanto dilettevole e tanto cara, non è da prenderne maraviglia, perciocché non è cosa di qualsivoglia sorte in questo mondo sensibile e alterabile, che non partecipi tanto o quanto di questo raro dono della imitazione. E, cominciando dalla creazione del mondo, quando quel divino Fabbro il produsse, non parve egli che volesse a un certo modo imitare? non solo per averlo prodotto conforme alla divina idea ch’è nel suo seno ab aeterno, ma per averlo eziandio fatto nella parte celeste con sembianza d’eternitá im- passibile, inalterabile, che son vestigi di non caduca natura. Laonde non è da maravigliarsi se, vedendol tale, Aristotile s’in- gannò giudicandolo eterno. Nel formar poscia il picciol mondo ch’è Luomo, se ’l medesimo divino artefice si compiacesse del- l’opera imitatrice, la sua divina voce ne ’l manifesta: «Fac- ciamo l’uomo a imagine e similitudine nostra». Nel resto poi fu cosi vago del vedere imitare, che niuna cosa volle potesse l’uomo ottener se non imitando. Chi c’insegna di favellare? l’imitazione. Chi di ben vivere? l’imitazione. Come s’acquista l’umana felicitá? col farsi simile a Dio. Quando le scienze di- scorrono intorno al vero, che altro fanno che mostrarci la strada d’esprimere e imitare, coll’intelletto e con la lingua, la cosa in- tesa, ritraendo, quasi pitture, o ’n carta o ’n voce, la vera forma di lei? E, se Parti non imitassero la natura, come sarebbono elle né perfette né arti? Finalmente ogni cosa, che opera e s’in- dirizza alla sua naturale e vera perfezione, in qualche modo è partecipe, qual piú qual meno, dell’imitare. Non è dunque da maravigliarsi se l’imitazione diletta tanto, poiché per ella l’uomo impara di sapere, che è il primo disiderio e ’l piú caro diletto e ’l piú proprio dell’umana natura. E, oltre a ciò, l’imitare è quasi un produrre alcuna cosa di nuovo, la quale operazione è per se stessa carissima alla natura, che se ne serve a con- servar se medesima nelle spezie, riparando di tutte quello che tuttodí se ne perde. Or la poetica, fra tutte quelle arti che nell’imitazione spendono il lor talento, riesce maravigliosa, non solo perché imiti gli atti umani, nella quale opera non è sola, ma perciocché imita colla favella, nella quale è unica imitatrice, conciosiacosaché tutte l’altre con altri mezzi e istrumenti eser- citino l’imitazione, ma niuna con la favella, ch’è propria della poetica. E perché tutto quello, che s’imita favellando, o si rac- conta o si rappresenta, né verun altro modo si può trovare che non caggia sotto l’un de’duo membri, quinci son nate le tre famose spezie di poesia. Perciocché altre sono che rappresen- tano senza che la persona del poeta mai v’intervenga, si come la tragedia, commedia e l’altre che sono dette «drammatiche» dalla voce greca, che significa «operare», si come quelle che non raccontano cose operate, ma operano e rappresentano con le persone stesse operanti e sottoposte agli occhi, non della mente, ma del senso, di coloro che ascoltano. Altre non rappresentali, ma con la persona del poeta narran le cose fatte, né mai v’ in- troducono alcun ragionamento, che non sia del poeta, si come la poesia ditirambica e lirica, nella quale un continovato tenore di narrativa, in persona del poeta, solo si vede. Né fa forza quello che ’n ciò viene opposto alla dottrina d’Aristotile da persone troppo ardite e troppo sottili, non esser vero che ’l di- tirambico e ’l lirico alcuna volta non introduca interlocutori ne’ lor poemi, conciosiacosaché questo intervenga tanto di rado, che non è degno d’esser considerato per accidente che alteri in modo alcuno le spezie. E, quando pure si fa, non è fatto per introdurre quella persona ad uso di drammatica o epica poesia, ma per servirsi della figura che si chiama «prosopopeia», la quale alcuna volta s’adopra nel corso di chi narra, per tanto piú evidentemente far venir sotto gli occhi della persona che ascolta o legge la cosa che vien narrata. E, se Orazio fe’ quella ode in forma di dialogo: «c Donec graius eram», ecc., nella quale non parla mai il poeta come poeta, si risponde che, si come una gocciola d’acqua in un gran vaso di vino non è bastante a far che quello non sia vin pretto, cosi quella sola e picciola coserella non è composizione, fra tante liriche, da poter far drammatico quel poeta. Ben è vero che, se altri spendesse tutti o ’l piú de’ suoi versi lirici nel far dialoghi, non sarebbe né di- tirambico né lirico né drammatico, e sarebbe un poeta da sti- mar poco, per quelle molte ragioni che qui non hanno il lor legittimo luogo. Nasce da queste due, narrativa dove il poeta solo ragiona, e rappresentativa dove il poeta non parla mai, la terza spezie, nella quale alcuna volta parla il poeta e alcuna parlano le persone eh’ egli introduce; e questa è l’epica poe- sia, che anche «eroica» è stata detta, esercitata con fama tanto celebre e tanto chiara dal grande Omero in lingua greca e da Virgilio in latina, da Dante, dall’Ariosto, dal Tasso, io dico il giovane, nella nostra, che «toscana» meritamente dé’ esser detta, ma dissi «nostra», perciocché, essendo laToscana in Italia, e potendo esser la sua favella comune a tutti gl’italiani, anche i lombardi se ne posson servire come di propria, si come an- che un lombardo scrisse in lingua del Lazio, ch’allor fioriva, la sua maravigliosa Eneide , e scrissela forse meglio e piú pura- mente di quello che alcun altro, quantunque nato nel cuor del Lazio e di Roma, avrebbe saputo fare. Dalle cose che si son dette non sará malagevole il giudicare a quale delle tre spezie di poesia il Pastorfido ridur si debbia; conciosiacosaché, essendo egli un misto di tragica e comica poesia, se ambedue son drammatiche, necessariamente ancora esso sará drammatico. Ma non pare che sia senza difficultá l’in- tendere con qual arte si sieno accozzati insieme duo poemi di spezie differentissimi, si che un terzo ben regolato e non difettoso se ne sia tratto, parendo cosa impossibile che ’l poema tragico, lagrimoso, si possa mai accordare si ben col comico, tutto riso, che l’arte non se ne dolga. Accresce questa diffi- coltá ch’ogni poema, quanto è piú uno, è tanto piú perfetto (parlando dell’unitá non nuda, ma ben vestita); la quale ec- cellenza è per modo commendata da tutti i buoni maestri di quest’arte, che vizioso debbia stimarsi qualunque s’è quel poema, che ne sia privo. E, se la tragedia e commedia, quando son separate, possono agevolmente cadere in questo difetto, che sará poi della lor terza spezie, che senza multiplicitá par che considerare e profferir non si possa? E nel vero è troppo rag- guardevole e necessaria parte, in ogni sorte di poesia, questa unitá, si perché la forma, che dá l’essere a tutte le cose, è una, come anche percioché la bellezza non è altro che union delle parti, a uso d’armonia, consonanti. Come dunque può esser né una né buona quella favola, eh’è composta di due favole non solo differenti, ma repugnanti? Onde furono alcuni, non consideranti le cose piú lá di quello che ’l senso, e forse anche l’affetto mal regolato, portò loro davanti, i quali dissero questa sorte di poesia non essere, né secondo l’arte poetica in sé, né secondo i precetti d’Aristotile, ragionevole, e perciò come mostro non doversi ricevere nel catalogo delle ben re- golate e legittime poesie. Ma costor veramente, col travagliare il Pastor fido, l’hanno fatto risplendere in quella guisa che noi veggiamo soffio d’importuni mantici ravvivare alcuna fiamma sopita, avendo essi data materia assai legittima e opportuna a’ difensori di lui di scoprir l’eccellenza della poesia tragico- mica con le due scritture d’apologia intitolate Verato primo e Verato secondo , che si chiama ancor L’Attizzato. La dot- trina de’ quali non mi fia grave di riferire per comodo di coloro che non gli hanno veduti mai. In duo modi può esser detto che nel poema del Pastor fido non sia servato il precetto della unitá: l’uno, per le due forme tragica e comica; l’altro, per avere piú d’un soggetto, come son quasi tutte le terenziane. Delle quali favole, acciocché noi co’ propri termini piú spedito e piú chiaro fac- ciamo il nostro discorso, chiameremo la prima col nome solito «mi- sta», e la seconda «innestata». Quanto alla prima, bassi a con- siderare, che la tragicommedia non è composta di due favole intere, l’una delle quali sia perfetta tragedia, e perfetta commedia l’altra, congiunte insieme di modo che ambedue si possano disu- nire senza che l’una guasti i fatti dell’altra o ciascuna i suoi pro- pri. Nédéssi altresi credere eh’ella sia una storia tragica viziata con le bassezze della commedia, o favola comica contaminata con le morti della tragedia, perciocché né cotesto sarebbe retto componi- mento, conciosiacosaché chiunque fa tragicommedie non intenda di comporre separata o tragedia o commedia, ma di questa e di quella un terzo, che sia perfetto in suo genere, e abbia di ambe- due loro quelle piú parti che verisimilmente possano stare in- sieme; laonde, nel far giudicio di lei, non bisogna confondere i termini di «misto» e di «doppio», come fanno coloro che poco intendono, né s’avveggono che niuna cosa può esser mista se non è una, e se le parti che ’n essa sono, in modo non si confondono, che l’una non si possa piú né conoscere né separare dall’altra. Dottrina del Filosofo, nel primo della Ge?ierazione , chiarissima e volgarissima, dov’egli mostra la dif- ferenza dell’esser misto all’esser composto. In quello le parti perdono la lor forma e fanno una terza cosa molto diversa. In questo ciascuna si conserva quella medesima ch’era prima, né si altera, né si muta, ma si compone, s’accoppia, e quel che nasce da cotale congiungimento, non è un terzo alterato sotto diversa forma, ma son duo corpi, che scambievolmente non compati- scono insieme e restano que’ medesimi, cosi in atto come in potenza, ch’erano per avanti. Il primo si può paragonare al favoloso Ermafrodito, il quale d’uomo e di donna formava un terzo, partecipante dell’una e dell’altra natura, si fattamente misto, che separare né quel da questa, né questa da quello non si potea. Il secondo è simile ad uomo che s’abbracci con donna, si ché dopo gli abbracciamenti ciascuno torni nell’esser suo. Con- ciosiacosaché quell’abbracciare non gli confonda in modo, che l’uomo non sia quell’uomo e quella donna non sia la donna di prima, e ciaschedun di loro non abbia’ e non riconosca e non serbi intera la sua natura, il suo essere, la sua forma. Quinci nascono i non intesi spasimi degli amanti, non potendo, come vorrebbono, unire e mescolare i corpi in quella guisa che fanno gli animi. Perciocché questi, col mezzo della volontá, che non è altro in atto che la cosa voluta, accordandosi di volere una cosa medesima, si congiungono agevolmente e di due animi ne fanno uno; ma i corpi, che non si possono né mescer né penetrare per quantunque s’ingegnino di annodarli, non vien loro fatto di unire in modo, che facciano un corpo solo, come fanno di due animi un sol volere. Ma, tornando al proposito, consideriamo le parti e repugnanti e conformi di questi duo poemi, per far vedere che ’l misto tragicomico è ragionevole. La tragedia ha di comune con la commedia la rappresentazione, con tutto il resto dell’apparato, il ritmo, l’armonia, il tempo limitato, la favola drammatica, il verisimile, la ricognizione e ’l rivolgimento. Intendo per «comune» che Luna e l’altra si servi delle me- desime cose, avvenga che nel servirsene sia qualche differenza tra loro. Altre qualitá sono poi tanto proprie cosi dell’una come dell’altra, che non solo varian nell’uso, come quell’altre che si son dette, ma diversificano in modo la spezie, che diven- gono differenze di lei. E non ha dubbio che chiunque pen- sasse di far passare intera alcuna di loro ne’ confini dell’altra, e d’usare nella tragedia quel eh’è solo della commedia, ovvero in questa quel eh’è proprio di quella, farebbe favola sconve- nevole e mostruosa. Ma il punto sta a vedere se queste diffe- renze specifiche sono si repugnanti, che ’n qualche modo for- mare non se ne possa una terza spezie, che sia poema legittimo e ragionevole. Or queste sono della tragedia: la persona grande, l’azion grave, il terrore e la commiserazione; della commedia: la persona e negozio privato, il riso e i sali. Quanto alla prima, confesso, e per dottrina aristotelica ancora, che convengono alle tragedie i personaggi grandi, e i bassi alle commedie; ma nego bene che repugni alla natura e all’arte poetica in generale che in una sola favola s’introducano persone grandi e non grandi. Qual tragedia fu mai, che non avesse molto piú servi e altre persone di questa fatta che personaggi di grande affare? Chi scioglie nell ’Edipo di Sofocle quel bellissimo nodo? né il re, né la reina, né Creonte, né Tiresia; ma duo servi, guardiani di armenti. Dunque non si disdice alla natura della scena l’accop- piare insieme persone grandie non grandi, non solo sotto ’1 nome d’un poema misto, coni’è la tragicommedia, ma della pura tragedia, e anche della commedia, se ad Aristofane s’addimanda, il quale vi mescolò uomini e dèi, cittadini e villani, e fin le bestie e le nuvole introdusse a parlare nelle sue favole. Quanto ai fatti grandi e non grandi, non so vedere per qual cagione si disconvenga che in una stessa favola, che non sia tutta tragica, star non possano, quand’eglino giudiziosamente vi sono inserti. Non può egli stare che tra negozi gravi intervengan casi pia- cevoli? e molte volte ancora sieno essi cagione di condurre a lieto fine i pericoli? Ma che? Stanno forse i prencipi sempre in maestá? non trattano essi mai di cose private? Per certo si: perché dunque non può rappresentarsi in favola scenica persona grande, che tratti cose non grandi? Ciò fece pure Euripide nel Ciclope , avendo egli, col pericolo grave della vita d’Ulisse, per- sona tragica, mescolata l’ebrezza del ciclope, eh’è fatto comico. E tra i latini Plauto fece il medesimo nell’ Anfitrione, accompa- gnando col riso e con le beffe di Mercurio le persone grandi, non solo d’Anfitrione, ma del re degli iddíi. Non è dunque fuor di ragione che in una favola scenica possano stare in- sieme persone grandi e fatti non grandi. Il medesimo potrei dire della commiserazione e del riso, qualitá l’una tragica e l’altra comica. E pure a me non paiono tanto opposite, che una medesima favola non le possa comprendere sotto diverse occasioni e persone. Chi è colui che, leggendo in Terenzio il caso di Menedemo, il quale volontariamente si macerava per la durezza da lui usata al figliuolo, non se ne muova a pietá, e con Cremete, che non ritenne le lagrime, non ne pianga? E pure nella medesima favola si ride delia beffa e dell’arte, con che l’astuto Siro inganna il detto Cremete. Può dunque stare non dico l’allegrezza e’l dolore, ma la pietá col riso in una favola stessa. E cosi tutta la somma di questa contraddi- zione si verrebbe a ridurre ad una sola differenza, cioè il ter- ribile, la quale non può mai stare se non in favola tragica, né seco mai alcuna comica mescolarsi, perciocché il terrore mai non s’induce se non per mezzo delle gravi e funeste rappresentazioni; e, dove questo si truova, non v’ha luogo riso né scherzo. Tutte le cose di sopra dette si potrebbono addurre in difesa della poesia tragicomica. Ma io non voglio valermene, e con- tentomi di lasciare alla tragedia i personaggi reali, i fatti gravi, il terribile e ’l miserabile; alla commedia la persona e i ne- g.ozi privati e ’l riso e i motti, come loro specifiche diffe- renze; e vo’ per ora concedere che l’una non entri nella giu- risdizione dell’altra: seguirá egli per questo, che, per essere di diversa spezie, non possano unirsi insieme per farne un terzo poema? Certamente non si può dire che ciò repugni all’uso della natura, e molto meno dell’arte. E, cominciando da quella, non sono elleno due distinte spezie quella del cavallo e quella dell’animal indiscreto? Certo si; e pure d’ambedue loro se ne fa la terza del mulo, che non è né l’uno né l’altro. Il medesimo si può dire della licisca, di lupo nata e di cane, che non è né lupo né cane. E cosi della «terza natura», proce- dente dalla fagiana e dal gallo, dalla volpe e dal cane, e di tante altre che ne porta Aristotile ne’ suoi libri della Gene- razione degli animali , dov’egli con tale occasione vien dichia- rando il proverbio, allor molto trito, che l’Affrica apporti sempre alcuna cosa di nuovo, dicendo esserne la cagione i vari congiungimenti degli animali di diversa spezie, che per penuria d’acqua si riducono tutti a un luogo per estinguer la sete. Ma forse si potria dire che queste terze nature nascono dalla rimescolanza de’ semi e non de’ corpi, e che sono opere di natura e non d’arte, si come quelle di che si tratta; e però passiamo all’arti e ai suoi misti, fatti di corpi solidi e di natura diversi. Il bronzo si fa di rame e di stagno, e vi entra il corpo cosi dell’uno come dell’altro, ed essi con le na- ture loro si confondono in modo, che quel terzo, che ne ri- sulta, non è né stagno né rame. Nella polvere che chiamano «d’archibuso», entra il zolfo e ’l salnitro e per lo terzo il carbone, tutti corpi interi e di natura e d’accidenti differen- tissimi; e pur la polvere non è né questo né quello. Ma dirá alcuno che questi esempli non son conformi, conciosiacosa- ché, operandosi ciò col fuoco, il quale altera la qualitá di que’ corpi, in un certo modo si possa dire che la natura ne sia ministra: quello che non avviene delle misture poetiche, al tutto dipendenti dall’artificio del lor maestro, senza intervento d’opera naturale. Concedasi anche questo, e parliamo della pittura, eh’è della poesia cugina carnale: non fa ella, senza l’opera d’altro mezzo, diverse mescolanze de’ suoi colori? Il medesimo si dirá della musica, ad un parto medesimo nata con la poesia: non mescola essa il diatonico col cromatico, e il cromatico con l’enarmonico, e l’una con l’altra quelle che il Filosofo chiama «armonie»? Ed è pure opra sola del musico. Ma chi volesse eziandio contraddire, potrebbe a ciò replicare che ’l pittor maneggia colori e ’l musico voci, ma il poeta mette in opera umani fatti e persone. Anche cotesto si faccia buono, e truovisi finalmente mistura tanto simile alla poetica, che differenza alcuna tra lor non sia, se non quella che si conosce tra il vero e ’l finto. La quale è tanto propria del no- stro caso, che la figura è quasi la stessa cosa col figurato, essendo la poesia niente altro che ’l verisimile imitato. Or non s’è detto dianzi che la poesia maneggia fatti e persone? diasi dunque di fatti e di persone un esemplo. Non dice Marco Tullio, e Orazio, che la commedia è specchio della umana conversazione? Diasi un esemplo dell’umana conversazione. Non dice Ari- stotile che la tragedia si fa di persone principali e la com- media d’uomini popolani?Diasi un esemplo di persone principali e d’uomini popolani. E questo sia la republica. Né ciò dico in quanto alla materia di lei, conciosiacosaché ogni cittá sia neces- sariamente composta di nobili e di non nobili, di ricchi e po- veri, e, come dice il Filosofo stesso, di migliori e peggiori; ma parlo delle forme che nascono dalla diversitá di queste due differenze, cioè a dire la potenza de’ pochi e la popolare. Or queste due spezie di governo non son elleno infra di loro diffe- rentissime? Se noi crediamo ad Aristotile, anzi pure alla viva ra- gione, non ha alcun dubbio; e pure il medesimo filosofo le con- fonde e fanne il misto della repubblica. Nella quale non sono eglino i cittadini persone umane, umane operazioni i governi? E se questi, che operati daddovero, si mischiano, l’arte poetica, in coloro che fan da scherzo, non potrá farlo? Nella potenza de’ pochi non governano i soli grandi? e nella popolare i plebei? e questi non son contrari? e pure si congiungono in un sol misto. La tragedia non è ella altresí imitazione de’ grandi e la commedia de’ bassi? e i bassi non sono contrari ai grandi? e perché non può farlo la poesia, se la politica il fa? E perché ciò si vegga piú chiaramente, vengasi all’armi corte dell’argomento : ovvero nella republica mista sono due comunanze, l’una popolare e l’altra di pochi, ovvero che in una medesima e sola comunanza si trova il dimocratico e l’oligarchico.Se saranno due comunanze, peccherá nell’esser piú d’una, ed è bene altro fallo la con- fusione della cittá che non è quella delle novelle. Ma, se in una sola comunanza sará il dimocratico e l’oligarchico, se- guirá che nello stesso soggetto possano esser due forme di diversa spezie e di natura contrarie. La soluzione di questo dubbio altronde non s’ha d’attender che dal Maestro. Dice dunque Aristotile che nella repubblica mista sono am- bedue le forme, ma si ben temperate, che la stessa e sola repubblica può parer l’una e l’altra delle due miste, e tuttavia non è né l’una né l’altra intera. E, perché meglio né piú magi- stralmente non si può esprimere di quel che facciano le precise parole sue, ascoltiamole volentieri: Toú 6’eu pepeíxOai òrpxo- -/ouTi’av xai cAiyaoxiav opog, oxav evSk/jitcu Xéye iv xqv aúxr)v jtoXi- rfiav SíipoxQcm’av xai òXiyaQXiav, cioè «la mescolanza dello stato popolare e de’ pochi avrá conseguito bene il suo fine, quando la medesima repubblica potrá dirsi che sia e Stato popolare e Stato di pochi». E piú di sotto: Ilértovde 8è xoúxo xai xò péaov, èpqpaivexai yág éxáxepov èv aúxq> xtòv axparv, ojxeq cupPaivei Ttepi tòjv AaxeÒcupcmcov rroXi-rei’av, cioè «quel che nel mezzo suole avvenire, nel quale ambedue gli estremi si veggono, come nella repubblica dei lacedemoni avviene». E piú di sotto, re- cando il medesimo, cosi dice: Aei 8’èv tq nol . ixsiq . tq pepsiYpivn xoXto? ampóteQa 8oxelv elvai xai prj&éTeoov, cioè «gli è necessario nella ben mista repubblica che l’uno e l’altro vi si vegga e non vi si vegga». Il che piú chiaro ancora, con altre parole pur di Aristotele, piú di sotto si mostrerá. Il medesimo si dé’ dire della tragicommedia, nella quale il tragico e ’l comico, non come intere forme, ma come qualitá del poema tragico e comico, si ritruova. Il che come si faccia, con duo chia- rissimi esempli, applicandoli al poema di che si tratta, l’uno degli elementi e l’altro dell’arte medica, venendo all’atto pra- tico, mostrerò. E, cominciando dal primo, qual discordia o ni- mistá maggiore si trovò mai di quella che pose la natura ne’ corpi semplici? I quali con le loro opposite differenze una tal guerra si fanno, che, se l’effetto noi dimostrasse, parrebbe cosa impossibile che duo soli di loro, non che tutti insieme, si po- tessero unir giammai. E pure la natura, maestra e madre del- l’arte, ottimamente il fa, e ’l caldo, mortai nemico del freddo, e l’umido del secco, accorda insieme con tanta pace ne’ misti, che, dove disuniti non si potevano sofferire e davansi la fuga per conservar se medesimi, accompagnati poi nella generazione de’ corpi a loro soggetti, cedendosi e pareggiandosi l’un con l’altro, lasciali le proprie forme e in una sola, da quella di ciaschedun di loro molto diversa, unitamente conspirano. Non altramenti avviene delle due, tragedia e commedia, le quali tutto- ché sien diverse, si come non si nega che, quando son sepa- rate e ciascheduna nella sua forma natia, non abbiano a conte- nersi ne’ loro termini, cosi, quando queste medesime si con- giungono insieme per fare un altro poema misto d’ambedue loro, vi concorrono a guisa degli elementi, per modo rintuzzate e corrette, che l’una diviene amica dell’altra, in quella guisa (e questo è il secondo esemplo, forse piú accomodato del primo) che suole il medico nel comporre la teriaca, la quale chiunque non sapesse come si tempri, sappiendo però ch’ella si faccia per antidoto dei veleno, si maraviglierebbe vedendovi entrar la vipera, fra tutte l’altre serpi velenosissima. Ma cesserebbe la maraviglia, quando poi intendesse ch’ella non v’entri se non purgata del suo veleno, talché le parti sole, che salutifere sono, vi concorrono rintuzzate. Cosi fa chi compone tragicommedia, perciocché dall’una prende le persone grandi e non l’azione; la favola verisimile, ma non vera; gli affetti mossi, ma rintuz- zati; il diletto, non la mestizia; il pericolo, non la morte; dal- l’altra il riso non dissoluto, le piacevolezze modeste, il nodo finto, il rivolgimento felice, e sopratutto l’ordine comico, del quale a suo luogo ragioneremo. Le quali parti, in questa guisa corrette, possono stare insieme in una favola sola, quand’elle massimamente sono condite col lor decoro e con le qualitá del costume che lor convengono. Concludiamo noi dunque che la potenza del tragico, nata atta a fare una tragedia, non fará mai, dove concorrono l’altri parti nell’esser loro vigoroso ed intero, né commedia né tragicommedia, ma se tutte non vi concorrono. E, se invece delle tragiche, vi saran delle comiche, quella po- tenza non si condurrá mai all’atto di formare poema tragico, anzi il concorso delle parti tragiche e comiche circoncise fa- ranno quella potenza molto debole e molto rimota da potersi produrre in atto. Né questa è dottrina mia, ma del maestro Aristotile, il qual, volendo nei suoi maravigliosi libri della Ge- nerazione esattamente trattare della rimescolanza che fanno i corpi naturali, va prima, coin’è suo solito, dubitando se di co- tale rimescolanza la natura è capace, e argomenta cosi. Delle cose che si rimescolano, Luna delle due cose par necessaria: o che ambe si disperdano, o l’una si conservi e l’altra si perda. Che ambedue si conservino, non può dirsi, conciosiacosaché non seguirebbe rimescolanza, se l’una e l’altra si conservasse in quel medesimo stato, nel quale, prima che si rimescolassero, si trovava; ma neanche può dirsi che si dileguino, essendo che di cose non sussistenti niun composito, non che altro, imaginar non si può. Per la medesima ragione ancora è cosa impossibile che l’una si conservi e l’altra si perda, non potendosi fare di cosa, che non sia, rimescolanza di sorte alcuna, come s’è detto. Pare egli dunque che in verun modo la mescolanza de’ corpi naturali far non si possa. Or questa difficoltá vien dal mede- simo risoluta cosi: «Delle cose che sono, alcune sono in po- tenza, alcune in atto, laonde si può dire che le cose rimesco- late a un certo modo sieno e non sieno, perciocché, in quanto all’atto, il composito è diverso dagli ingredienti, ma in quanto alla potenza ritiene alcuna cosa di quello che l’uno e l’altro aveva prima che si rimescolasse, che del tutto non è consunta». Ma qui potrebbe dire alcuna persona bene intendente, che l’esemplo non fosse simile e la dottrina non militasse nella poesia tragicomica: imperocché l’acqua nel vino e ’1 vin nell’acqua entrano interi e perdono l’atto loro dalla rimescolanza che se- gue, rintuzzandosi l’un per l’altro; quello che non avviene nel comporre tragicommedia, nella quale entran le parti giá rin- tuzzate e non da rintuzzare, essendo che né d’intera o trage- dia o commedia, ma solo d’alcune parti tragiche e comiche si compone. A che rispondo che questo nasce dalla diversa natura delle cose che si compongono: la forma del vino in tutte le sue parti è la medesima sempre in atto; ma la forma della tragedia in ciascuna parte di lei non è se non in potenza, né si riduce all’atto, se non concorrono l’altre parti, e perché il fine della natura, nelle rimescolanze de’ corpi che i greci chiamano «omogenei», è di produrre in atto una sola cosa di quelle due che concorrono. E, prevedendo l’arte che ciò non si può fare della tragedia e della commedia, si come quelle che di parte «eterogenee» son composte, perciocché, se si ri- mescolassero una intera tragedia e commedia insieme, non avendo esse in sé principio intrinseco naturale, non potrebbe operare l’una nell’altra (condizione ch’è necessaria in tutte le naturali rimescolanze), onde ne seguirebbe che in un soggetto solo due forme infra di loro contrarie si comprendessero; l’arte, provvidentissima imitatrice della natura, fa essa l’ufficio del principio intrinseco, e, dove la natura áttera le parti rime- scolate, essa le áltera prima che le congiunga, acciocché pos- sano stare insieme e produrre una sola forma nel misto. Ma si potrebbe nuovamente qui dubitare qual fosse in atto un tal misto della tragicommedia; ed io risponderei che ciò fosse il temperamento del diletto tragico e comico, che non lascia traboccar gli ascoltanti nella soverchia né malinconia tragica né dissoluzione comica. Da che risulta un poema di eccellentissima forma e temperatura, non solo molto corrispon- dente all’umana complessione, che tutta solamente consiste nella temperie di quattro umori, ma della semplice e tragedia e commedia molto piú nobile, come quello che non ci reca l’atrocitá de’ casi, il sangue e le morti, che sono viste orribili ed inumane, e non ci fa, dall’altro lato, si dissoluti nel riso, che pecchiamo contro la modestia e ’1 decoro d’uom costu- mato. E veramente, se oggi si sapesse ben fare (perciocché egli è molto malagevole), altra favola non dovrebbe rappresen- tarsi, si come quella che è capace di tutte le buone parti del poema drammatico e tutte le cattive refiuta; a tutte le com- plessioni, a tutte l’etá, a tutti i gusti può dilettare: quello che non avviene delle due, tragedia e commedia, che peccano nel- l’eccesso. Onde nasce che l’una viene oggidí da molti e grandi e saggi uomini abborrita e l’altra poco stimata. Ma egli non mi parrebbe di avere appieno fornito l’ufficio mio, se, dopo Tessersi conosciuto da quelle parti, che sono come forme della tragicommedia, ch’ella per buono e regolato poema si dé’ ricevere, non provassi il medesimo dal suo fine; conciosiacosaché altri per avventura potrebbe volere intendere quale egli fosse questo suo fine, o tragico o comico o misto, come parrebbe che richiedesse il dovere, essendo favola mista. Il che senza molta difficultá non si potrebbe accordare, essendo che ciascun’arte ha un suo fine, dov’ella miri operando; e, se n’ha duo, l’uno risguarda l’altro, per modo che un solo sem- pre convien che sia il principale inteso da lei. Or concedasi che la tragicommedia sia misto ragionevole: che intende ella di fare? che fine ha? vuole ella ridere o piagnere? poiché l’uno e l’altro in un medesimo tempo far non si può. Qual dunque fa ella prima? qual piú? qual meno? qual principale? qual subalterno? A questo obbietto non si può ben rispondere, se prima non si determina qual sia il fine della tragedia e qual sia quello della commedia. Per intelligenza di che hassi a sa- pere che ciascuna arte, oltre quel principale che dianzi s’è da noi detto, ha un altro fine. L’uno, per cagion del quale operando, l’artefice introduce nella materia, ch’egli ha per mano, quella forma eh’è fin dell’opera; l’altro, per bene e uso del quale, la cosa, che vuol condurre a fine, viene operata. Nel qual senso disse Aristotile che l’uomo è fin di tutte le cose. L’uno di questi fini chiameremo noi «strumentale», e l’altro, con la voce medesima del filosofo, «architettonico». E questi sono ambedue nell’arte tragica e comica. E, cominciando dalla commedia, il suo fine strumentale è d’imitare quelle azioni degli uomini privati, che col difetto loro muovono a riso, e questo è d’Aristotile. Ma il fine architettonico non si trova detto da lui, mancando, in quel trattato che noi abbiamo della Poetica sua, l’esame della commedia, dove noi doviam cre- dere che ce l’avrebbe altresi cosi bene assegnato come fece nella tragedia. Ma dal fine, ch’egli assegnò dell’opera, possiain noi bene conghietturare quale abbia a esser l’architettonico, es- sendo questo l’esemplare che l’artefice si propone. Laonde, considerata ben la nascita sua, che fu per occasione de’ bac- canali, tutta piena d’ebbrezza e di lascivia fallica, e oltre a ciò vedendo che ’l medesimo Aristotile la distingue dalla tra- gedia con le persone plebee, assegnandole il riso per sua spe- cifica differenza, pare a me che altro fine non possa avere che di purgare gli animi da quelle passioni che si cagionano in noi da’ travagli, non sol privati, ma pubblici. Purga la malin- conia, affetto tanto nocivo che bene spesso conduce l’uomo a ’mpazzare e darsi la morte; e purgalo in quella guisa che fa la melodia, secondo che c’insegna Aristotile, quell’affetto che i greci chiamano évOovaiucrpóv, e ’n quella che la Sacra Scrittura ci racconta, che David, coll’armonia del suo suono, cacciava i mali spiriti di Saul, primo re degli ebrei. E, si come una parte di musica, secondo che’l medesimo c’insegnò, è necessaria per cagione di ricrearsi e prendere quel ristoro, di cui l’umana vita ha tanto bisogno, cosi la commedia, con le festose e ridicole sue rappresentazioni, rallegra l’animo nostro, e ’n quel modo che suole il vento dissipar l’aere condensato, scuote anch’ella, movendo il riso, quell’umor fosco e caliginoso, che, dal sover- chio affisar della mente generandosi in noi, tardi il piú delle volte e ottusi ci rende neli’operare. Per questo non vi s’indu- cono se non persone private, con difetti degni di risa, scherzi, giuochi, intrighi di poco peso, di corto tempo e d’esito gio- condissimo. Tale ha il suo fine architettonico la commedia. Ma la tragedia, per lo contrario, richiama l’animo rilassato e vagante, ond’ella ha fini di gran lunga diversi, ammendue dimostratici nella Poetica d’Aristotile, ov’egli la definisce, in ciò molto piu fortunata della commedia. L’uno è l’imitazione di qualche caso orribile e compassionevole, e questo è lo stru- mentale; e l’altro è la purgazione del terrore e della compas- sione, eh’è l’architettonico. La qual purga come si faccia, è molto necessario d’intendere, chi vuol toccar con mano quel che si cerca. So che questo passo è uno de’ piú difficili, che abbia tutta V Arte poetica d’Aristotile; e però intendo di trattarlo con gran modestia verso coloro che sono stati de’ primi uomini del tempo loro, i quali, per mio credere, piú tosto l’hanno adombrato che dichiarato. Tutto quello, che ’n ciò fa dubbio di non lieve importanza, pare a me che si riduca a duo punti. L’uno, per qual ragione voglia Aristotile che Tuoni si privi della compassione, che è cosa, come dice il Boccaccio, cotanto umana. E ’n veritá, che ’l terrore s’abbia a purgare, come af- fetto disordinato che corrompe la virtú della fortezza, ha molto del ragionevole o, per dir meglio, del necessario. Ma spogliarsi della pietá, chi può farlo senza spogliarsi d’umanitá? Per modo che la tragedia per questo solo meriterebbe d’essere, come fiero e scandaloso spettacolo, abborrita. L’altro punto è come può stare che le cose terribili purghino la paura, conciosiaco- saché non si vegga le materie colleriche essere atte a purgar la collera, ma si bene a farla maggiore, e cosi le flemmatiche e l’altre degli altri umori. E però, con le viste di cose orribili e spaventose, a chi è timido di natura, s’aggiugnerá piú tosto spavento. Quantunque dicano alcuni che anzi l’abituarsi nel veder cose orribili, come sangue, ferite e morti, rende l’animo intrepido, e, coll’esempio del soldato, conchiudono che ’n cotal guisa la tragedia purghi il terrore. Il che forse si potrebbe concedere, s’ella rappresentasse gladiatori o sicari. Ma ella è da ciò tanto lontana, che anche le morti, che sono in lei, rade volte sottopone agli occhi degli ascoltanti, ma falle raccontare, avvengaché qualche volta i corpi morti produca in palco, come Euripide fece nelle Fenisse. Certissima cosa è che Sofocle noi fé’ mai, che che si dicano alcuni, i quali s’hanno creduto che la morte d’Aiace si faccia in vista del teatro, che non è vero a chiunque intende e considera ben quel luogo. Cosi dunque non può ella voler purgare, perciocché le viste truculenti fanno ben gli uomini piú crudeli, ma non piú forti Né la fortezza del soldato, quand’ella nasce dall’abito di veder corpi morti, è virtú, e chi per altra via non è forte, impropriamente si chiama tale, come quella eziandio del nocchiero, abituato nelle tempeste del mare, secondo che c’insegna Aristotile, non può dirsi vera fortezza. Il veder dunque in altrui spesso la morte assicura bene di praticare dove si muore, e per questo i car- nefici e, ne’ tempi di pestilenza, i beccamorti, che son persone vilissime, in quel loro esercizio sono intrepidi piú degli altri; ma non rende gli animi forti né purga il timor della morte. E che sia vero, pochi sono i soldati, tuttoché ogni giorno veg- gano il sangue, che, quando il pericolo della morte non è piú in mano della fortuna, ma del nemico piú forte, e giá si veggano sopraffatti, stien saldi nella battaglia e non volgan le spalle; e que’ pochi, che resistono e fanno testa, non sono forti per abito di vista spaventevole e truculenta, ma per abito d’onorato, vertuoso e lodevole oggetto. Vengo ora alla compassione, della quale potrebbe dirsi che ’l frequentar le viste compassionevoli fosse cagione di consumarla. Ma io non so vedere come altri possa privarsi di questo affetto senza spogliarsi d’umanitá, che vuol dire farsi crudele; né so come Aristotile il voglia, avendoci egli pure insegnato nelle Morali che si dé’ compatire del male che ha l’amico. Or queste sono le difficultá che ci bisogna prima risolvere, volendo bene intendere il modo con che il poema tragico purga. E, prima ch’altro s’intenda, è da sapere che ia voce «purgare* ha duo sensi: l’uno è «di spegnere af- fatto», e ’n questo l’usò il Boccaccio, lá dove e’ disse: «I peccati, che tu hai infino all’ora della penitenza fatti, tutti si purghe- ranno». L’altro è di «purificare e mondare», e ’n tale senso disse il Petrarca: «Vergine, i’ sacro e purgo Al tuo nome e penseri e ’ngegno e stile»; perciocché quivi non vuole spegnere il proprio ingegno, come il Boccaccio intendeva di spegnere le peccata, ma di sgombrarlo d’ogni viltá e farlo in sua natura perfetto. In questo secondo significato si dé’ prendere il «pur- gare» della tragedia, come altresi lo prendono i medici: i quali, quando essi voglion purgare, pogniam caso, la collera, non hanno intenzione di spegnerla o diradicarla affatto dal corpo umano, ché cotesto sarebbe un volere uccidere e non sanare, levando alla natura tutto un umore, ond’ella si serve per temperamento degli altri, ma di levarne sol quella parte, che, traboccando fuor de’ termini naturali, corrompe la simmetria della vita, onde poi nasce la ’nfermitá. Non purga dunque il poema tragico gli affetti suoi alla stoica, spiantandogli totalmente da’ nostri cuori, ma moderandoli e riducendogli a quella buona temperie, che può servire all’abito vertuoso. Anzi si vai dell’uno per me- dicina dell’altro, perciocché tanto è lontano che tutti i timori sien viziosi, che anzi ve n’ha di quelli, che sono i naturali fomiti alla vertú, com’è il timor della ’nfamia. Parimente la commiserazione non è tutta buona, perciocché, non servati i debiti modi, passa in tenerezza e ’n mollizie, che snerva gli animi giusti. Hanno dunque bisogno questi duo affetti d’esser purgati, cioè ridotti a vertuoso temperamento, e questo fa la tragedia. Ma, se il «purgare»si considera come effetto della cosa purgante, diremo che questi affetti si purgano nel primiero si- gnificato, perciocché il buono intende di spegnere e diradicare affatto il cattivo. Se dunque il timore e la compassione purgan gli affetti simili a loro, e de’ timori e delle compassioni altri son buoni, altri no, bisogna che noi veggiamo quali nella tra- gedia sono i purganti e quali i purgati; e quinci apparirá che non repugna alla natura loro il purgare e Tesser purgati. E, cominciando dal primo, dico che, si come l’uomo ha due vite, l’una dello ’ntelletto e l’altra del senso, cosi può aver timor di due morti, nelle quali, per testimon d’Aristotile, è per 10 piú fondato il terribile. Quale è dunque il terrore purgante nella tragedia? quel della morte interna, il quale, eccitato nel- l’animo di chi ascolta per l’immagine delle cose rappresentate, tira, per la similitudine che l’un timore ha con l’altro, a guisa di calamita, il malo affetto peccante; onde poi la ragione, eh’è natura e principio della vita dell’anima, abbonendolo come suo capitai nemico e contrario, lo spinge fuori di sé, lasciandovi solo il buon timor della ’nfamia e della morte interna, fon- damento della vertu. Quando dunque il terrore purga il terrore, non fa come se giugnesse collera a collera, ma come il rabarbaro, 11 quale, tuttoché abbia similitudine occulta con quell’umor ch’egli purga, in quanto al fine però gli è sommamente contrario, perciocché l’uno sana e l’altro corrompe. Cosi il terrore purga il terrore, conciosiacosaché niuna via può trovarsi né piú valida né piú certa di non temere il morire, che ’l dar vigore e spirito alla vita dell’anima, eh’è ’l senso della ragione. Tutti gli altri sono men gagliardi argomenti, ché, se delle due vite l’in- terna è la piú propria dell’uomo, non ha alcun dubbio che chi vivace la sente in sé, sosterrá pria di non essere che di mai essere. In questo dunque consiste tutto ’l negozio della tragedia, la quale, rappresentandoci quel terribile che può es- sere nella morte dell’animo, c’insegna di non aver timor di quella del corpo e fa sentirci di denfro la forza della giu- stizia, per cagion della quale veggiamo i personaggi tragici, quando sono nell’animo tormentati, non sentire i tormenti del corpo e non aver timore alcun della morte. Per questo gli scel- lerati non hanno luogo nelle tragedie, si come quelli che hanno in tutto mortificato il sentimento interno della ragione. Ma vegniamo agli esempli. Di che si duole Edipo nel Tiranno di Sofocle, regina ed esemplare delle tragedie? Di che, dico, si duole quel re infelice dopo il riconoscimento del parricidio e dello ’ncesto da lui commesso? di doversi privar del regno? della patria? d’esser caduto dallo stato reale e fatto, di re, mendico? No. E pure queste sono percosse le maggiori e le piú gravi che possa avere chi altamente è nato. Ma esso non le sente, anzi prega che quanto prima sia condotto fuori della cittá, lasciando il regno a Creonte, si come a lui ricaduto per morte sua non naturale, ma civile. Né altra cosa il tormenta che il parricidio e lo ’ncesto, vedendosi in quelle colpe caduto tanto nefande e da lui si grandemente abborrite, che prima, per la sua interna giustizia, si sarebbe dato la morte che vo- lontariamente commetterle. Quest’orrore, questa infamia l’oc- cupa tanto, che si scorda d’ogn’altro danno; questo dolore l’accuora si, che non sente la perdita né degli occhi, né della patria, né dello scettro regale, e parla delle sue pene interne, come se nell’esterno non sentisse dolore e perdita alcuna. Spet- tacolo che ci fa ravvedere delle nostre infermitá e, a coloro che temono si grandemente il morire, fa chiaramente conoscere che l’umana natura ha cosa piú terribile della morte, della quale se si dé’ pur temere, di quellasola dell’animo dé’ temersi, poiché quella del corpo a paragon di lei diviene quasi insensibile. Il mede- simo documento ci dá pur anche Sofocle ne\V Aiace, tormentato sol dalla ’nfamia, nella quale a lui pare d’esser caduto per la pazzia, che pure è morte dell’anima, che lo spinse a tórsi la vita, non volendo vivere alla natura, essendo morto all’onore. Lo stesso pur s’impara ancor nell ’Antigone e nell’ Efigenia, per- ciocché, per lo bene adoprare, eh’è la vita dell’anima, l’una nel seppellire il fratello e l’altra nel procurare il ben pubblico, non ’ curano né il danno né il pericolo della morte del corpo. E cosi, di- scorrendo per tutte l’altre che sono buone tragedie, come che po- che se ne veggan di tali, si troverá che ’l terrore purga di questo modo il terrore, avvengaché alcune piú, alcune meno, secondo ch’elle, o per la favola o per l’artifizio del poeta, sono piú e meno perfette. Ma qui potrebbe nascere un dubbio, il quale è bene che si risolva, perciocché nel trattato «Della fortezza» Aristotile non riceve per atto vertuoso il darsi la morte; onde si porria dire che la tragedia,- insegnando di cader nel peccato, non pur- gasse ben gli animi, ma piú tosto gli corrompesse. A che si può rispondere in due maniere: l’una è che ’l filosofo non ri- prende coloro che per fuggir la ’nfamia o per coscienza del lor peccato, ma per non sostenere o povertá o altra molestia del senso, si recano a darsi morte. E, quantunque la nostra santa e vera religione stimi, come è, peccato ogni volta che qualcuno da se stesso si procura la morte, nientedimeno la gentilitá, che non avea questo lume, giudicò fatto nobile il darsi morte, come Cato, Bruto e altri, ma piú di tutti Lucrezia, che non per gloria, ma per giustificare l’onestá sua se la diede. L’altra risposta è che la tragedia non si serve dell’atto volontario di chi s’amazza per imitare un’opera virtuosa, ma per isprimere che tanto è ’l dolor dell’animo, che chiunque si dá la morte, non sente quello del corpo, e che la nostra umanitá patisce cosa che piú le preme ed è piú spaventevole della morte. Che finalmente la tragedia è una favola e non ha per suo scopo d’insegnar la vertú, ma di purgare quelle due perturbazioni del- l’animo, in quanto può una favola, che fanno ostacolo alla for- tezza, che ’n tutti gli atti umani è tanto nobile e necessaria vertú. Or passiamo all’altro affetto della compassione, la quale non è altro che dolore del male altrui. Ma questo male può essere in due maniere, o del corpo o dell’animo; onde nascon le due compassioni, buona e cattiva: perciocché la buona è quando noi ci attristiamo di chi s’affligge nell’animo, perché troppo si sia compiaciuto nel corpo; e la cattiva è quando ci attristiamo di chi s’affligge nel corpo per aver pace con l’animo. E ’n ciò consiste la vera cognizione di questo affetto utilissimo, anzi pur necessario a tutta la vita umana: perciocché altra diffe- renza non è tra il continente e l’incontinente, che si posson chiamare i soldati della vertú, se non che l’uno non ha com- passione al corpo e l’affligge per non aver tormento nell’animo; l’altro è tanto tenero verso ’l corpo, che si lascia cadere nel- l’offesa dell’animo, ond’egli ha poi l’angoscia del pentimento. Quinci è nato il proverbio che «medico pietoso fa la piaga verminosa»; ché, s’egli usasse il ferro e non avesse quella sciocca pietá per non dar pena allo ’nfermo, per poco male che gli facesse, il camperebbe da morte. Il medesimo è nel soldato, il quale, se è troppo tenero di se stesso, fugge le fa- tiche e i pericoli, onde poscia avvien di leggieri che egli, o lasciando gli ordini o volgendo le spalle o altra cosa operando indegna di lui, cada in infamia e poi se ne crucci e sia degno di vera compassione. Cosi il padre, cosi il maestro, troppo a’ di- scepoli e a’ figliuoli indulgente; cosi il giudice, cosi il prencipe troppo compassionevole nel punire, sono cagione di tutti i mali, che commettono i trasgressori. Non si vuol dunque aver com- passione dell’altrui pena del corpo, quand’ella è giusta, ma si ben della colpa, quand’ella, conosciuta e sentita dal pecca- tore, diventa pena del suo peccato, perciocché quella infievo- lisce l’animo di colui che ha compassione e questa il fortifica, quella il dissolve e questa l’unisce, quella il rilassa e questa l’assoda. E non ha dubbio che, senza il sofferire e ’ndurarsi contra le lusinghe e le molestie del senso, astenendosi e so- stenendo, non può l’uomo conseguir l’abito, ch’è suo proprio, della vertú. E chiunque compatisce in quel modo, si dispone a sofferir nel corpo per non avere angoscia nell’animo. Quale sia dunque la compassione che purga e quale quella che dé’ esser purgata, dalle cose dette di sopra si può comprendere. E, per non partire dal celebrato esemplo d’Edipo, considerate gli affanni suoi, li quali erano di due sorti, altri del senso e altri della ragione. Chi è colui che, veggendo quel re, giá si grande, privato, cieco e sbandito, mali non sentiti, anzi pro- curati da lui, non gli abbia della ’nterna cagione di quella cecitá, di quella afflitta fortuna maggior compassione che del- l’estrinseco effetto? Chi non sente il medesimo ne\l’Aiace, e chi nell ’Efigenia d’Euripide, e, contemplando la fortezza di quella vergine nel disporsi a morire per pubblico beneficio, non purga l’animo suo di quella tenerezza e viltá, ch’è fo- mento dell’amor proprio? e non impara, per la vertú e per l’opere illustri e grandi, d’espor la vita ai pericoli della morte? Quanto dunque una favola avrá piú del terribile e del compassionevole, sará ella tanto piú tragica. Per la qual cosa, se Tesser tragico è qualitá alterabile, che si può accrescere e sminuire, come da’ detti d’Aristotile si raccoglie, sará in man del poeta di far la favola piú e men tragica, secondo che piú e men di terrore e di compassione vi s’indurrá. Le sommamente tragiche avranno i personaggi grandi, i nomi veri, l’azion grave, i costumi, l’apparato, il decoro, la locuzione e la sentenza magnifica, il riconoscimento, la mutazion di fortuna e ’1 fine calamitoso. Tale è Y Edipo il tiranno di Sofocle. Le meno tragiche non hanno né riconoscimento né mutazion di fortuna; le molto meno mancheranno di fine calamitoso; le ’mperfettissime son le dop- pie, delle quali a suo luogo, l’episodiche e le non vere. Dunque dal terribile e dal miserabile, piú o meno purganti, nascono i gradi delle tragedie. Onde séguita che se, come s’è detto, Tesser tragico può ne’ suoi gradi alterarsi, non ha dubbio che può anche corrompersi e dileguarsi, per modo che tra- gico non sia piú, ma passi in un’altra spezie. E però, se nelle sue alterazioni alcuna cosa riceverá che non repugni agli affetti del terribile e del miserabile, sará egli tragico sempre, ancora che piú e meno. Ma, mescolandosi con qualitá repu- gnante e contraria ai soprannominati duo affetti, si come è ’l riso, converrá che si corrompa la spezie, e, mutandosi fine, si muti forma, perciocché, dove si vuole il riso, non può star né pietá né terrore, affetti oppositi, si che l’uno distrugge l’altro. Se dunque il riso corrompe la forma tragica, quand’egli si troverá in soggetto che non sia vile e plebeo, e avrá quelle parti della tragedia che non son repugnanti al ridicolo, che poema fará? Tragedia no, perciocché la forma tragica per ca- gion del riso è distrutta; ma neanche commedia, che non riceve soggetto nobile, e solo ci rappresenta difetti d’uomini vili e capaci di riso. Che sará ella dunque se non un terzo parteci- pante di quelle qualitá tragiche e comiche, che si possano unire insieme? Ma che fine avrá ella? Eccoci alla decisione di quella difficultá, che ci ha mossi a far si lungo discorso. Dico pertanto che la tragicommedia, si come l’altre, an- ch’essa ha duo fini, lo strumentale, ch’è forma risultante del- l’imitazione di cose tragiche e comiche miste insieme, e l’ar- chitettonico, ch’è il purgar gli animi dal male affetto della maninconia, il qual fine è tutto comico e tutto semplice, né può comunicare in cosa alcuna col tragico. Perciocché gli effetti del purgare son veramente oppositi infra di loro: l’un rallegra e l’altro contrista, l’un rilascia e l’altro ristringe; moti dell’animo repugnanti, conciosiacosaché l’uno va dal centro alla circonferenza, l’altro cammina tutto all’opposito, e questi sono quei fini che nel drammatico si possono chiamare «con- tradditorii». Ma il fine strumentale può esser misto, percioc- ché molte parti ha la tragedia, che, rimosso il terribile, han virtú di produrre con l’altre parti comiche il diletto comico. Laonde, concedendo Aristotile il diletto nella tragedia, diletto con diletto agevolmente s’accorda. E quale è il diletto tragico? L’imitare azion grave di persona illustre con accidenti nuovi e non aspettati. Or bevisi il terrore e riducasi al pericolo solo, fin- gasi nuova favola e nuovi nomi, e tutto sia temperato col riso: resterá il diletto dell’imitazione, che sará tragico in potenza, ma non in atto, e rimarráne la scorza sola, ma non l’affetto, che è il terribile, per purgare; il quale non si può inducere se non con tutte le parti tragiche, altramente la storia sarebbe anch’ella tragedia. Ed è fra loro una gran differenza; perciocché quella con la sua semplice narrazione non vuol purgare, e questa, col suo grave, coll’apparato, coll’armonia, col numero, con la locuzione magnifica e sontuosa e con l’altre tragiche viste e cose, vuole indurre il terribile e ’l miserabile, per pur- garli. E però lá dove dice Aristotile che sommamente tragiche son le favole di fin mesto, ci volle aggiungere «quand’elle son ben condotte», volendo dire che tutte le rappresentazioni non producono effetto tragico, ma quelle sole che sono accompa- gnate da tutte l’altre parti che ci concorrono. Consiste dunque il diletto tragico nell’imitazione di fatti orribili e miserabili, la quale per se stessa, come dice Aristotile, è dilettevole. Ma non basta: bisogna che l’altre parti ancora sien tali, se si vuol bene conseguire il fin di purgare; altramente non si fará tragedia se non equivocamente, cioè fuori de’ termini della definizione datale dal filosofo. Chi dunque d’alcun soggetto servir si vuole per non purgare il terrore, il va temperando col riso e con le altre qualitá comiche, in modo che, quantunque di sua natura terribile e miserabile, non ha però forza di produr né terrore, né compassione, e molto men di purgarla, ma resta con la sola vertú di dilettare imitando. E, si come ogni cosa terri- bile non è atta a purgare il terrore (ciò si pruova nelle pitture, quantunque orribili e spaventose, e nelle cose della medesima qualitá, che solamente si narrano senz’arte alcuna drammatica), cosi ogni rassomiglianza del terribile non produce tragedia, s’ella non vien condotta con l’altre parti che ci concorrono. E che sia vero: quando Aristotile difende il Fior d’Agatone e l’altre di nomi finti, non dice ch’elle purghino come l’altre, ma che dilettano, perciocché l’animo non si purga, s’egli non si contrista, non essendo altra cosa il terrore e la commisera- zione che dolore e tristizia, a cui repugna dirittamente il diletto, né il contristare ha luogo dove si rappresentan favole finte e cose ridicolose. Se dunque la tragedia diletta, ciò fa imitando; e fallo in quella guisa con che si suole ingannare il fanciullo abborrente la medicina, ugnendo l’orlo del vaso, come dice Lucrezio, d’alcuna cosa dolce per allettarlo a bere la medicina. Dilettan le viste tragiche; ma lascian poi al fine una mestizia grande nell’animo, la quale è quella che purga. E però a molti non piace il poema tragico in sua natura, perciocché tutti non han bisogno di quella purga. E, si come l’etá si mutano, cosi i costumi si cangiano. Piacque prima nella sua infanzia la tragedia tutta giocosa, e dopo alquanto di tempo dilettò grave. Cominciò poi a piacere il primo diletto, e v’introdussero i romani, si come avevano fatto i greci altresi, un’altra volta i satiri. E questa è la vera cagione delle differenze e de’ gradi che sono nelle favole piú e meti tragiche, perciocché, veggendo i poeti i vari gusti degli ascoltanti, alcuna volta componevan le fa- vole col fin lieto per rimettere in parte quell’acrimonia. Quinci agevolmente si può tór via quella contradizione che par ne’ detti d’Aristotile, il quale, favellando della tragedia terminante in felicitá, dice che la ’mperizia del teatro le concedeva il primo luogo di dignitá, e poco dapoi soggiunge che quelle di fin mesto son riputate le piú perfette; la quale incostanza nasceva dai diversi umori degli ascoltanti, perciocché tutti non hanno gusto di quel perfetto, senza che la maggior parte degli uomini si conducono a veder gli spettacoli per fine di ricrearsi e non di piagnere o contristarsi. La medesima diversitá in coloro che ascoltano, secondo che i secoli si sono andati cangiando, ha diversificata altresi la commedia, la quale anch’essa ha le sue differenze, poiché, si come nella tragedia il terrore, piú e men temperato, ha fatto nascere i gradi del piú e meno tragico, cosi il riso, piú e men dissoluto, ha fatto anch’esso la favola piú e men comica divenire. Da principio non era oscenitá né la- scivia di sorte alcuna che, per muovere altrui a riso, non si rap- presentasse liberamente e senza rispetto alcuno. Cominciò poi a stomacare quella licenza tanto sfrenata, e, temperandosi a poco a poco, s’introdusse una forma di favola piú modesta, col riso assai piú parco e con gli scherzi piú moderati e con le oscenitá piú coperte e finalmente sbandite, con quella si notabile dif- ferenza che si vede tra quelle di Aristofane e di Menandro e tra quelle di Plauto e di Terenzio. Le quali tutte, secondo i tempi loro, furono buone, avvengaché le prime sembrassero sfaccia- tissime meretrici e le seconde venerande matrone. Nasce dun- que tutta questa varietá cosi tragica come comica dal teatro, si come chiaramente mostra Aristotile ne’ sopraddetti luoghi della Poetica , ma molto piú nell’ottavo della Politica , dov’e’ ci reca la differenza eh’è tra gli spettatori dotti e indotti, nobili e della plebe, alla natura de’ quali dice egli però che si deono accomodar gli spettacoli e l’armonie. E veramente, se le pub- bliche rappresentazioni sono fatte per gli ascoltanti, bisogna bene secondo la varietá de’ costumi e de’ tempi si vadano eziandio mutando i poemi. E, per venire all’etá nostra, che bisogno abbiamo noi oggidí di purgare il terrore e la commise- razione con le tragiche viste, avendo i precetti santissimi della nostra religione, che ce l’insegna con la parola evangelica? E però quegli orribili e truculenti spettacoli son soverchi, né pare a me che oggi si debbia introdurre azion tragica ad altro fine che per averne diletto. Dall’altro canto la commedia è ve- nuta in tanta noia e disprezzo, che, s’ella non s’accompagna con le maraviglie degli «intramezzi», non è piú alcuno che sofferire oggi la possa. E questo per cagione di gente sordida e mercenaria, che l’ha contaminata e ridotta a vilissimo stato, portando qua e lá per infamissimo prezzo quell’eccellente poe- ma, che soleva giá coronare di gloria i suoi facitori. Per solle- vare adunque di tanta meschinitá la comica poesia, che possa dilettare le svogliate orecchie de’ moderni uditori, seguendosi le vestigia di Menandro e Terenzio, che la innalzarono a decoro piú grave e piú ragguardevole, si sono i facitori delle tragi- commedie ingegnati di mischiar tra le cose piacevoli di lei quelle parti della tragedia che si possano accompagnare con le comiche, in tanto che conseguiscano la purgazione della me- stizia, argomentando, e non male, che, si come i romani antichi, per testimonio d’Orazio, introdussero i satiri, personaggi ridi- coli, nella severitá del poema tragico, come di sotto si mostrerá, non per altro che per sollazzo e recreazione degli ascoltanti, cosi dé’ esser lecito a noi, per levare il fastidio e l’abborrimento che oggi ha il mondo delle semplici e ordinarie commedie, di tem- perarle con quella tragica gravitá che non sia repugnante al fine architettonico di purgar la mestizia. Ma, per concludere oggi- mai quello che fu primiera intenzione di dimostrare, dico che, se sará domandato che fine è quello della poesia tragicomica, dirò ch’egli sia d’imitare con apparato scenico un’azione finta e mista di tutte quelle parti tragiche e comiche, che verisimil- mente e con decoro possano stare insieme, corrette sotto una sola forma drammatica, per fine di purgar con diletto la me- stizia degli ascoltanti. In modo che l’imitare, il qual è fine strumentale, è quel eh’è misto, rappresentando egli cose tra- giche e comiche mescolate. Ma il purgare, ch’è fine architet- tonico, non è se non un solo, riducendosi il misto delle due qualitá sotto un soggetto solo: di liberar gli ascoltanti dalla ma- linconia. E, si come ne’ misti naturali, ancorché in essi tutti quattro si truovino gli elementi rintuzzati, come s’è detto, re- sta però in ciaschedun di loro una particolar qualitá, o di que- sto o di quello, signoreggiante, ch’avanza l’altre e verso quello piú piega che l’è piú simile: cosi nel misto di che par- liamo, benché le parti di lui sien tutte tragiche e comiche, non è però che la favola non possa avere piú dell’una qualitá che dell’altra, secondo che piú piace a chi la compone, purché si stia ne’ termini che di sopra si sono detti. L’ Anfitrione di Plauto ha piú del comico, il Ciclope d’Euripide piú del tra- gico: non è però che non sia questa e quella tragicommedia, poiché niuna di loro ha per fine di purgare il terrore e la com- passione, non potendo ella star dov’è riso, disponente gli animi a dilatarsi, non a ristringersi. Tali, per avventura, dovevano essere le favole di Rintone, di cui tra’greci Snida, Stefano nel suo libro Delle cittá e Ateneo, tra i latini Donato, commen- tator di Terenzio. E tali furono senza fallo le satire prima che la tragedia si riducesse a quella severitá, nella quale dice Ari- stotile che, dopo una lunga mutazione, si riposò. Inventore delle quali fu Pratina, al tempo d’Eschilo suo concorrente, e leggesi che di cinquanta favole che compose, trentadue ne furon sa- tiriche. Ma niuno meglio d’Orazio nella sua poetica Pistola a’ Pisoni ci ha descritta la tragicommedia con questi versi : Mox eliam agres/es satyros nudavit et asper incolumi gravitate ioctirn tentami eo quod itlecebris erat et grata novitate morandus spectator, funclusque sacris et potus et exlex. Veruni ita t isores, ita commendare dicaces conveniet satyros, ita vertere seria ludo, ne, quicumque deus, quicumque adhibebitur heros, regali conspectus in auro nuper et ostro, tnigret in obscuras humili sermone tabernas. I quali versi, trasportati in nostra favella, voglion dir questo: Ci fe’ poi anco i satiri selvaggi vedere ignudi, e tra le cose acerbe, salva la gravitá, tentò gli scherzi: perché, fornito il sacrificio e tutto giá pien di vino il veditore e sciolto, con quegli allettamenti e col piacere si dovea trattener di cose nuove. Ma si vuole onestar con tal decoro il riso di que’ satiri mordaci, cosi la gravitá mischiar col giuoco, che, qualunque tra lor si rappresenta, o nume o semideo, che dianzi d’ostro regalmente si vide ornato e d’oro, ignobilmente non favelli, in guisa che sembri uom di taverna oscuro e vile. Ora, essendosi dalle parti e dal fine bastevolmente provato che il misto tragicomico è ragionevole, resta che ciò si pruovi ancor dallo stile, il quale, dovendo esser proporzionato alla favola, bisogna bene che, s’ella è mista, anch’egli, per essere uno, sia misto. E, si come Demetrio falereo, maestro nobilis- simo degli stili, c’insegna che le due forme da lui chiamate íoxqòv xaí neYaXo^ejtèq, cioè «dimessa e magnifica», non si possono mescolare, cosi afferma che l’altre due, yfoupVQÒv xaí fieivòv, cioè la «polita» e la «grave», il possono fare, accom- pagnate con l’una o con l’altra dell’antidette, per modo che il facitore delle tragicommedie, quando pure si concedesse che le due prime non mescolasse, non si potrebbe negare che di- rittamente dell’altre due noi facesse. La sua propria e princi- pale è la magnifica, la quale, accompagnata con la grave, di- venta «idea» della tragedia; ma, mescolata con la polita, fa quel temperamento, che conviene alla poesia tragicomica. Percioc- ché, trattandosi in essa di persone grandi e d’eroi, non con- viene favellare umilmente; e, perciocché nella medesima non si vuole il terribile e l’atroce, anzi si fugge, lasciando da parte il grave, prendesi il dolce, che tempera quella grandezza e quella sublimitá, eh’è propria del puro tragico. Cosi lodava Donato il giudicio e l’arte di Terenzio, che si bene avesse saputo andar per mezzo di coteste due forme tanto contrarie. Oltre di ciò, gli stili non sono come campane, che, fuor di quell’ordinario e zotico tuono che loro diede l’artefice, non sieno atte a fare alcun verso piú e men grave o piú e meno acuto di quello che sempre fanno; ma sono come le spiritose e arrendevoli corde del musicale stromento, le quali, benché tutte abbiano il proprio tuono, non è però che ’n quello or- dinariamente non sieno piú e meno, secondo che piace al musico, intense o dimesse. L’«ipate» senza dubbio non sará mai la «nete», né questa sará mai grave, né quella acuta. L’una e l’altra risuona, piú e meno secondo il bisogno, grave e acuta, né con questa loro pieghevole alterazione escono però mai de’ termini loro, in modo che l’«ipate» non sia sempre corda del grave, e dell’acuto la «nete». Nel medesimo modo si maneggian gli stili, né perché il magnifico si rimetta, rimarrá per questo d’esser magnifico, né perché il dimesso s’aiti, passerá ne’ confini del grande. E, si come la corda grave e acuta nelle loro maggiori e minori intensioni van discorrendo per gradi, che «tuoni» sono chiamati, cosi gli stili passano per alcune parti dell’ora- zione, che, ricevendogli, piú e meno gli rendon tali. Queste sono: «la sentenza, il metodo, la figura, la locuzione, la testura e ’l numero». Da queste parti risultano in quella guisa gli stili, che dalla fronte e dagli occhi e dalla bocca e dal mento e dall’altre parti del volto umano risulta la sembianza in altrui virile e grave, in altrui molle, delicata e dimessa, e in altrui temperata. Or come fa il tragicomico nel temperare il suo stile? non fará certo la sentenza o la figura della forma sublime, e la locuzione e ’l numero del dimesso; ma, moderando la gra- vitá della sentenza con que’ modi che la sogliono fare umile, e sostenendo altresi l’umiltá d’alcuna o persona o soggetto, di ch’egli tratti, con un poco di quella nobiltá di favella ch’è propria della magnifica, va facendo una idea, secondo la sog- getta materia, né tanto grande che sormonti alla tragica, né tanto umile che s’accosti alla comica; e cosi, discorrendo nelle altre parti, andrá con le contrarie qualitá dolcemente tempe- rando la sua testura. Né questa è mia dottrina, ma d’Ermo- gene, famoso artefice delle idee. Favellando egli delle vaghe e belle misture che hanno saputo fare e Demostene e Seno- fonte e Platone, dice che gli stili si mescolano a guisa di co- lori, e si come dal bianco e dal nero, che sono tanti contrari, si forma un terzo ch’egli chiama cpaiòv, che «fosco» noi chia- meremo, cosi dalle contrarie forme del dire nascono i misti, che vaga rendono e ragguardevole la favella; soggiugnendo che non bisogna maravigliarsi se l’una idea comunichi in qualche parte con l’altra e con alcun’altra non si confaccia, dandone l’esempio dell’uomo, il quale tutto insieme è dagli altri animali differentissimo, ma nell’esser mortale è però si- mile a molti, e nell’avere intelletto ha con gl’iddii alcuna cosa comune. Quella mistura dunque, da duo famosi greci retori si lo- data, non dovrá essere alla poesia tragicomica disdicevole, poi- ché, per testimonio d’Ermogene, con tanta leggiadria l’hanno usata le piú famose lingue e le piú scelte penne di tutta Grecia. E tanto basti intorno allo stile, al discorso del quale séguita di necessitá quello della favella,che da’latini «locuzione», e «frase» da’ greci viene appellata. La quale in modo alcuno noi non pos- siamo né pretermettere né dissimulare, avendo i medesimi oppo- sitori accusato nel Pastorfido il parlar troppo figurato e gli or- namenti, a poeta lirico piú tosto che drammatico convenevoli. Intorno alle quali opposizioni, ancora che io potessi lungamente discorrere e allegare innumerabili autoritá e de’ greci e de’ latini scrittori, nientedimeno d’un Aristotile solo, maestro di tutti gli altri, sarò contento, il quale nella Poetica , oltre a quello che ne disse pure anche nella Ritorica, favellando delle vertú che pro- priamente convengono a ciascheduna spezie di poesia, le voci che son composte al ditirambo, all’epico le straniere, e al giambo, per esser proprio verso drammatico, assegnò quelle ch’esprimono acconciamente il vicendevole e comune uso del favellare. Ma, non contento di questa regola generale, discende alla particolare, additandoci quali sieno, e dice cosi: tori 8è rd JioioOvTa tò xvpiov xaí p.£raqx>eá xai xóap,05, che vuol dire: «e le voci che questo fanno sono le proprie, le metaforiche e le ornate». Quinci si può vedere con quanto fondamento parlin gli oppositori, i quali accusano il parlar figurato, che non è altro che ’l metaforico; accusano gli ornamenti, che, secondo il filosofo, sono le prin- cipali vertú del poeta e del poema drammatico. Quanto agli ornamenti lirici, se si trovasse maestro di ritorica o di poetica, che insegnasse quali sieno i particolari ornamenti del lirico e quali quei del drammatico, a loro sarei ricorso, e le leggi pren- dendone, con assai men di parole avrei condotta la mia difesa. Ma, poiché questi mi mancano, a’ poeti stessi mi volgerò. E, cominciando da’ greci e lasciando da parte, per non mischiar le cose sacre con le profane, la davidica poesia, ch’avanza, per mio giudicio, quanti poemi lirici furon mai, gli truovo in due differenze, l’una turgida, grande, nervosa, concitata, piena di maestá, e questa è quella di Pindaro, e forse fu di Stesicoro; l’altra tenera, delicata, placida, piena di venustá, piena di leggia- dria, e questa è quella d’Anacreonte; e, si come la grandezza pin- darica ebbe tra i latini Orazio che l’imitò, cosi non mi so ben risolvere chi debbia essere parallelo d’Anacreonte, se non per avventura Catullo, che ’n tutto non mi par simile, ma neanche tanto diverso, che non si debbia porre nella classe de’delicati. E, quantunque si possa dire che queste due differenze nascano dalla necessitá delle materie diverse, avendo Pindaro cantate le vittorie d’uomini grandi, e quel buon vecchio d’Anacreonte gli amori, io parlo nondimeno di quella diversitá eli’è negli stili, quasi propria di ciascun genio, si come disse Aristotile altresí, che le diverse inclinazioni de’ facitori, alcune alle cose grandi e alcune alle basse, cagionarono i due poemi tragico e comico. E porto ferma openione che, se ’l placido Ana- creonte avesse cantate Tarmi e ’l gran Pindaro gli amori, l’uno teneramente avrebbe cantato Tarmi e l’altro gravemente gli amori. E che sia vero, leggasi 1 ’Argonautica di Catullo: avvengaché sia pur epica poesia, non può egli dissimulare in essa la sua naturale ed insita tenerezza. Leggasi per Io contrario lá dove Orazio parla d’amore: non s’ammollisce mai tanto, che si scordi d’essere Orazio, ed è in questo molto simile al gran Virgilio. Videro, com’ io credo, que’ primi rimatori di nostra lingua la differenza di questi lirici stili; ma essi, o che si diffi- dassero di poter giugnere alla grandezza dell’una, o che pure men la prezzassero, qualunque la cagion se ne fosse, certa cosa è che la dolcezza dell’altra piú volentieri abbracciarono. II che si vede assai chiaro nel Canzoniere del Petrarca, che prencipe fu di tutti, perciocché egli amò piú tosto la tenerezza dell’en- decasillabo che il nervo del ditirambo. E, benché alcuna volta s’innalzi, è nondimeno in quell’altezza si molle e si delicato, che gli avi nostri, ne’ quali dopo la barbarie di molti secoli cominciò a rinverdire lo studio della toscana favella, credettero fermamente ch’ella non fusse di sua natura bastevole a produrre altro numero che quel tenero e molle catulliano. Quando Gio- vanni della Casa, mirabile uomo cosi nell’una come nell’altra lirica poesia, s’avvide troppo bene che questo luogo era tra’ nostri lirici ancora intatto, e’ fu primiero a concepire nell’animo e nell’orecchio il numero oraziano, insegnando di sostenerlo, di dargli nervo, di rompere a tempo, di portare periodi, di fare scelta di parole, d’aggiunti e di traslati nobili e pieni di maestá. Ora, stante la diversitá di questi duo stili, se si parla del grande, dico esser cosa falsissima che tali nel Pastor fido si trovino gli ornamenti, si come quélli che, per esser nervosi, non convengono al verisimile di chi parla, ma sono propri o di chi loda o di chi celebra o di chi, rapito da gran furore, ha sol per fine l’amplificare, l’illustrare e portare al ciel quel soggetto di cui si tratta. Nel Pastor fido il numero non è turgido, non è stre- pitoso, non ditirambico. I suoi periodi per lo piú non son lunghi, non concisi, non intralciati, non duri, non malagevoli da essere intesi, se molte volte non si rileggono. I suoi traslati son presi da luoghi significanti, da luoghi non lontani, da luoghi propri ; la sua favella è pura ma non abbietta, propria ma non vol- gare, figurata non enigmatica, leggiadra non affettata, sostenuta non gonfia, tenera non languente, e tale, per concludere in una sola parola, che, si come non è lontana dal parlare ordi- nario, cosi non è vicina a quel della plebe; non tanto elaborata che rabbonisca la scena, né.si volgare che ’l teatro la vilipenda; ma si può insieme rappresentare senza fastidio e legger senza fatica. E questa è quella nobiltá di favella, che c’insegnò, se io non m’inganno, Aristotile, la qual, essendo fuor dell’uso co- mune, in quanto s’allontana dal proprio, acquista del pelle- grino. e ’n quanto s’accosta all’uso comune, diventa propria. E, si come il musaico è opera di stilo e par di pennello, cosi una tal favella, che sembra a chi la legge si piana, è tuttavia malagevole fuor di modo; ma la difficultá è tutta posta nel farla tale, che non sia malagevole a chi la legge: la fatica è pur del poeta, il quale pena perché chi legge non abbia pena, e que’ poemi, che non hanno questa vertu, il vero fine dell’arte, secondo che a me ne pare, nonconseguiscono. Ma, per tornare a proposito, non si dice che ’l Pastorfido non abbia degli ornamenti lirici, se del numero, dello stile, de’ traslati e delle voci simili a quella del Petrarca e de’ seguaci di lui s’intende; ed è tanto lontano che que- sto giudichi errore, che anzi errore giudicherei se altramente si fosse fatto, dovendo esser l’idea di lui il favellare con puritá che sia nobile, proprio stile della drammatica poesia. Ma forse non si vorrebbon tante vivezze, tanti spiriti, tante rime. I quali or- namenti non converrebbono a poema tragico e comico, impe- rocché sarebbono fuori del verisimile, in questa guisa non fa- vellandosi tra le mura della cittá, e, se cosi parlassero i cittadini, sarebbono verisimili. Facciasi dunque la conseguenza che ci corre da sé: quegli ornamenti son verisimili in quel poema, dunque son tollerabili. Il Pastor fido non è fatto in Arcadia? Or non è maraviglia se i pastori d’Arcadia, massimamente nobili, abbellivano di vaghezze poetiche i loro ragionamenti, essendo essi, piú di tutte l’altre nazioni, amicissimi delle muse. Per questo disse Virgilio: Ambo fiorentes aetatibus, Arcades ambo, et cantare pares et respondere parati; e molto piú chiaramente in un altro luogo: « — ... Cantabitis, Arcades, — inquit, monti bus haec vestris, soli cantare periti Arcades. — Ma, oltre il testimonio di Virgilio, che tanto vale, veggasi quello che ne dice Polibio nel quarto libro delle sue dottis- sime Storie , luogo in questo proposito molto bello: «Che tutti gli arcadi eran poeti, che ’l principale studio, il principale esercizio loro era quel della musica, che l’apparavano da fanciulli, che le leggi a ciò fare li costringevano; che i cori de’ lor fanciulli s’avvezzavano a celebrar col canto le lodi de’ loro iddii; che ’n questa professione ebbero per maestri i piú famosi musici della Grecia; che tutta e ne’ canti e ne’ versi la vita loro, la loro industria spendevano, talché il saper poco dell’altre cose in colui, che buono musico fusse, non era bia- simo alcuno, parendo cosa quasi impossibile che quello non si sapesse che tutti universalmente apprendevano, e negassesi di sapere quello che ’l non sapere si riputava vergogna». E però, chi vorrá dubitare che non sia verisimile che persone d’una tal vita, d’un tale studio non avessero giá contratto un abito cosi stabile di favellar poetico, figurato e leggiadro, che quanto loro usciva di bocca, o in pubblico o in privato, fosse favella piena di numeri e di vaghezza? in quella guisa che di se stesso diceva Ovidio: Quicquid conabar dicere, versus erat. Ciò che io voleva dir, sonava in versi. Chi vorrá dire che gente avvezza a non discorrere, a non pensare, a non esercitar mai altro che nobilissimi canti e leg- giadrissime poesie, quando per lor diletto, quando per obbligo, quando per fin di onore, quando per zelo di religione, non fa- vellassero, piú di quello che dir si possa, altamente e spiritosa- mente, ogni volta che loro veniva alcuna grande occasione di farlo, si come quella del Pastor fido , o di pregare o di muovere o di persuadere o di amplificare o d’esprimere alcuno di quegli affetti, che sono si frequenti e si propri delle sceniche poesie? Che se Teocrito e Virgilio fecero alcuna volta i bifolchi fuor del costume loro si nobilmente discorrere, perché non sará lecito a noi di fare ornatamente parlare i sacerdoti e gli eroi, la cui professione, e per costume e per legge, non era altro che musica e poesia? E, si come nella commedia i motti e le facezie son verisimili non per altro che per essere in bocca de’ cittadini, i quali sono in si fatti scherzi abituati per modo che, quantunque fare il volesseno, non potrebbono rimanersene; cosi nel Pastor fido quelle vivezze, quegli ornamenti che «lirici» sono detti, non repugnano al verisimile (parlo del verisimile non retorico, ma poetico), essendo proprissimi di coloro che cosi parlano, né altramenti parlar saprebbono. E chi non vede che le si fatte vaghezze sono i sali di quel poema, al quale, per non essere puro comico, non si richiede l’uso de’ ridicoli si frequente, ma in vece loro vi s’adopran gli spiriti, le vaghezze e gli scherzi, che non sono, come s’è detto, fuori del verisimile, e altrettanto, e forse piú, dilettano gli ascoltanti, a’ quali oggi non si può spegner se non col vin piccante la sete? Ma fin qui co* precetti dell’arte aristotelica in generale ab- biam provato che, quantunque si concedesse nella Poetica di Aristotile non trovarsi particolar poema simile al tragicomico, non per tanto, essendo egli fabbricato con quelle regole stesse della natura, con le quali il filosofo ha fondati gli altri poemi, non si dé’ dire che sia fantastica poesia, confermandosi ciò con gli esempli e della Commedia di Dante e de’ Trionfi del Petrarca e de’ romanzi de’ nostri tempi, che tutte son nuove forme di poetare, derivanti dal fonte della natura poetica inse- gnataci dal filosofo. Resta or che si pruovi, per non lasciare addietro alcuna cosa spettante alla perfezione di tal poema, che la poesia mista di parti tragiche e comiche non solo è fatta con le regole d’Aristotile universali, ma ch’ella ad una delle spezie particolari mentovate da lui è tanto simile, che la tragi- commedia si può chiamare di lui figliuola legittima, si come abbiam provato eh’è naturale. Primieramente non ha alcun dubbio che le persone fanno la favola. Quando dunque si sará veduto che Aristotile abbia nell’ordine delle buone tragedie posta la favola ch’egli chiama «di doppia costituzione», composta di persone parte tragiche e parte comiche, crederò che l’assunto bastevolmente sará pro- vato. Or io prendo duo testi nella Poetica, tanto chiari che non hanno difficoltá. Il primo è lá dove, esaminando il filosofo le dif- ferenze poetiche, cosi dice: ’Ev return áè rij 8iacpo()(j xaí f| rpayaiSia jtqò; ttjv xcojup8iav 8fe<m)xsv, f| (lèv yúp yelgovc, rj 8è fteXiioug pijieícrOm PouXexai, che, trasportato in nostra favella, vuol dir cosi : «Nella medesima differenza è anche la tragedia con la com- media : questa vuole imitare i peggiori e quella i migliori». Il medesimo, e nel secondo capitolo, favellando della com- media, e nel dodicesimo, ragionando della tragedia, costante- mente ci raffermò. Se dunque la specifica differenza di questi duo poemi sta nelle persone imitate, non ha alcun dubbio che chiunque penserá di comporre poema che perfettamente tragico sia, si guarderá d’imitare persona vile, e per lo contrario il facitore di pura favola comica s’asterrá d’imitare persone grandi. Ma qui bisogna levare un dubbio, dalla risoluzione del quale risulterá la chiarezza del vero che noi cerchiamo. Il dubbio è questo: che ci sono tragedie, le quali a persone vilissime danno luogo, si come ne\V Edipo a que’ duo pastori, che sono si princi- pali; in alcune altre a’ servi e serve, che per necessitá s’in- troducono. Come saranno elle tragedie pure, se danno luogo a’ peggiori, che sono propri della commedia? Rispondo che le persone vili non s’introducono quivi per imitare i costumi loro, ma perché servano all’opere de’ migliori che si prendono ad imitare, come sarebbe a dire: i duo citati pastori ne\YEdipo tiranno non furono introdotti acciocché in quella favola alcuna cosa facessero appartenente a vita e a traffico pastorale, onde si possa elicere il fine della commedia, ma solo perch’essi riferissero il nascimento d’Edipo, per farne poscia nascere quel si maraviglioso riconoscimento. E però nel fin della favola non s’attende di loro alcuno esito, o fortunato o infelice. I servi parimente e serve dell’altre favole tragiche non fanno da sé azione alcuna da imitare i costumi loro servili, ma quivi stanno per dar esecuzione ad alcuna cosa necessaria a’ padroni, e, quella fatta, non appariscono piú, e, nel farla, favellano parcamente e con riguardo grandissimo. Il che sia detto de’ servi vili, ché quanto a que’ che consigliano, e le nudrici che confortano, e l’al- tre tali persone graduate, mature, senatori, capitani e altri di questa sorte, non si deono riputare persone vili, ancorché ser- vano, essendo molto verisimile e poco meno che necessario che gli intimi servidori de’ gran personaggi e de’ segreti loro partecipi non sieno uomini popolari e della feccia del volgo: re- gola che, secondo il diritto della natura e della ragione, non dé’ fallire; ma molte volte fallisce per corrotto gusto d’alcuni, che aman di avere appresso piú tosto esecutori di quel che piace che ministri di quel che lice. Non sono dunque i servidori dime- stici di que’ principi, che ’n poema tragico s’introducono, da essere annoverati tra le persone abbiette e volgari. Con tutto ciò, nell’esito della favola niun conto si tien di loro, come nella commedia si fa, nella quale sarebbe vizio se Sosia fosse contento e Davo nel pistrino si macerasse. Dopo la risoluzione del dubbio, torno al proposito e dico che da una dottrina recatavi d’Aristotile e confermata da molte altre del medesimo filosofo indubitata regola si raccoglie: che le persone migliori sono proprie della tragedia e le peggiori della commedia. Se dunque per un’altra autoritá del medesimo proverò ch’egli die’ luogo a quelle favole, nelle quali non solamente i migliori si mesco- lali co’ peggiori, ma essi sono nell’azione cosi ben principali come i migliori, e dell’esito loro altrettanta cura si tiene quanta de’ personaggi migliori, non sará chiara cosa e senza difficoltá che ’l poema misto di parti tragiche e comiche si dé’ dire legittima d’Aristotile poesia? Nell’undecimo capo della Poe- tica (e questo sará il secondo luogo da me proposto), volen- doci il filosofo ammaestrare in qual maniera si possa lodevol- mente comporre tragica favola, e per questo dandoci i gradi stabiliti con la ragione delle piú tragiche e delle meno, delle piú e delle meno perfette, dice cosi: Aevrépa 6’f| jtQtóxrj tayo^évr) imo xtvtòv ècrciv ai’crtacnq tj 8lt7.t|v te xrjv avaxaoiv ífyovaa. xafiwteQ f| ’OSvaaeia, xaí xeÀeuxtòaa è% èvavxfa g totg PfÀti’ooi xaí. xei’qooiv. Aoxeí 8è elvai rcpcox-r] 8iá xj’|v xcúv ■OEaxQcov áafiÉVEiav áxota>v8oú<n y úq ol aoiT]Tai xax’ eú^íiv Jtoioávxeg xoíg 8eaxaig. v Eaxiv 8è ovx ctvTTj arcò xt>aya)8iug f|8avf), ú/.Àú jaúááov xfjg xco(.uo8iac olxeia. ’Exeí yáp av ol è’x’fii.crTOi <uaiv èv xái pvfiq), olov ’OQÉaxrjg xaí Aiyiaftog, <jhXoi yevófxevoi éaí xeÀeuxfjg é|épxovxai xaí dao’dvr|0xei. oú5eíg va:’ ox>8evóg. Cioè: «La seconda poi, che primiera chiamano alcuni, è quella composizione, la quale è fatta di doppia costituzione, si come l’Odissea. Il fin della quale termina oppositamente alle persone migliori e peggiori. Ma ella pare che tenga il primo luogo per la ’mperizia degli spettatori, perciocché i poeti van loro appresso e studian di compiacergli. Non è cotesto però il diletto proprio della tragedia, ma piú tosto della commedia, conciosiacosaché quivi, se nella favola alcuni fossero stati ne- micissimi, come Oreste ed Egisto, escono fatti amici nel fine, né l’uno vien ucciso dall’altro». Da questo luogo dunque si vede e, secondo la dottrina ari- stotelica, si raccoglie che due son le tragedie, l’una, semplice, che contiene personaggi migliori, e della loro felicitá e infeli- citá si rappresenta un esito solo; l’altra, mista di migliori e peggiori, che ha duo fini, l’un felice e l’altro infelice; le quali paragonando insieme, il filosofo nel primo grado la semplice e nel secondo alluoga la mista, né ciò per altro che per aver il diletto comico, che non conviene in favola tragica. Or, se la favola doppia non fosse buona tragedia, l’avrebbe rifiutata, né per tale la nomerebbe; ma, questo non facendo, anzi ordi- nandola e assegnandole la sua sede e ’l suo luogo, è cosa chiara che per legittima la riceve, ancorché meno perfetta, e neces- sariamente la ’nclude nella classe delle tragedie. Il che quan- tunque sia per se stesso chiarissimo e non abbia bisogno di molta prova, approvandolo il senso solo, mi giova nondimeno di confermarlo con la dottrina del medesimo filosofo, il qual dice nel settimo della Fisica , s’io non erro, che le cose para- gonabili non vogliono aver tra loro equivocazione né differenza di spezie, si come, per esemplo, tra ’l bianco e ’l nero: quan- tunque sieno ammenduni sotto il medesimo genere de’ colori, nientedimeno, perciocché sono differenti di spezie, non si posson paragonare, essendo impertinentissima cosa l’andar cercando se ’l bianco sia piú colorato che non è ’l nero; ma di due bian- chi qual sia piú bianco e di due neri qual sia piú nero, diritta- mente si dubita. Non altramenti si dovrá dire della tragedia doppia, la quale, se fosse equivoca e differente di spezie dalla tragedia semplice, non sarebbe con esso lei a verun modo paragonabile, e contra la sua dottrina averebbe proceduto Ari- stotile, avendola collocata in ordine con la semplice, e seco paragonandola e dal primo luogo levandola, postala nel se- condo. Se dunque alcuna favola non può esser seconda, in ordine delle tragedie, che non sia della medesima spezie, né può esser della medesima spezie, che non sia d’Aristotile, e se le persone migliori son proprie della tragedia e le peggiori della commedia, e a queste non potrebbe la favola di doppia costituzione dare fini diversi, a’ buoni buono e a’ cattivi cat- tivo, s’ella non fusse mista d’ammendue loro, conchiudesi che la favola mista di parti tragiche e comiche sia posta dal filosofo nel secondo luogo delle tragedie, e ’n conseguenza si debbia chiamar da lui legittima poesia, non approvata come perfetta, ma ricevuta come tragedia. Ma forse potrebbe dirsi che la favola di doppia costituzione, a cui diede il secondo luogo Aristotile, non fosse simile al misto della poesia tragicomica, conciosiacosaché in questa si truovi il riso, che in quella non può aver luogo, altrainenti non sarebbe tragedia, argomentando cosi : concedo che ’l misto d’Aristotile sia composto di parti tragiche e comiche, ma nego che abbia gli affetti tragici accompagnati col riso. Al quale obbietto rispondo che la tragicommedia non ha gli affetti tragici accompagnati col riso; può bene avere alcune parti che sono atte a muoverli, ma non a purgarli, né tragici dir si possono, se non purgano; e, se s’addimandasse se questi affetti sarebbono essi per sé bastevoli a purgare se ’l riso se ne levasse, direi di no, man- cando loro la compagnia deH’altre parti che possano star col riso, le quali senza dubbio non forano per se sole sufficienti a purgare gli affetti tragici. Laonde si conchiude che la tragi- commedia non è tragedia ridente, non essendo in verun modo tragedia. Tale sarebbe ella, se si togliesse o VEdipo o le Feriisse o alcun’altra delle perfette purganti, e con essa gli scherzi si mescolassero. Quanto poi alla diversitá delle parti, confesso che nella doppia d’Aristotile non è il riso della favola tragi- comica; non concedo però che cosi Luna come l’altra non sia mista di parti tragiche e comiche: e questo basta per farla si- mile alla doppia legittima del filosofo, la quale non può ne- garsi che non sia fatta di parti tragiche e comiche, si perché v’entrano le persone peggiori, che sono comiche, e dell’esito loro si tien cura particolare, che non si fa dalle semplici e pure tragi- che, come anche perché il diletto comico v’interviene. E, come il misto d’Aristotile dá luogo a quella comica qualitá, cli’è piú conforme a tragica poesia, cosi ii misto di cui si parla, dá luogo a quello ch’è proprio della favola tragicomica. Non è perciò che l’uno e l’altro non sia poema misto di parti tragiche e comiche, come ho detto, e non vogli introdurre il diletto comico, quella d’Aristotile per temperare, e questa del Pastor fido per distrug gere affatto gli affetti tragici. E però l’una col dar buon fine a’ migliori e luogo principale a’ peggiori, l’altra col riso temperato e modesto fa le sue mescolanze di parti tragiche e comiche. E, come il riso non converrebbe alla doppia costituzione, con- ciosiacosaché, dov’egli è, non possa stare tragica forma, cosi il gastigo, che nella doppia a’ malfattori si dá, non conviene alla poesia tragicomica, nella quale, secondo ’l costume comico, i peggiori non si gastigano. Il che nasce, perciocché la doppia non vuole affatto corromper la forma tragica con quel tempe- ramento comico che riceve, si come nella tragicommedia in- terviene. Ha l’unae l’altra il pericolo e non la morte delle persone migliori; ma l’una tempera il terrore e la compassione per modo che purga poco; l’altra il risolve si fattamente che nulla purga: poiché, dove interviene il riso, non può esser terrore, e dove non è terrore, non può purgarsi il terrore, e dove non si purga il terrore, non può esser tragica forma. Ma, perciocché nella doppia costituzione interviene il diletto comico, e ciò conforme alla dottrina del buon maestro, potrebbe altri con gran ragione volere intendere come questo diletto si faccia in lei. Nasce, in poche parole, un cotal diletto dall’esito felice delle persone mi- gliori. Ma bisogna avvertire che cotesto non è assolutamente diletto comico per cagione dell’altro fine della medesima dop- pia, che dá gastigo a’ peggiori, conciosiacosaché la commedia per ordinario ami eziandio di dare a’ suoi peggiori prospero fine; ma è comico a paragone del tragico tragichissimo, pro- cedente da un solo funesto fine della persona migliore. Ciò si raccoglie dalle parole chiarissime del filosofo, il quale dice cosi: «eativ Òè oúx avrr| á.xò TpayipStas fjSovfj, á/.Àú páÀ/.ov rijs xa) pepò toc; otxeia. Cioè: «ma quel diletto non è della tragedia, ma è piú tosto proprio della commedia». Disse «piú tosto», non «assolutamente», quasi volesse dire: «non è in tutto diletto comico, ma sente piú del comico che del tragico». Ed hassi ancor da notare che, quando dice tpayaióiag, intende della perfetta, che da lui «tragichissima» vien chiamata, imperocché il fin lieto può essere anche della tragedia meno perfetta. Come, dunque, potrebbe qui replicarsi, «sará egli proprio della commedia», se s’accomuna ancora con la tragedia, la quale, col testimonio dello stesso Aristotile e ile’ migliori tragici antichi, può condursi a fin lieto, senza per- dere il titolo di «tragedia»? La risposta non sará malagevole. 11 termine di «proprio», si come insegna Porfirio, in molti modi prender si può. Qui «proprio» è del secondo significato, che conviene a tutta, ma non alla sola spezie, si come è proprio dell’uomo l’aver duo piè, ma non è tanto proprio della sua spezie, che non convenga ancora ad un’altra. Nella medesima guisa il fin lieto è proprio d’ogni commedia, ma non tanto però che anche la tragedia non se ne serva. Ma hassi bene a sapere che la letizia del fine tragico è molto differente da quella del fine comico. Al tragico sembra d’essere lieto assai, se la persona, ch’era infelice, fugge il pericolo soprastante, contento del nudo fatto e del solo rivolgimento dall’avversa alla seconda fortuna. Né allegrezza né riso né giubilo v’interviene. E ciò non tanto per servare il decoro della tragica gravitá, quanto per corromper meno che sia possibile, con quell’esito fortunato, e l’affetto e l’effetto del terrore e della commiserazione, che sono, come abbiam detto, qualitá necessarie in ogni grado di trage- dia, per modo che, dove elle non sono, poema tragico non si truova. Ma nel fin comico la letizia non si contenta di star ne’ termini del successo e rivolgimento felice, se ’n tutti i modi possibili non l’esaggera, se tutti non fa contenti e se, ridendo e scherzando, e per gli occhi e per le lingue quella lor con- tentezza, quel loro giubilo non trabocca; il che, oltra alla ra- gione, che ce lo ’nsegna, può chiaramente vedersi in atto nelle favole degli antichi e approvati scrittori. Potrebbesi eziandio con molta ragione voler intendere che differenza fosse fra la tragedia di lieto fine e quella di doppia costituzione. Grandis- sima veramente. Nella semplice un solo fine s’attende, e nella doppia se n’attendono duo. In quella non s’introducono, se non per accidente, i peggiori, e del fin loro non si tiene alcun conto. In questa sono i peggiori non meno principali di quel che sieno i migliori. E, quanto all’esito, la medesima cura, che degli uni si tiene, si tiene indifferentemente degli altri; il che toglie molto di forza a quel terrore che v’interviene. E pero degnamente Aristotile la ripose nel secondo grado delle trage- die. Per questo il Pastorfido non fu fatto nell’altre parti, come è nell’esser misto, simile a quella. E, benché con buona co- scienza, per la gran somiglianza che ha l’una con l’altra, si fosse potuto, alcune cose mutandone, darle titolo di «tragedia», fu però assai meglio ch’egli avesse il primo luogo nelle tragi- commedie che ’l secondo nelle tragedie, e che fosse una favola in genere tragicomico perfettissima, quantunque da meno re- putata delle tragedie, piú tosto che una tragedia degenerante e per non eccellente dal filosofo giudicata. Certa cosa è che la poesia tragicomica pecca meno nell’unitá che non fa quella della doppia costituzione, imperocché la tragicommedia ha un fine solo proporzionato alle persone, cosi comiche come tragi- che, le quali in essa si rappresentano. Ma la doppia ne ha ben duo infra di loro differentissimi, l’un de’ quali né tragico né comico dir si può: non tragico, perciocché le persone sono peggiori; non comico, perciocché la morte, che v’interviene, a fine comico si disdice. È dunque uno il poema misto, percioc- ché in esso le parti tragiche e comiche non istanno per formare, come s’è detto, separata o tragedia o commedia, ma acciocché da loro risulti, come a pieno s’è dimostrato, un nodo solo, un solo scioglimento e un sol fine, principalissime parti dell’unitá. E, perché noi dicemmo fin da principio che ’n duo modi potea parere che’l Pastor fido pecchi nell’unitá, l’uno per es- ser misto di parti tragiche e comiche, l’altro per essere inne- stato, poiché quanto al primo abbiamo assai ben discorso e provato ch’egli è poema legittimo, e non solo dell’arte poetica in generale, ma de’ precetti d’Aristotile in particolare, è ben che noi passiamo al secondo, e non fia forse inutile e dispia- cevole il trattato, si come senza fallo è ben nuovo e fin a qui. ch’io mi sappia, non ancor tócco da scrittore antico o mo- derno. Dirò primieramente qual cagione mosse Terenzio ad innestar le sue favole e poscia difenderono, a confusion di coloro che sono stati arditi di biasimarlo, e a consolazione di chi, seguendolo, ha scritto e di chi pensasse di scrivere in cotal genere. Vide quel grande ingegno, quel giudizioso poeta che la commedia semplice riusciva una cosa assai povera, e che, volendosi aiutare con gli episodi accidentali, o di lunghi ragionamenti o di persone, che i greci chiamano aQOTcmjcd, di- veniva insipida cosa, senza nervo, senz’arte, e noiosa molto, del qual difetto non è niun maggiore in tutta l’arte dramma- tica. E, perché gli episodi son necessari in tutte le favole, andò pensando di farli essenziali, non di parole o di persone fuori dell’argomento, ma d’opera e di soggetto, argomentando cosi, e bene: eli’essendo collocato il principale ufficio del poeta e diletto della poesia nel rappresentare i fatti e l’operazioni degli uomini, ninno episodio si poteva aggiungere alla commedia che fosse né piú proprio né piú dilettevole né piú artificioso di quello che contiene non parole sole, ma fatti, conducendolo e annodandolo con tant’arte e giudicio, che non contamini l’unitá del soggetto, e, quello che tutto ’mporta né può venir dagli altri episodi, annodasse maggiormente la favola, e ’n con- seguenza la rendesse molto piú bella e piú dilettevole. Queste fúr le cagioni, questa l’origine della commedia innestata. Il quale innesto a poema tragico non con vene, si come quello che dirittamente andrebbe a ferire le parti di lui piú proprie e piú necessarie. Resta ora che si difenda. E, per ciò fare, consi- dero quattro termini, che fanno l’orditura A&WAndria, prima, non solo in ordine, ma in bellezza, delle commedie terenziane: Panfilo il primo, Glicerio il secondo, Filomena il terzo e Ca- rino il quarto; l’amor di Panfilo e di Glicerio è il principale, e quello di Carino e Filomena è l’episodico ed innestato. Che cosi sia, non ha dubbio, a chi pure un poco intende l’arte drammatica, perciocché tutti i travagli nascono per cagione di Panfilo e di Glicerio. Nella persona di Glicerio cade il rico- noscimento, per cui la favola si raggira, e nelle nozze di lei ha felicissimo fine. Di quelle di Carino appena un poco nel fine, e ciò con arte mirabile, si motteggia. In modo che ’l princi- pal soggetto non è altro che l’amor di Panfilo e di Glicerio, non interrotto da quello di Carino, ma grandemente aiutato. E, se quel solo amore si fosse rappresentato, con la gravidezza di Glicerio e con la displicenza di Simone, padre di Panfilo, che insipida cosa sarebbe ella stata! Un giovane caduto in ira del padre per avere sposata una cattiva, la quale finalmente, trovandosi cittadina, per moglie gli si concede, che cosa è qui di negozio? Cosi la favola sarebbe ben riuscita patetica e mo- rata, ma non operante, ch’è tutto il nervo dell’arte scenica. Come si sarebbe ella annodata? Dallo sdegno del padre e dal- l’amor del figliuolo poteva ben succedere grandi affetti, ma non intrighi. II nodo vien dalle nozze che procura Simone, le quali pongono in gran maneggio e bisogno Panfilo per fuggirle, avendo la sua fede data a Glicerio di prenderla per isposa, e l’astuto Davo di porre in opera Parti sue. Se queste nozze adunque son tanto necessarie, che senza loro la favola sarebbe nulla o poco operante, come si poteva egli tralasciar la per- sona di Filomena? conciosiacosaché Panfilo non avrebbe cre- duto ai padre che quel di gli avesse voluto dare, cosi in un subito, moglie, se la moglie non fosse stata richiesta, nominata e da Panfilo conosciuta, e se le nozze non fossero sute un pezzo fa praticate. Ecco dunque la necessitá del terzo termine. Or quella giovane, che doveva esser quel di la sposa e che per tale fu dichiarata nella casa del padre suo, aveva ella poi, per le nozze di Glicerio, a rimanere si mal contenta? doveva ella essere stata tutto quel di in concetto e speranza d’essere sposa, e poi restar sulle secche? Questa sarebbe stata una cosa troppo indiscreta e al poema comico sconvenevole, ogni volta che si fosse introdotta una persona, per annodare si necessaria e nello sciòrre tanto accessoria, che di lei niun conto nel finir della favola e nelle comuni allegrezze non si fosse tenuto. E però fu bisogno d’apprestarle lo sposo, il quale, perché fusse piú caro e rendesse il fine della favola piú giulivo e, quello che ’mporta piú, per maggiormente intrigare e arricchir di nuovi accidenti sempre il soggetto, conveniva che fosse amante; ed ecco la necessitá del quarto termine e del secondo amore. È dunque falso che l’azion di Carino e di Filomena non dipenda da quella di Panfilo e di Glicerio, e che la dipendenza non sia necessaria e ’n conseguenza ancor verisimile. Dalla difesa deU’Andria necessariamente procede quella del Paslor fido, nel quale il principal soggetto è quello di Mirtillo e d’Amarilli, che non s’annoderebbe, se non vi concorressero quelle di Corisca e di Silvio.+ Che altro è quella favola, se non l’amore d’uno infe- lice amante, col mezzo della fede maravigliosamente fatto felice? Tutti i personaggi, tutti gli episodi, tutti gli oracoli, tutte le pra- tiche, tutto ’l negozio al segno di Mirtillo vanno a ferire; tutte le linee di quella favola a quel punto sono indiritte. Chi è nel nodo altri che Mirtillo e Amarilli? Dalla prigionia della quale deriva tutto lo ’ntrigo e poscia lo scioglimento: la fede di Mir- tillo si manifesta, l’oracolo si dichiara, la favola si sviluppa e Mirtillo, d’infelicissimo amante, diventa sposo fortunatissimo. Se l’amor di Corisca (se quello «amore» chiamar si può) non fosse stato, non si sarebbe giá mai condotta con l’amante Amarilli nella spelonca, e ’n conseguenza non sarebbe mai stata presa né condennata, né Mirtillo avrebbe occasione avuta di manifestar la sua fede, né si sarebbe interpretato l’oracolo, e, ’nsomma, la favola sarebbe stata un’altra cosa, un’altra faccia diversissima avrebbe avuta. Ma che bisognano piú parole? Aristotile ci lasciò il diritto e vero modo di servare e conoscere l’unitá, componendo in modo la favola, che parte di lei alcuna non si possa né levare né trasportare, che tutta non si muova e tutta non si trasformi, e rendene la ragione: perciocché «quello, per lo cui essere o non essere non si fa manifesta mutazione del tutto, di quel tutto non può essere parte». Precetto mirabilissimo e conforme alla dottrina del gran maestro, la quale applicandosi alla testura del Paslor fido, non so vedere qual parte si potesse in lui o trasporre o levare, che manifesta mutazione del suo tutto non cagionasse. Levane Silvio: dove sará lo sposo fatale? Leva le instanti nozze: chi stringerá Mirtillo a favellare con Amarilli e Amarilli a fuggir quelle nozze? onde prenderá l’astuta Corisca occasion d’ingannarla e di tra- dirla? Leva Corisca: chi condurrá nella spelonca gli amanti, onde nasce tutto’l viluppo? Leva il satiro: chi dará indizio dell’adulterio? chi chiuderá la spelonca? chi fará prender gli amanti? Leva Montano: chi fará il sacrificio? Leva il sacrificio, leva Carino, leva Dameta: come farai la ricognizione? Leva Coridone: come potrá Corisca tesser lo ’nganno? L’altre parti d’Ergasto, di Lineo, di Lupino, del inesso, d’Uranio, son necessari o compagni o ministri de’ personaggi, senza i quali niuna favola o tragica o comica non può farsi. E, se pensassi di levar Titiro, non leveresti tu il decoro di quella vergine, la qual conviene che abbia padre, altrimenti chi l’avrebbe tenuta che non si fosse data a Mirtillo? chi l’avrebbe fatta giurare nelle nozze di Silvio, amando ella si grandemente Mirtillo? Resta Do- rinda, della quale dirò il medesimo che di Carino ho detto nel- VAndria. Non conveniva a fine comico che quel garzone per- severasse in quello abborrimento d’amore, e, dovendo amare, bisognava che fosse amato, né la durezza del suo cuore si potea rompere se non con accidenti di straordinaria pietá. Ecco neces- saria Dorinda, l’olTesa della quale non si poteva a bastanza ricom- pensare se non con quelle nozze, ch’ella al pari della sua vita disiderava. È dunque nel Pastor fido si fattamente innestata l’un’azion con l’altra, e con tanta necessitá e verisimilitudine, che, s’egli è vero che la maraviglia ne’ poemi nasca dall’arric- chire il soggetto con episodi che l’unitá non offendano, a me pare che ’l Pastor fido n’abbia gran parte, essendosi in lui con tanta esquisitezza osservato il precetto dell’unitá che c’insegna il grande Aristotile. E, perché l’un per l’altro i contrari si manife- stano, darò un esempio di favola non una, che ci fará conoscere la finezza della innestata. Questa è 1 ’Ecuba, tragedia nota d’Eu- ripide, nella qual chi non vede che sono duo soggetti tanto di- stinti, che per essi non solo le azioni, ma la favola stessa in due parti si può dividere, si che l’uno termina al mezzo e l’altro al fine? Che ha da fare Polissena sacrificata con Polidoro trovato ucciso? Levisi il sagrificio di quella vergine con tutto ’l resto di quel negozio: non si rimane tuttavia intera senz’alterazione di sorte alcuna la morte di Polidoro con la vendetta d’Ecuba sopra di Polinestore traditore? Levisi parimenti Polidoro tradito, Ecuba vendicantesi con gli occhi tratti e co’ figli uccisi di Po- linestore: in che scema, in che s’áltera la precedente azione di Polissena? non resta ella vittima, con tutti gli episc li e di Ulisse e del messo e degli altri che c’intervengono, senza una minima lesione o del primo o del secondo soggetto? Questa si, che può dirsi favola sgangherata e disciolta, nella quale niuna dipendenza, niuna necessitá si truova ne’ duo soggetti, ch’ella ci rappresenta con tal disunione, che sono due finite tragedie infilzate l’una nell’altra, si che ciascuna separatamente conosce le parti sue e le potrebbe distinguere a voglia sua senza guastare i fatti dell’altra, a guisa d’un albergo fabbricato per due famiglie, che patisca non pure comoda, ma necessaria divisione. Cosi fatto non è giá il Pastor fido , da cui s’una sola, e bene anche la minima, cameretta, cosi del principal soggetto come dell’innestato, si volesse levare, verrebbe tutta a cadere in disordine e in disconcio la favola. È dunque fal- sissimo che i duo soggetti le tolgano l’unitá, anzi l’uno, per esser bene e artifiziosamente innestato, il rende tanto piú bello nell’unitá quanto egli ne riesce piú vario, meglio annodato e meglio disciolto. Ma forse potrebbe altri voler difender 1 ’Ecuba, con dire che que’ soggetti s’annodano nella ’menzione, che hanno congiuntamente, di render quella matrona, con le mul- tiplicate sciagure, soggetto infelicissimo di tragedia. A che ri- spondo in due modi: l’uno, che ’l nodo vuol esser nell’azione e non nel fine, nella favola e non nell’esito, conciosiacosaché molti infortuni accaduti ad un uomo solo si potrebbono ratinare in una sola tragedia, e cosi nel contesto dell’epopea si verrebbe a cadere, che di far ci vieta Aristotile e la ragione. L’altro è ch’io nego che que’ duo soggetti s’annodino nel fine, anzi difendo che sieno ripugnantissimi. In quello di Polissena, il quale è tutto tragico, l’esito è quanto dir si possa orribile e miserabile a quella infelicissima madre; l’altro è ben funesto, ma però consolato con la vendetta ch’ella ne fa, per modo che ’l secondo scema gran parte di quell’afFetto tragico, che conceputo fu nel primiero, e per esso la favola ne riesce non solo piú disunita, ma meno tragica. Ora, avendo noi assai bene e sufficientemente provato che il Pastor fido , e ’n quanto favola mista di parti tragiche e comiche, e ’n quanto innestata di duo soggetti alla terenziana, è poema ragionevole, uno, proporzionato, capace d’ogni arti- ficio ch’a ben tessuta favola s’appartenga, e finalmente figliuolo naturale dell’arte e legittimo d’Aristotile, resta che noi pas- siamo a dichiarare il termine e la parola di «pastorale», che si legge in fronte dell’opera, la quale, o non bene intesa o poco sin- ceramente interpretata, ad alcuni fu cagione di scandalo e a’ suoi difensori di molte lode, avendo essi occasione avuta e campo assai largo di recare intorno alla vita, nobiltá e poesia pastorale si nuove cose e si curiose, che ’1 tralasciarle fora, a questa no- stra fatica e al fine che noi abbiamo, troppo gran fallo. E, per intenderle meglio, bassi a sapere che gli antichi pastori non furono, in quel primiero secolo che i poeti chiamaron «d’oro», con quella differenza distinti dalle persone di conto, che oggi sono i villani da’ cittadini, perciocché tutti erano ben pastori, ma, come avvien dei gradi nelle cittá, altri grandi, altri bassi, altri poveri, altri ricchi e, per parlare all’aristotelica, altri mi- gliori e altri peggiori. Né tutti insieme servivano a’ cittadini, ché ’n quel tempo ancor non erano le cittá, ma si reggevan da sé, e chi valeva per avventura piú, comandava; ma non era però, quello stesso che comandava, niente meno pastore di quel che fosse qualunque altro, il quale ubbidisse; né era scon- venevole a dire «il pastor eh’è padrone», «il pastore che regge gli altri»; né, perché fosse tale, si rimaneva d’esser pastore, si come nella milizia, perché altri o capitano o colonnello si nomi, non è però che soldato anch’egli non sia. E cosi in tutti gli ordini troverassi che l’eminenza del carico muta ben nome, ma non professione. Nella medesima guisa in que’ primi tempi la vita pastorale si dovea reggere: tutti pastori, ma di loro altri governavano e altri erano governati, altri pascean le pe- core e altri no. Ma si potrebbe forsi qui dire che il capitano non si noma «soldato», e io replico che né anche il capo de’ pastori si chiamava «pastore», ma «principe» o «sacerdote», secondo il modo de’ lor governi e uso della loro favella. E altra quistione è quella del nominarsi, altra quella dell’essere. Concederò che chi governa pastori, non si chiami «pastore», ma che non sia pastore, non è da dire, e molto meno che chiunque a pascer non conduce, non sia pastore, perciocché in due maniere il nome pastorale prender si può, o per l’uffizio o per la condizione. Quanto al primo, la proposizione è verissima che chi non pasce non è pastore; ma quanto alla seconda è falsa, conciosiacosaché chi comanda a pastori, può esser di condizione, se non d’uffi- cio, pastore. L’argomentar dal nome è quasi sempre opera vana. Ecco lo ’mperadore. Non fu egli nel tempo della romana re- pubblica dal comandare all’esercito cosi detto? il quale poi, per- duta la libertá di quel popolo, fu di signore e di monarca titolo glorioso, e oggi è passato alla sopranitá d’ogni gran- dezza e ordine temporale. Or chi dicesse: — L’ufficio dello ’m- peradore fu nel suo nascimento di solo comandare all’esercito: dunque oggi chi attualmente non comanda all’esercito non è imperadore, — sarebbe egli ben detto? Non altramenti chi dirá: — I pastori furon cosi chiamati dal pascer gregge: dunque chi non le pasce, non è pastore, — argomenterá con poco giudicio, perciocché spesse volte i nomi si ritengono e non gli uffici. Può esser per avventura che nel primordio del mondo, pastoral- mente vivendo, gli uomini tutti pascessero indifferentemente le gregge; ma in progresso di tempo, avendo essi bisogno e di governo e di capo, è molto verisimile che tra lor pullulasse la forma e ’l nome d’alcun governo, e che quella, quantun- que assai semplicemente in quel rozzo secolo, fosse anch’ella onorata col preservarla dall’uso di quel sordido ministerio, onde poi ne seguisse che ’l pascer degli armenti restasse cura, par- lando all’aristotelica, de’ peggiori e ’l governar de’ migliori. E, perché tutti, e migliori e peggiori, altra vita né conoscevano né menavano che quella prima lor pastorale, il nome di «pa- store» indifferentemente ritennero. Dall’esser dunque pastore non si può separare l’essere archimandrita o, come furon gli antichi ebrei, patriarca o profeta o capitano o principe o sa- cerdote, perciocché il predicato di «pastorale» non significa al- cuno ufficio il quale ora s’eserciti e ora no, ma la condizione di quella vita, nella quale, come s’è detto, chiunque ha una cotal dignitá, non la può separare dalla condizion della vita, per si fatta maniera che, a qualunque grado egli sia collocato o qualunque operazion egli si faccia, persona pastorale sempre sará, si come Tesser capitano non isclude Tesser soldato. Or, se sia verisimile invenzione e cosa alla natura non repugnante il presupporre in fatti una condizione d’uomini tale, Aristotile in piú d’un luogo de’ suoi Libri politici nel dimostra, e nel primo, dov’egli, favellando delle maniere ond’altri naturalmente procaccia il vitto, la vita de’ pastori ci assegna prima di tutte, e nel sesto, trattando egli delle repubbliche popolari, a quella de’ pastori dopo Tagricoltura concede il luogo. Che questa medesima sia poi nobile e capacissima d’ogni grado, ne fan chiarissimo testimonio le storie: tra’ latini Marco Varrone dice cosi : «De antiquis inlustrissimus quisque postor erat, ut ostendii et Graeca et Latina lingua et veteres poètae, qui alios vocanl jtoWaQvog, alios JtoXvpfiXous, alios JioXu|3oÙTaq». Ma, passando a cose maggiori, que’ tanto grandi e celebrati patriarchi e profeti del popolo ebreo, si cari a Dio, che furon degni di vederne il sembiante e d’udirne il suon della voce, a’ quali la divina provvidenza e bontá concedette il dominio di Terrasanta e promise del seme loro la salute del mondo e la vocazion delle genti, Abraam, Isac e Giacob, non furono essi e di nome e di vita veri pastori? Né, perché fussero ab- bondantissimi di tutti i beni della fortuna e possedesser molto paese, altro nome che di «pastori» non ebber mai, né dagli egizi in altro modo furon chiamati, quando essi vi passarono e vi divennero si potenti. Ma che diremo di quel divino e si famoso legislatore, Mosé? Non pasceva egli le pecore, quando a si grande uffizio fu chiamato da Dio? Che diremo del re David, di cui Dio disse di aver trovato un uomo secondo il cor suo? Si gran guerriero, si gran profeta, si gran re, si gran savio, si gran poeta, non pasceva egli gli armenti, quando fu assunto al regno? Ma udiamo quello che dello stato e della di- gnitá pastorale altamente parla P’ilone, sapientissimo ebreo, nella vita del prencipe Gioseffo (né qui trattandosi di termini dottorali, mi curerò di recarlo nella sua lingua): «Coepit enim — dice egli — in hoc genere versori atinos na/us circi ter seplemdecim praefectus curandis gre gibus, quae disciplina cum civili convenit, et hoc est, opinor, cur poètae reges vocant ’populorum pastores\ Nam qui summus est in arte pecuaria, facile bonus rex evadit, pul- cherrimo gregi hominum praepositus, approbata in minore negocio industria. Siquidem ut futuro imperatori necessaria sunt exercitia venatoria, sic admovendis ad curavi rcipublicae proprie pastoralis ars congruit, velati praeludium quoddam magistratuum». Il medesimo, e forse piú espressamente, replica nella vita del gran Mosé: «Post eas nuptias praefuit gregibus ad princi- patum se praeparans. Nam pastoralis ars ad regnum est prae- ludium :, hoc est ad regimen hominum gregis mansuetissimi», e quel che séguita nel medesimo senso di sopra, che, per fuggir lun- ghezza, tralascio. Ma forse si potria dire che Filone fu ebreo e che magnificò la vita pastorale, perciocché i principali del suo popolo furon pastori. E però ascoltiamo il medesimo da un famosissimo greco e teologo cristiano, Basilio il grande, nelle lodi di Marnante martire: «Qui primus Deo complacuit Abel, pastor fuit. Quis illins imitatori’ Moyses, magnus ille legi- slatori qui tentationem Pharaonis effugit, qui contubernaliurn in- sidias odio habuit, hic in monte Chorcb pastor fuit, et dum pavit, Deo collocutus est. Non litigans vidit angelum in rubo, sed pastor existens colloquio ilio coelesti dignus factus est. Quis post Moy- semf Iacob patriarcha; in pascendo patientiam prò verilate demon- strans, parva imagine totani suam vitam velut per characterem exprimens ac delinians, cui tradít imílationemf Davidi. David ab arte pastorali pervenil ad regnum. Sorores enim sunt ars pascendi ac regnando, in quantum altera brutorum, altera ratione praeditorum praefecturam sibi concreditam habet», e quel che séguita, esaltando nella persona di Gesú Cristo nostro signore e il nome e la professione di buon pastore. Ma, per tornar da capo, ho provato con l’autoritá di tanti scrittori illustri quel che dianzi fu da me detto: la vita pastorale ne’ primordi del mondo essere stata una condizione d’uomini da per sé capa- cissima di persone illustrissime; che sará fondamento e lume delle cose che ’n tal materia mi convien dire. Hassi dunque a sapere che la poesia pastorale, benché, ’n quanto alle persone introdotte, riconosca la sua primiera origine e dall’egloga e dalla satira degli antichi, nulladimeno, quanto alla forma e ordine, può chiamarsi cosa moderna, essendo che non si truovi appresso l’antichitá di tal favola alcuno esempio greco o latino. Il primo de’ moderni, che felicemente ardisse di farlo, fu Agostin de’ Beccari, onorato cittadin di Ferrara, da cui solo dé’ riconoscere il mondo la bella invenzione di tal poema. Avendo dunque costui veduto, e certo con gran giu- dizio, che l’egloga non è altro che un breve, e, come suona la voce, scelto ragionamento di duo pastori, in niuna altra cosa differente da quella scena che i latini chiaman «diverbio», se non nell’essere unita, indipendente, col suo principio e fine in se stessa, e veggendo ancor che Teocrito, famosissimo greco e maestro del gran Virgilio, uscendo dell’ordinario numero di coloro che parlano in cosi fatti componimenti, una ne fece, non sol di molte persone, ma di soggetto ancor piú drammatico dell’usato e di lunghezza piú dell’altre notabile, con cinque interlocutori, de’ quali alcuni parlano prima senza lo ’ntervento degli altri, e gli altri poi sopravvengono e fanno la parte loro, e finalmente con quella distinzione e di tempi e di luoghi e di fatti eh’è propria del poema drammatico; e piú oltre ancora, considerando quel che dice Aristotile, che la tragica e la co- mica poesia da molto debole nascimento crebbono a quell’am- piezza che ora noi le veggiamo, e che la tragedia fu da prin- cipio cosa molto imperfetta e che pati diverse alterazioni prima che si posasse alla grandezza dov’ella è, che non aveva se non un solo istrione e che ’l secondo le fu poi dato da Eschilo, e che Sofocle finalmente con l’apparato della scena e dell’altre parti, ch’esso v’aggiunse, la fe’ poi grande e magnifica, e che il verso le fu mutato e che di saltatoria divenne grave; il che fu detto ancora da Orazio nella sua poetica pistola e ’n parte da Diogene Laerzio nella V’ita di Platone , il qual dice che da principio il poema tragico si faceva col coro solo e che Tespi fu il primo che gli diede un solo istrione; esaminando, dico, tutte queste cose, il Beccari avvisò di potere tanto piú conve- nevolmente far lo stesso anch’egli dell’egloga, quant’ella ha, senza dubbio, con la pastorale assai maggiore conformitá che non ebbero la commedia e la tragedia co’ debolissimi lor prin- cipi, che niente altro, per testimonio del medesimo Aristotile, furono che rozzi e, secondo che la ragione ci persuade, assai brevi improvvisamenti. E cosi, occupando, non senza sua molta lode, questo bel luogo, da penna greca o latina non ancor tócco; e regolando molti pastorali ragionamenti sotto una sola forma di drammatica favola, e distinguendola in atti, col suo principio, mezzo e fine sufficiente e proporzionato, col suo nodo, col suo rivolgimento, col suo decoro e con l’altre parti sue necessarie, se non il coro, che fu poi giunta del Tasso, ne fe’ nascere una commedia, se non in quanto le persone introdotte sono pastori, e per questo la chiamò «favola pastorale». Talché, si come la vita cittadina ha il suo dramma, che si chiama «commedia», cosi, per opera del Beccari, la vita pastorale anch’essa ha il suo, che si chiama pur «pastorale», ancorché in forma comica sia composto. La invenzione è poi stata con tanto applauso ricevuta dal mondo e si felicemente autenticata in Parnaso, che i primi trovatori del nostro secolo, e spezialmente il sopranominato Torquato Tasso, il qual non può negare d’essere stato nel suo bellissimo Aminta iniitator del Beccari, si son recati a gran pregio non solo lo ’mpiegarvi l’opere loro, ma il conseguirne ancora, o sperarne almeno, sovrano onore e lode di poesia. Or questo titolo di «favola pastorale» non vuol dire altro che azione di quella sorte d’uomini che «pastori» sono chiamati. E, percioc- ché ogni azione drammatica bisogna che sia o comica o tragica o mista, il Sacrificio del Beccari non ha dubbio che ’n forma di commedia non sia tessuto, avendo le persone private, il riso, il nodo, lo scioglimento e ’l fine, eh’è tutto comico. Ma egli non la volle chiamar «commedia», prendendo il nome generico invece dello spezifico, e disse anzi «favola» che «commedia» per non usare impropriamente quel nome, il quale, avvengacché per la forma e per l’altre sue parti ottimamente le convenisse, nulladimeno, per esser fuori della cittá e non rappresentandosi cittadini, assai men propriamente deH’ordinario col titolo di «commedia» si sarebbe nomata. È poi corso questo aggiunto di «pastorale» e ha col tempo acquistato forza e significato di su- stantivo, talché quando si dice una «pastorale», senz’altra com- pagnia, s’intende «favola di pastori». E cosi per tutto è oggi questo nome ricevuto e inteso, quand’egli è solo: «la pastorale del Beccari»,«la pastorale del Tasso». E cosi ancora di tutte l’al- tre, benché gli autori loro si sien serviti di quella voce per addiet- tivo, quando l’hanno accompagnata con «favola», che significa «qualitá», e non per sustantivo significante azione distinta da quella favola. In due maniere dunque «pastorale» prender si può, o per aggiunto significante «qualitá pastorale», o per quel sustantivo particolare che da’ piú oggi vien usurpato d’«azione e favola di pastori», quand’egli è posto da sé. Il «pastorale» nel Pastor fido non si dé’ prender per sustan- tivo significante favola separata dalla tragicommedia, ma per aggiunto di «tragicommedia», composta di pastorali persone a differenza di quelle che rappresentano cittadini. Conciosiaco- saché la voce «tragicommedia» ci dimostra la qualitá della favola e la voce di «pastorale» quella delle persone che in essa si rappresentano, le quali, perciocché potevano essere cittadine, volle il poeta che si sapesse ch’eran pastori. E perciocché, di questi, altri son nobili e altri no, questi fanno la comica e quelli fanno la tragica, e ambo insieme la tragicomica, che viene a essere pastorale per le persone in essa rappresentate. Non sono dunque nel Pastor fido tre favole, una di persone private che fanno l’azion comica, l’altra di personaggi grandi che fanno la parte tragica, e la terza di pastori che fanno la pastorale; ma una favola sola di pastorali persone, mista di tragedia e commedia, ma tessuta comicamente, eh’è un sol poema. E ve- ramente chi è si stupido, che non vegga che, quando questa voce di «pastorale» s’accompagna o con «commedia» o con «tragedia» o con «tragicommedia», ella vuol dire favola di pa- stori in forma o comica o tragica o tragicomica, e non favola di cittadini e di pastori congiunta insieme? Perciocché, si come «tragicommedia» significa la qualitá della favola, cosi la «pa- storale» ci addita quella delle persone, da che risulta un con- cetto solo di questo modo: azion di pastori, tessuta di parti tragiche e comiche miste insieme, e non tre azioni: l’una de’ privati; la seconda di persone illustri; e di pastori la terza, o azione che ’nsieme sia regia e privata e pastorale. Imperocché le parti regie, private e pastorali producono un sol soggetto, si come l’animal ragionevole, in vertu delle sue spezifiche dif ferenze, forma la sola natura umana, e non un animale e un uomo distinti di natura e poscia congiunti insieme. E, come l’animale non può avere la sussistenza (perdonimi orecchia schifa, ché cosi mi sforza a favellar la materia) se non nelle sue spezie, cosi il nome di «pastorale», parlando del sostan- tivo, non può sussistere se non in favola o comica o tragica o tragicomica. E però vanissima cosa sarebbe a dire: — tragicom- media pastorale sono due cose, — poiché la voce «pastorale» aggiunta con «tragicommedia» non si prende per sustantivo, ma per aggiunto, significante, come s’è detto, la qualitá delle persone rappresentate, si come «favola pastorale», senza espri- mere o tragedia o commedia o tragicommedia, significa per forza una delle tre favole, non potendo ella salire in palco, essendo drammatica, se non calzata o di coturno o di socco o dell’uno e dell’altro insieme, come s’è detto. Ma forse po- trebbe altri volere intendere la cagione perché, se «favola pa- storale» a viva forza includa una delle tre forme, il Pastorfido non fu piú tosto intitolato * favola pastorale», ma, lasciando il generico, si prese il nome spezifico, «tragicommedia» appel- landola. Ciò fu fatto per cagione di quell’equivoco che s’è detto, perciocché, essendo la voce «pastorale», quand’ella è posta per «favola», universalmente presa per azione comica di pastori, conciosiacosaché tutte quelle infino ad ora vedute in istampa di forma comica sien composte, con gran ragione si dubitò che quel termine si potesse prender per pastorale di forma comica sola, che sarebbe stato gran fallo, contenendosi in essa personaggi a poema comico ripugnanti. Onde fu buon conseglio a ritirarsi in sicuro, spezificando la sorte del poema in quella guisa che fece Flauto, il quale, volendo mescolare insieme que’ duo poemi e dubitando di non esser notato di avere in comica poesia frapposte persone grandi, trovò primiero il nome di «tragicommedia», che l’uno e l’altro comprende. E, se di nuovo fusse richiesto per qual cagione non fu piú tosto fatta o commedia o tragedia semplice pastorale, direi che non si volle comporre commedia sola, acciocché il Pas(or fido avesse parte di nobiltá, onde gli animi nobili avessero quel diletto che alla natura loro piú si confá. Non si volle altresí far tra- gedia, perché non s’ebbe fine di purgare il terrore e la com- passione, spettacolo oggidí a tutti non dilettevole e molto men necessario. E però, dall’una e dall’altra nobilissima spezie di drammatica poesia prendendosi quelle parti che sole possano dilettare, senza molestia, uomini e donne, nobili e popolari, intendenti e non intendenti, si fe’ quel misto, che latini e greci scrittori avevano prima fatto. E qui fine abbia il discorso della poesia tragicomica con tutti i suoi emergenti piú ragguardevoli, intrapreso da noi per soddisfare al curioso lettore d’intorno a quelle difficultá che po- tessero scaturire dalla mistura del Pastor fido. Del quale poiché si sono con tanta cura ventilate le parti, che sono a guisa di forme in lui, la ragion vuole che, seguendo anche in ciò lo stil d’Aristotile, non si lascino addietro quelle che sono «quanti- tative», per usare anche in questo il termine del filosofo, e servono all’atto pratico della scena, facendo di ciascuna sua parte a un certo modo l’anatomia, per iscoprire atto per atto l’artifizio di detta favola, acciò non restino privi né i lettori di quel diletto, né i drammatici di quel frutto, che dall’altrui fatiche si suol raccórre, e da questa massimamente, perciocché niun altro scrittore, ch’io mi ricordi, di qualsivoglia lingua o se- colo troverassi, che abbia con tanto studio esaminata e scoperta l’arte del tesser favola di drammatico genere. Dico pertanto che, non essendo altro il principal soggetto di questo dramma che un amante infelice per mezzo della sua fede maravigliosamente fatto felice, nel primo atto si narrano quelle cose che possano informar tanto avanti il teatro, che basti a generare in lui quella cognizion del soggetto che tolga confusione, e insieme gli rechi, col diletto presente, speranza ancor del futuro; ma tanto parcamente però, che non abbia a scoprire il fine o dia materia a chi ascolta d’antivedere, né pur immaginarsi giammai, qual esito sia per aver la favola, perciocché questo soverchio lume verrebbe a grandemente scemare la maraviglia, e ’n conseguenza il diletto; bisognando in ciò fare come avveduta e leggiadra don- na, la quale, per invaghir chi l’ama o la mira, scuopre sol tanta parte o del volto o del seno, che basti a dar saggio di sua bel- lezza, si che resti all’amante ovvero vagheggiatore assai piú da vedere e disiderare per nudrimento ed ésca del disiderio. E, per- ché i poemi drammatici, come ci significa il nome stesso, consi- stono in tutto e per tutto nell’operare, e non, come l’epico, nel narrare, ed essendo l’operar movimento, la prima cosa, che dé’ mirare il drammatico nella favola, è quella urgente cagione che necessita tutte le parti all’opera ; e questa vuol esser la prima cosa che conosca l’ascoltatore, altramenti sará confuso, che vuol dire incapace di ricevere tutto ’l frutto dell’opera ch’egli ascolta. E que’ poeti, che non intendono questo punto e quest’arte, cadono in gran disordini, e non è poi maraviglia se le favole loro non son gradite e non piacciono, mancando di quel latente artifizio, che ha, quasi catena, mirabil forza di rapire e tener l’animo di chi ascolta. Quel, che dunque nel Paslor fido dá il primo moto, è la pratica delle nozze di Silvio e d’Amarilli, le quali per annodar la favola hanno di duo grandi accidenti molto bisogno: l’uno è la necessitá e l’altro la malagevolezza. La prima nasce dall’oracolo, che promette al congiungimento de’semidei quel fine delle miserie d’Arcadia tanto bramato; la quale necessitá non può essere né maggior né piú nobile, trattandosi della salute di tutta una provincia: particolare e qualitá di gran forza per acquistare attenzione e produr nel teatro quel diletto e quella maraviglia che si richiede. La ma- lagevolezza poi è parte nella persona di Mirtillo, posciaché egli per le instantissime nozze d’Amarilli con Silvio è privo d’ogni speranza di poter mai piú conseguire da quella ninfa corrispon- denza alcuna dell’amor suo; e parte nelle medesime nozze, per l’abborrimento di Silvio, eh’è nemico d’amore e ha dal mari- tarsi l’animo lontanissimo. Si come dunque senza le sopradette cose non s’annoderebbe la favola, cosi, se elle non fossero prima d’ogni altra cosa spianate, l’ascoltatore ne rimarrebbe confuso, e la confusione impedirebbe il diletto e l’attenzione. Fu dunque necessario che nel primiero atto si aprissero queste cose, cioè la necessitá delle nozze nelle due scene d’ Ergasto con Mirtillo e di Montano con Titiro, padri, l’un d’Amarilli e l’altro di Silvio, gli impedimenti in quelle di Silvio con Lineo e d’Ergasto altresi con Mirtillo. E le nozze sono il primo movente, onde nasce in quell’ardente e misero amante disiderio d’abboccarsi con quella ninfa, in Silvio repugnanza al congiungersi in matrimonio, in Atnarilli sollecitudine d’interromperlo. ne’ vecchi padri di procurarlo, in Corisca occasione d’ingannare Amarilli, ch’è sua rivale; fila che si vanno poi annodando, per fare il gruppo della favola necessario. E s’incomincia da Silvio per le ca- gioni dette di sopra, alle quali si aggiunge ancora che, non essendo il Pcistor fido pura tragedia, ma misto di parti tragiche e comiche, fu necessario mandare innanzi quella parte del- l’argomento, che poteva prestar materia di scherzo comico, piú tosto che di materia tragica e grave, com’è poi la seguente, acciocché si conosca al primo tratto che questa è tragicom- media e non pura tragedia, dove gli scherzi non hanno luogo. E per questo va eziandio alternando e intrecciando le scene gravi con le festose. La prima ha piú del festoso, la seconda del grave, la terza è comica, la quarta è tragica e la quinta, per esser nel fin dell’atto, è piú dell’altre comica tutta. Cosi fe’ Plauto nella primiera scena dell ’Anfitrione, da lui chiamata «tragicommedia», nella quale Mercurio, con modi tutti co- mici e pieni di piacevolezza e di riso, prende a beffar quel servo d’Anfitrione. Ha dunque il primo atto l’argomento con l’artificio e con la necessitá che s’è detta e a tutte le buone favole si richiede, e che gli antichi greci e latini, cosi nelle tragedie come nelle commedie, costantemente osservarono: nelle commedie alcuna volta nel prologo, nelle tragedie sempre nelle prime persone ch’escono in palco. Ma Terenzio, che fu maraviglioso artefice in questo genere, non recò mai nel pro- logo l’argomento, si perché in quello tutta si soleva vedere intera la favola, che toglie la maggior parte di quel diletto che nasce dall’aspettazione dell’esito, come anche perché riesce con piú vaghezza e decoro il farlo dire alle persone proprie che s’in- troducono nella favola, mostrando esse di fare ogni altra cosa, e d’avere altro fine che voler fare il prologo. F. tanto basti quanto al primo atto. Il secondo va disponendo la favola all’annodarsi, e, col nu- trire di nuovo cibo l’ascoltatore, mantiene l’attenzione e ’1 di- letto. Ma questa novitá vuole avere quattro condizioni: la prima, che non sia vana e piena di parole insipide, ma di fatti ; la se- conda, che non dissolva l’unitá; la terza, che serva all’annodare, e la quarta, che non iscuopra l’esito della favola: le quali tutte si truovano e nel racconto che fa Mirtillo delVamor suo e ’n quello di Dorinda, dispregiata e schernita da Silvio; nella per- sona d’Amarilli, nel desiderio di lei, nell’ordine dato con Cori- sca di sturbar le sue nozze, nel modo che discorre da sé Corisca di farla capitar male, e finalmente nella zuffa che ha Corisca col satiro, che l’ha presa, il che serve a due cose: l’una a levarle la chioma, perché, nel giuoco poi «della cieca», Amarilli ne resti meglio ingannata, e per dar luogo al riso comico, secondo che s’è fatto nel primo, nel fin dell’atto, e farassi nel terzo ancora con la persona del satiro, ancorché questo secondo sia quasi tutto comico per corrispondere al quarto, che per lo piú sará tra- gico. Il terzo va pure anch’egli continovando in portar nuove cose, fornite delle medesime condizioni che nel secondo si son vedute. E quelle fila, che nel primo e secondo furono ordite, in questo terzo s’incominciano ad annodare: rial giuoco «della cieca» Corisca cava quel frutto ch’ella voleva, cioè di scoprir l’animo d’Amarilli e ’l suo amore verso Mirtillo, che le pre- sta comoditá grandissima d’ingannarla, onde nasce poi la sua prigionia, che scompiglia ogni cosa, ma tutto però con nuovi e non pensati accidenti. Novitá è quel giuoco; novitá è la presa che di Mirtillo fa la bendata Amarilli; novitá son que’ vezzi ch’essa gli fa, credendo fargli a Corisca; novitá quell’or- rore ch’ella ne prende, poi che, sbendata, riconosce l’errore; novitá, veramente non aspettata, lo sfogamento dell’amor suo, dopo che Mirtillo, rigidamente da lei cacciato, si parte; novitá la costanza incredibile di Mirtillo, che ama come se credesse d’essere amato, e resiste con la sua invitta fede agli assalti della infocata Corisca ; novitá ch’Amarilli sia creduta adultera da Mirtillo; novitá le parole di lei, prese in diverso senso da lui ; novitá la sua entrata nella spelonca per ammazzar l’adultero e poi se stesso; e novitá finalmente che ’l satiro, ingannato anch’egli dalle parole di doppio senso dell’infelice Mirtillo, chiuda la spelonca e s’inganni, credendo di averci còlta Corisca. Tutte cose di grande intrigo, di gran diletto, che tengono, chi le vede, lontanissimo sempre dal poter cre- der mai che Mirtillo debbia divenir lieto deU’amor suo, ch’è poi cagione di quella maraviglia che nasce dal rivolgimento felice, qualitá sopra tutte l’altre eccellente e dal Filosofo ne’ poemi si grandemente lodata. Questo terzo è poi misto di parti comiche e tragiche: le comiche sono il giuoco, la frode di Corisca e l’operazione del satiro; le tragiche il fine sce- lerato della medesima Corisca, l’onestá e grandezza d’animo d’Amarilli, la fede e costanza mirabile di Mirtillo, il suo pro- ponimento d’ammazzare il rivale e poi se medesimo. Ma in questo terzo piú che altrove si scorge l’ordine comico, del quale è molto necessario trattare alcuna cosa per dichiarazione d’un termine, tanto piú necessario quant’egli fu ben tócco, ma non giá dichiarato né dal primo né dal secondo Verato. L’ordine comico è molto differente dal tragico, perciocché questo conduce il nodo piú aperto e meno artifizioso, portato o dall’affetto o dal caso o dalla fortuna o dalla costituzione del fatto stesso, come nelle tragedie antiche e moderne age- volmente si può vedere. Ma nel comico l’artifizio, l’astuzia, la menzogna, lo ’nganno, l’accortezza, le gherminelle sono 1 mezzi che intrigano; il qual modo è dalla gravitá tragica lonta- nissimo. E bisogna avvertire che nelle pure commedie il procurar con inganni la morte altrui non è lecito, conciosiacosaché si fatti pensieri scelerati e atroci ripugnino a quel poema, che solo è fatto per dilettar con gli scherzi. La frode comica non s’estende a fare altro che beffe e danni di poco peso, ché, se ’l Pnstor fido non avesse le parti tragiche, la malignitá di Corisca, procacciante la morte di quella ninfa, sarebbe, in quanto al- l’arte, difetto grande. Dunque l’oggetto di Corisca ha del tra- gico, ma il modo di condurlo e quel concetto, che ella ne fa, è tutto comico. Ma passiamo al quarto atto. Questo è per lo piú tutto tragico e tutto nodo, il qual nodo non è altro che una improvvisa e sfortunata caduta in manifesta desperazione, la quale quanto è maggiore, tanto piú ricca è d’arte e rende lo scioglimento tanto piú bello e piú ragguardevole. In questo quarto ognuno è giunto al sommo d’ogni miseria. Fu Mir- tillo infelice per cagion delle nozze che d’Amarilli si prepa- ravano, piú infelice per l’adulterio di lei creduto, ed ora in- felicissimo per la morte alla quale vien condennata. Fu Ama- riIli parimente infelice, dovendo essere sposa di chi l’odiava; piú infelice, non potendo esser di chi l’amava; ed ora infeli- cissima, ché, ’nvece delle nozze, è destinata alla morte. Titiro, afflitto e misero padre, che, ’nvece di vedere onorata la sua figliuola, la vede adultera e vedralla tosto morire. Montano, con tutta la provincia, dolente; le speranze loro svanite, i sa- cerdoti confusi, il tempio pieno d’orrore, ogni parte piena di lagrime, e finalmente tutte le cose sacre e profane, che per le nozze d’Amarilli speravano di risorgere, in estrema miseria precipitate. Né fra tanto sono contenti Silvio e Dorinda, tutto che essi non entrino in questo nodo, come parte innestata che serve per episodio, laonde il suo periodo termina in questo quarto, lasciando libero tutto ’l quinto al farsi lo scioglimento e la rivolta della buona fortuna del pastor fido, ch’è princi- pale oggetto di questa favola. Poco meno che altrettanto fece nella sua mirabile Andria Terenzio, il quale non rappresenta nell’atto quinto Carino se non nel fine un poco, e fallo dir si poche e si concise parole, che ben si vede ciò essere stato fatto con arte, acciocché si conosca che quella parte è inne- stata e non principale, come quella di Panfilo, a cui si serba libero il campo di sciòr la favola, che per lui, primiero og- getto di lei, a lieto fine dovea rivolgersi. Resta ora ch’io noti, come cosa in questo quarto molto importante, il fondamento di quel mirabile, da’ greci detto tò ■ftavfio.oóv, parte veramente mirabile, che ha poi da scoppiare dalla cangiata fortuna e dal nodo sciolto. Chi crederebbe che tanta turbazione di cose, tanti travagli dovessero mai ricevere, non dico lieta fortuna, ma né pure temperamento della contraria? e, se ciò pure fosse credibile, chi è d’ingegno tanto sottile, a cui bastasse l’animo di scoprire con qual arte, con qual maniera un cotale acci- dente, dal verisimile si lontano, avesse mai a succedere? E, quel eh’è degno di maggior maraviglia e che di rado in al- tre favole s’è veduto, queste tante procelle, che paiono alla fortuna di Mirtillo tanto nemiche, sono mosse da venti, senza i quali il suo tempestoso e sdrucito legno non poteva salvarsi in porto: ché, s’Amarilli non era condennata alla morte, non sarebbe esso stato condotto vittima al sacrificio, né Carino avrebbe avuta occasione di scoprir la sua infanzia, né Dameta il suo nascimento, né Tirenio l’oracolo; da che nasce il rivol- gimento della sua prosperitá. E quinci passiamo al quinto, nel quale, come nel capo ri- siede lo ’ntelletto dell’uomo, cosi è riposto il maggior nervo dell’artifizio drammatico; conciosiacosaché il sapere annodare è ben malagevole assai, ma tanto piú è lo sciòrre, quanto questo nel mutarsi delle cose vuole avere il mirabile accompagnato col verisimile, del quale accompagnamento non ha l’arte dramma- tica cosa che sia né di maggior fatica né di piú pregio. Or questo scioglimento ha tre parti degne d’esser considerate: la prima si dispensa nel preparar la materia, ed è di tutte la piú importante; la seconda nell’atto stesso del nodo sciolto e della cosa cangiata; la terza è tutta piena di diletto e di gioia, conforme al vero fine della poesia tragicomica. Quanto al primo, quantunque in questa favola molti sieno gli intrighi e le dif- ficoltá, nientedimeno quelle sole che risguardano il principal soggetto, cioè Mirtillo, eh’è il pastor fido, hanno il nomee la prerogativa del vero nodo, il quale, come tutte le cose umane, ha i suoi periodi d’accrescimento, stato e declinazione. E come tutto quello, che ne’ tre primi atti si va tessendo, non è altro che disposizione al viluppo, che vuol dire a far misero quanto piu esser possa Mirtillo, cosi, poich’egli è fatto tale nell’atto quarto, che si può dir lo stato del nodo, tutto quello che nel quinto si fa, benché in molte parti di lui angustie non man- chino, nondimeno, per quello che perbene a Mirtillo, viene ad esser disposizione al disciórre, moto contrario al primo. Quinci si può vedere quanto sia ben inteso quel paragone che si fa della tragedia migliore allo ’nfermo che dé’ morire, e della com- media allo ’nfermo che dé’ sanarsi, perciocché nell’uno e nel- l’altro il malore cresce al periodo destinato, e, ’n quanto a lui, vuole occidere; ma, quando è nello stato del tragico, vince, e, quando è ’n quello del comico, è vinto: la declinazione in uno è della virtú naturale, che va disponendo il suo soggetto al cadavero, e nell’altro è declinazione del male, che va dispo- nendo il medesimo alla salute. E, si come avvien per lo piú che ’l mal declinante non lascia subito il corpo infermo, il quale, bench’abbia vinto, non ha però cacciato in tutto il ne- mico, cosi l’avversa fortuna, avvengaché ’n questo quinto vada pur declinando, non parte però ella tutta ad un tratto, e pero vi s’incontrano molte difficoltá, le quali non sono intrighi del nodo, perciocché questo, avendo avuto nel quarto il suo vero stato, il suo colmo, come s’è detto, d’eccessiva miseria, non può ricevere accrescimento. E che sia vero, comincia in questo quinto Mirtillo a farsi meno infelice, avendo ottenuto quello che sommamente nella sua miseria bramò, di poter dare con la sua morte vita all’amata sua donna; ma sono accidenti che dispongono la materia allo scioglimento e a girare in buona la rea fortuna di quel pastore. La venuta di Carino suo padre, che con la scorta dell’oracolo si conduce ; la contesa di vo- lontaria morte, che è fra Mirtillo e Amarilli, gareggianti d’im- menso amore; il sacrificio da Carino interrotto; il contrasto di Ca- rino e di Montano della persona di Mirtillo, illegittima al sa- crificio; il dolor di Montano di dover sagrificare il proprio figliuolo, sono tutti travagli che non annodano, ma dispongono allo snodarsi, senza i quali lo scioglimento diverrebbe assai meno artifizioso, men verisimile e men dilettevole. E tanto basti aver detto della prima parte, spettante al preparar la materia. La seconda è l’atto stesso del nodo sciolto, il quale si divide in due parti. Nella prima Montano riconosce e truova il figliuolo, che non vorrebbe aver né trovato né co- nosciuto. Nell’altra è la ’nterpretazion dell’oracolo, che gli fa caro l’avere il suo figliuolo riconosciuto e trovato, e con questo è unito il rivolgimento. Nella medesima guisa si scioglie il nodo del tanto lodato Edipo , che non s’adempie con un solo riconoscimento, imperocché prima egli viene in cognizione di non esser figliuolo del re, com’egli si credea, di Corinto, e poi conosce quello che non avrebbe voluto, d’esser figliuolo di Laio re di Tebe, da lui ucciso, e di Giocasta, con cui commise lo’ncesto. E, come nell ’Edipo il primo riconoscimento non è quel che rivolge la favola in fin dolente, ma si bene il secondo, cosi anche nel Pastorfido , perciocché, riconosciuto che ha Mon- tano il figliuolo, par che la favola sia funesta piú ch’ella sia mai stata; ma Tirenio, che apre l’oracolo a guisa dello ’nteiletto agente, riduce in atto quella felicitá ch’era nell’animo di Mon- tano prima sopita, il qual, per essere dal dolore accecato, non vedea il chiaro lume della mente divina. E, cosi in questa come in molte altre cose, è molto simile a quella tanto stimata e si famosa tragedia, come sarebbe a dire, che quanto piú si cerca d’uscire di sospetto e d’affanno col ricercare, col do- mandare, tanto piú vi si cada e, come uccel nella ragna, tanto piú vi s’intrighi; che la sola persona di Mirtillo riconosciuta giri tutta la favola; un filo solo, come quello di Teseo, d’ine- stricabile iaberinto la faccia uscire; e, quello che pure è tanto dal Filosofo commendato, che la ricognizione non sia fatta per segni, ma in vertú di quel verisimile, che produce la maraviglia e nasce dal fatto stesso e dalle viscere del soggetto. E però quella parte, che fanno i duo pastori nel riconoscimento di Edipo, quella medesima fa nel Pastor fido Dameta, e nella stessa maniera ancora, poiché da quello, che ha detto prima Carino e poi racconta Dameta, si conchiude per certa necessitá che Mirtillo sia quel figliuol di Montano, che ’l torrente gli portò via. Nel che bisogna avvertire una eccezione molto importante, né fin qui da niuno, ch’io abbia veduto ancora, degli interpreti d’Aristotile conosciuta. Il quale, di molte spezie di riconosci- menti che sono da lui addotti, quella de’ segni, come assai meno artifiziosa, non pruova molto, lodando sopra tutte quella che nasce dall’intessimento delle cose e dal verisimile produ- cente la maraviglia, e danne l’esempio á^W Edipo il tiranno-, e pure, chi ben considera quella favola, troverá che non è senza segno. E qual è egli cotesto segno? I piè gonfiati, senza ’1 qual riscontro quel re non avrebbe creduto al pastore d’essere da lui stato con le forate piante, per ubbidire al padre di lui, appeso ad un albero, prima che ne facesse il dono al pastor di Corinto. Il medesimo fa la culla e i portenti cessati nel Pa- stor fido : in vertú di quella Carino acquista fede a quel che scuopre Dameta, e in vertú di questi Tirenio conferma la ’n- terpretazion dell’oracolo. Egli è ben vero che detti segni son de’ migliori, cioè di quelli che con l’esemplo della pistola di Efigenia nella tragedia d’Euripide, Efigenia in Tauris, il Filosofo ci commenda, per non essere mendicati né arbitrari, ma nascenti dall’intima necessitá della favola; e chi gli porta, non se ne serve a far la fede che fa, ma, dicendoli per dir solo come sta il fatto, necessita chi l’ascolta a prestargli fede nel rimanente, si come senza difficoltá nell’allegata favola può vedersi. Al ri- conoscimento della quale è tanto simile quello del Pastor fido, che pare anzi tradotto che imitato. Ma qui per avventura po- trebbe dirsi : perché dunque non si dé’ egli chiamare «riconosci- mento di segno», se v’interviene il segno? Perché il segno non vi sta, come dissi, per principale argomento di quella veritá che si scuopre, in quella guisa che si vede nell ’Ecira di Te- renzio, nella quale un anello solo e non altro scioglie quel gruppo, in veritá molto bello; ma fassi principalmente con iscontri di fatti e argomenti di cose, che costringono a prestar fede al conoscimento. E chi considera bene come Carino parla di quella culla per necessitá di risposta, e come que’ portenti, che son cessati nel tempio, vengono porti da Tirenio per oc- casione a lui di ricercarne la veritá e poi per cosa che séguiti da essa veritá giá scoperta, dirá, senz’altro, che quelli sono piú indizi che segni. E, poiché giá si sono espedite le due parti di quelle tre, nelle quali noi dividemmo lo scioglimento, resta ora che della terza si tratti, effetto giocondissimo della cangiata fortuna. E, si come della tragedia patetica era parte integrale quella che 1 Filosofo chiama il «commo», cioè a dir quel lamento che fa il coro, o da sé o in compagnia di qualche istrione, acciocché il terrore e la compassione, chiudendo con mestizia la favola, vengano a far nell’animo di chi ascolta quella gagliarda impressione e a lasciar quell’orrore ch’è necessario alla purgazione di quegli affetti, cosi nella tragicommedia, la quale, come s’è dimostrato, ha il fine suo tutto comico, tutto lieto, fu di mestieri che, per lasciare l’ascoltatore quanto piú si poteva allegro e giocondo, si andasse in diverse maniere e col mezzo di diverse persone la conceputa allegrezza magnificando. E, si come il tragichis- simo Euripide, per accrescer l’orrore, nelle Fenisse produsse in palco i corpi morti di Eteocle e di Polinice, fratelli e soggetti di quella mirabil favola infelicissimi, cosi nel Pasior fido, per colmar di letizia e pascer di giocondissima vista gli ascoltatori, fu molto ragionevole che si rappresentassero agli occhi loro felicissimi quegli amanti, che dianzi nell’abisso d’ogni miseria stavano immersi. Avvertendo però, che, quando essi non vi ve- nissero con necessaria e verisimile occasione, sarebbe insipida vista e da essere in tutti i modi fuggita; ma, poiché vengono, non per far mostra di sé, ma per passar dal tempio alle case loro, lá dove, per avviso del profeta Tirenio, prima che ’1 sol tramonti, dovevano accompagnarsi, la loro apparizione non può essere se non buona, essendo verisimile e necessaria. E, per- ciocché a fine tragicomico repugnava che Corisca fosse infe- lice, altramenti si verrebbe a cadere nella doppia costituzione dell’esito buono a’ buoni e cattivo a’ cattivi, dianzi da noi ri- fiutata; e dall’altro canto non convenendo, si come cosa di mal esemplo, eh’una pessima femmina avesse lieta fortuna, fu buono il preso temperamento, che col pentersi del suo peccato si provvedesse allo scandalo, e col ricever perdono dalle persone offese restasse lieta, la qual cosa, da chi è colpevole e dolente del suo peccato, in luogo di felice fortuna si dé’ ricevere. E qui, col chiuder della favola, si chiuda ancora il nostro discorso, nel quale è stato mio principale oggetto di giovare a coloro che in poesia drammatica spendono il lor talento, acciocché veggano che cotesto non è poema da porvi mano senza aver prima molto bene considerate le tante difficoltá che s’incontrano, se pure a grado d’eccellenza (ch’ogni poeta do- vrebbe sola volere, o non esser poeta), bramano di condursi. Fra le quali non è niuna piú malagevole che ’l fare scelta di buona favola. Senza questa, ed è vero, se tutte l’altre parti fossero gioie, sarebbono ben esse estimate belle, ma non sarebbono giá quel tutto né quell’opera bella, se buona favola non avesse. E di loro interviene come del vino dolce, ma insipido e senza nervo: per un bicchiere s’induce l’uomo a gustarne, ma piú oltre non se ne cura; o come di femmina, che abbia un bel visetto tutto lisciato, e nel rimanente poi vizza, languida e dissipita: terrá bene un poco con quelle sue vaghezze gli occhi ile’ riguardanti, ma, dalla prima volta in fuori, come cosa di poco gusto, non è stimata. Piace nel primo aspetto un vago discorso, una bella scena fiorita di vivezze; ma, s’ella non è ramo di buona pianta, Tesser fronzuta poco le gioverá. Se di buon padre non è figliuola, sará piú tosto bella per egloga se- parata che per parte, che faccia bello il suo tutto e bello quel poema di cui è scena. La favola insomma è, come disse il Maestro, T«anima del poema»; questa è ’l centro, questa è ’l nervo, questa è la base. Da questa nascono le vaghezze non affettate, non mendicate, non vane. Questa è quella che fa legittimi gli episodi, buono il costume, efficace l’affetto, natu- rale il decoro, grande il mirabile e mirabile il verisimile. Dal- l’artifizio di questa vien finalmente quella cara catena, che lega l’animo non solo di chi vede e ascolta, ma, quello che stima tanto Aristotile, di chi legge; quell’occulto diletto che inebria l’ascoltatore e ’l lettore e noi sazia mai, di maniera che sempre piú volentieri non torni a leggere e ascoltare, e non gli paia di trovar sempre nuove bellezze; miracoli si bene delle belle parole, ma unite con bella favola, che fa parer si care e si belle quelle parole; e finalmente miracoli che son propri della drammatica poesia, quand’ella è piena di sugo, imitatrice di vivi fatti e non di morte parole. E però, consi- derando il grande Aristotile che l’unitá, maravigliosa e neces- saria parte d’ogni poema, riesce tanto maggiore e piú artifí- ziosa, quant’ella, a guisa di ricca gemma, in corpo picciolo si ristringe, non dubitò d’antiporre la tragica all’epica poesia, maggior di corpo certo e di tempo, ma di diletto e d’artifizio di gran lunga minore.

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