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William Shakespeare - Coriolano (1608)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO




SCENA I.

Roma. — Una piazza pubblica.

Entrano Menenio, Sicinio e Bruto.

Men. L’augure mi disse che avremo novelle questa sera.

Br. Buone o ree?

Men. Poco propizie ai voti del popolo che non ama Marzio.

Sic. La natura insegna anche agli animali a conoscere gli amici.

Men. Qual è, vi prego, l’animale che il lupo preferisce?

Sic. L’agnello.

Men. Sì, per divorarlo; come i vostri plebei, sempre famelici, vorrebbero divorare il nobile Marzio.

Br. Marzio un agnello? Sia; ma egli ha l’urlo dell’orso feroce.

Men. Dell’orso? acconsento; ma d’orso che vive come agnello. Entrambi voi avete l’esperienza della vecchiezza; rispondete dunque ad una dimanda.

Sic. e Br. Fatela, signore.

Men. Di qual vizio offre egli una leggiera macchia, che in voi non si trovi in tutta la sua nerezza?

Br. Ei non è lordo d’una macchia sola, ma di tutte.

Sic. E specialmente di superbia.

Br. La sua estrema arroganza vince ogni altro suo difetto.

Men. Strano in verità! E voi, sapete voi in qual conto siate tenuti dalla città, intendo almeno da noi che ne componiamo la miglior parte?

Sic. e Br. Oh! e in qual conto?

Men. Poichè di superbia parlate, m’udirete senza collera?

Sic. e Br. Sì, sì, signore, sì.

Men. Nè io tengo in cale la vostra promessa, perchè so che alla prima opportunità scioglierete tutte le redini all’impazienza. Seguite dunque liberamente la vostra natura, e sdegnatevi finchè vi piacerà, se dallo sdegnarvi traete diletto. Voi date nota a Marzio d’arroganza?

Br. Nè siamo soli in accagionarlo di ciò.

Men. So che ben poche cose fate soli: so che siete abbondevolmente soccorsi: altrimenti le vostre opere sarebbero misere cose; chè troppo fanciulleschi sono i vostri ingegni, perchè poteste far molto da voi soli. D’arroganza parlate? Ah! se poteste volger gli occhi indietro e contemplarvi, se poteste far di voi un giusto esame, oh allora...

Br. Ebbene, allora?

Men. Allora vedreste una coppia d’immeritevoli, violenti, orgogliosi, stolti magistrati, se mai ne furono in Roma.

Sic. Menenio, voi ancora siete noto abbastanza.

Men. Son noto come un gioviale patrizio, che ama una tazza di vino quando non vi sia stata trasfusa una sola stilla di Tevere, che ha, dicesi, il difetto d’accoglier troppo favorevolmente le lagnanze del popolo, di lasciarsi commuovere dal suo più lieve tumulto, e d’infiammarsi per lui. Può aggiungersi ancora, che più spesso m’accade di vedere il nero dorso della notte, che la ridente fronte dell’alba. Ma tutto quel che io penso lo dico; e la mia malvagità si sperde in parole. Allorchè io incontro due uomini di Stato come siete voi, mi è impossibile chiamarli Licurghi. Se il vostro consorzio mi fastidisce, se il liquore che mi mescete mi amareggia la bocca, io lascio veder sul mio volto la nausea da cui son preso. Augusti tribuni, io non so inebbriarmi ai vostri discorsi quando scorgo che un ciuco dotato della parola avrebbe parlato come voi; e sebbene tolleri che taluno dica che siete persone di pondo e degne di osservanza, non posso però astenermi dal dare una mentita all’adulatore che osa asserire che avete la fisonomia d’uomini probi. Se ugualmente voi vedete nella mappa del mio individuo, ne trarrò che son ben conosciuto. Ciechi tribuni, nelle vostre maligne osservazioni quali difetti scerneste in me per poter dire ch’io pure sono abbastanza conosciuto?

Br. Ite, ite, signore; assai vi comprendiamo.

Men. Voi, nè me comprendete, nè voi stessi, nè alcuna cosa. La vostra ambizione è avida di plausi e delle genuflessioni d’un popolo cencioso. Voi sperdete la maggior parte del dì ad udire i piati d’un venditor di cedri con una rivendugliola di zolfanelli, e rimettete ad una seconda udienza la decisione di sì importante litigio. Quando sul vostro tribunale sedete giudici fra due parti, se per disavventura un lieve assalto di colica viene a tormentarvi, i vostri volti si trasmutano in vere maschere, uscite di voi; e obliando ogni ritegno, rimandate i contendenti più fieri che prima nol fossero, colla causa più di prima avviluppata, apostrofandoli entrambi come malandrini o stolti. Siete, in verità, una strana coppia.

Br. Ite, ite; ben è noto che più valete al desco che al campo.

Men. I nostri sacerdoti stessi perderebbero la loro gravità dinanzi a cose risibili come siete voi. Il vostro miglior argomento non vale un pelo della vostra barba, e la vostra barba non è pur degna di empiere il guanciale d’un pezzente o la sella d’un asinaio. E voi osate dire che Marzio è arrogante? Marzio, che disonorato sarebbe, ove anche lo si accertasse ch’ei solo è più da stimarsi che noi siano tutti i nostri avi insieme da Deucalione in qua, i più illustri dei quali non furono forse che tagliaborse? Buona notte, messeri: una più lunga conversazione con voi mi intorbiderebbe il cervello. Pastori di plebeo gregge, ardisco da voi accomiatarmi (Bruto e Sicinio si ritirano in disparte). Che veggo! (entrano Volunnia, Virgilia, Valeria ecc.) Voi qui, mie nobili e belle signore? Ah! se la luna fosse donna terrena, non splenderebbe di più grazie certo. Che cercano i vostri sguardi così arrotati?

Vol. Onorevole Menenio, il mio figlio Marzio si avvicina: per l’amor di Giuno, lasciateci andare.

Men. Ah! Marzio ritorna?

Vol. Sì, degno Menenio; e coi più lieti successi.

Men. Prenditi la mia vita, Giove; io ti ringrazio. Oh! Marzio ritorna!

Due matrone. Sì, sì.

Vol. Guardate: questa è una sua lettera; il Senato ne ha un’altra; sua moglie un’altra, e credo siavene una a casa anche per voi.

Men. Vo’ far ballare fino il tetto stanotte. Una lettera per me?

Virg. Sì certo; io la vidi.

Men. Una lettera per me? Essa mi reca sette anni di salute; durante il qual tempo prenderò a gabbo il medico, avvegnachè il più sublime aforismo di Galeno non è che una baia, paragonato a questa lettera. È egli ferito? Suo costume era di tornar ferito.

Virg. Oh no, no, no.

Vol. Oh sì, è ferito; e ne ringrazio gli Dei.

Men. Così io pur fo, ove di troppo nol sia... Porta con sè una nuova vittoria? Le ferite gli si addicono.

Vol. Egli viene colla fronte coronata, Menenio; ed ecco la terza volta che ritorna da me colla ghirlanda di quercia.

Men. Punì severamente Aufidio?

Vol. Tito Larzio scrive che combatterono insieme, ma che Aufidio fuggì.

Men. E lo fece in tempo, ne son sicuro: fosse egli rimasto anche un poco, e non avrei voluto esser lui per tutti i tesori di Corioli. — Il Senato è istrutto della novella?

Vol. Buone signore, andiamo. — Sì, sì, sì; il Senato ebbe lettere dal generale, che attribuivano a mio figlio tutto l’onore di questa guerra; con tal vittoria egli ha raddoppiato l’onore dei suoi primi fatti.

Val. In verità, meravigliose cose si dicono di lui.

Men. Meravigliose? ne fo fede: operò prodigi.

Virg. Gli Dei vogliano che sian veri!

Vol. Veri? può dubitarsene?

Men. Veri? giuro che sono veri. — Dov’è ferito?... Gli Dei salvino le vostre degne persone! (ai tribuni che s’avanzano) Marzio ritorna, e più cagione di prima egli ha d’essere superbo. Dov’è ferito?

Vol. Nella spalla e nel braccio sinistro; e ivi resteranno le larghe margini, che potrà mostrare al popolo, allorchè chiederà il posto che gli è dovuto. Quando cacciò Tarquinio, ei ricevè sette ferite.

Men. Una ne ha sul collo e due in una coscia; nove in tutto, ch’io sappia.

Vol. Prima di quest’ultima guerra aveva già ricevute venticinque ferite.

Men. Or dunque ne ha ventisette, ed ognuna fu esiziale al nemico. — Udite queste trombe?

(grida interne di acclamazione)

Vol. Son le foriere di Marzio, che fa volare innanzi a sè la vittoria e si lascia dietro il pianto. La morte, fantasima orribile, si asside sul vigoroso suo braccio, che s’alza, scende e sperpera i nemici di Roma. (squillo di trombe; entrano Cominio e Tito Larzio; fra loro Coriolano coronato con ghirlanda di quercia; uffiziali, soldati ed un araldo).

Ar. Sappi, Roma, che Marzio ha combattuto solo contro una intera città, racchiuso fra le sue mura, e che con gloria ha acquistato un nome che vivrà eterno. Entrate trionfatore in Roma, illustre Coriolano! (squillo di trombe; tutti gridano: Vita e gloria a Coriolano!)

Marz. Basta, basta, in mercè; tali grida mi addolorano. Ve ne prego, cessate.

Com. Vedete, signore, vostra madre...

Marz. Oh! voi avete, lo so, implorati tutti gli Dei per la prosperità delle mie armi.     (s’inginocchia)

Vol. Alzati, mio valoroso soldato, mio degno Marzio, mio Caio; e un altro nome aggiunger debbo, rivelator delle tue geste, mio illustre Coriolano! Ma, oh! tua moglie...

Marz. Salute, mia cara donna, sposa mia, salute! Avresti tu riso, vedendo ricondurmi alla casa paterna entro un feretro, tu che spargi lagrime pel mio trionfo? Ah! mia cara, questi occhi in pianto si addicono alle donne di Corioli, che oggi perderono i figli ed i consorti.

Men. Amico, gli Dei ti coronino!

Marz. E voi pure qui siete? (a Valeria) Oh mia dolce signora, perdonatemi.

Vol. Non so da qual lato volgermi... Mio figlio, sii il ben giunto in patria; e voi pure, generale, e voi tutti, soldati.

Men. Mille e mille gridi d’allegrezza... Vorrei ridere e piangere. Il mio cuore è in pari tempo leggiero e gaio, serrato e pieno. Oh amico, vedi la mia gioia. Maledizione indelebile sul cuore di colui che non è lieto di rivederti! Voi siete in tre che Roma debbe adorare; eppure, ne attesto gli occhi, havvi qui tal vecchio tronco, di cui nulla potrà correggere la natura selvatica, e che mai non porterà che frutti amari per voi. A ciò non si attenda; e abbiatevi gloria, illustri generali. Noi chiamerem l’ortica, ortica; e gli errori dei folli, follie.

Com. Onesto sempre.

Marz. Sempre, sempre Menenio.

Ar. Fate largo qui, e inoltrate.

Marz. La vostra mano e la vostra (a sua moglie e a sua madre). Anzichè io possa togliermi a questo splendore importuno e trovar ricetto all’ombra de’ miei lari, il mio dovere m’impone di visitare i nostri buoni patrizi, da cui ebbi mille auguri e mille onori.

Vol. Ho vissuto abbastanza per veder compiuti i miei voti e avverati i fulgidi sogni che avea formati nella mente. Una sola cosa manca a’ miei desiderii, e non dubito che Roma non te l’accordi.

Marz. Sappiate, buona madre, che amo più di obbedire ai Romani e servirli a grado mio, che comandarli secondo il loro talento.

Com. Andiamo al Campidoglio. (squillo di trombe; escono, come entrarono, a passo trionfale; i tribuni rimangono)

Br. Il suo nome è in tutte le bocche; i vecchi per vederlo assumono occhi artificiali; la nudrice ciarliera intesa a favellar di lui, non ode più le grida disperate del suo lattante; la più laida cuoca pensa al proprio vestito, e spiegata sull’affumicata sua gola la più tersa delle pezzuole, sale alla cima dei muri per riguardarlo. Il popolo trae a calca nelle botteghe, nelle finestre, sui tetti, nè altro ha in vista che Marzio. I sacerdoti solitarii di Giove istesso abbandonarono il loro ritiro, e confusi alla moltitudine, commuovonsi e si sospingono per ottenere un buon posto. Le signore espongono i gigli e le rose delle delicate loro guancie agli avidi baci del Dio del giorno, che appassisce e consuma i loro vezzi. Acclamazioni e tumulti regnano d’intorno a lui, e si direbbe che un Nume si ascondesse nel suo petto e spandesse su’ suoi lineamenti e nel portamento suo le grazie degli immortali.

Sic. Ei diverrà tosto console, ve ne fo fede.

Br. La potenza nostra in tal caso, finchè durerà la sua carica, potrà riposare.

Sic. Ei non conoscerà mai fra gli onori quella civile moderanza che sa il termine da cui convien dipartirsi e quello ove è d’uopo fermarsi. Tutto perderà, se ha guadagnato tutto.

Br. Quest’è la speranza che ne consola.

Sic. Non ne dubitate. Il popolo di cui siamo il sostegno, incostante sempre e maligno, obblierà alla prima occasione tutti i nuovi onori che oggi gli caggiono addosso, e lo costringerà a spogliarsene da se medesimo.

Br. Lo intesi giurare, che, se voleva il grado di console, non però avrebbe mai acconsentito a farsi vedere in pubblico coperto coll’umile manto dei candidati; e che sdegnava di mostrare, com’è uso, ai plebei le sue ferite, per mendicare, diceva, i suffragi delle loro voci fetenti.

Sic. Bene sta.

Br. Furono le sue parole. Oh! rinunzierà piuttosto a quella dignità, anzichè non doverla che ai cavalieri ed al Senato.

Sic. Persista nel suo proposito, lo compia, e di meglio non chieggo.

Br. Pare che così farà.

Sic. Allora tutto quel che gli auguriamo avrà effetto: la sua ruina è inevitabile.

Br. Convien ch’ei cada, o perderemo la nostra autorità. Per arrivare ai nostri fini, non cessiamo di rappresentare al popolo qual odio Marzio ha sempre nudrito per lui; come tutti gli sforzi ha fatto per aggravargli sul collo il giogo, per impor silenzio ai suoi difensori, per ispogliarlo de’ suoi più cari privilegi; qual disprezzo nutre per esso, a cui non concede nè ragione, nè umane facoltà; e che, secondo i suoi occhi, non occupa posto più onorevole nell’universo, di quello de’ camelli che si trascinano in guerra, e non ricevono il vitto che per portar pesi, flagellati e colpi quando soccombono sotto la fatica.

Sic. Queste idee esposte, come voi dite, in momento propizio, allorchè la protervia sua giunga fino ad insultare il popolo, infiammeranno il corruccio della moltitudine e accenderanno un nero incendio che offuscherà per sempre la sua gloria. L’occasione non mancherà, purchè lo si irriti; chè il cane al segno del pastore non è più pronto ad abbaiare contro il gregge.

(entra un messaggiere)

Br. Che novelle recate?

Mess. Chiedesi la vostra presenza al Campidoglio. V’è chi dice che Marzio diverrà console. Vidi i muti accorrere in folla per vederlo, e i ciechi attenti al suon delle sue parole. Le matrone gettavano i loro guanti sul suo passaggio, e le giovani donzelle facean volare verso di lui le loro ciarpe e le loro pezzuole. I nobili se gli prostrarono davanti come ad una divinità, e intorno a lui cadeva una grandine di berretti plebei. Le grida, le acclamazioni empivano, quasi tuono, il cielo... Non mai fu vista cosa simile.

Br. Andiamo al Campidoglio; rechiamovi per ora occhi e orecchi, e riserbiamo i cuori per altri istanti.

Sic. Mi muovo con voi.                                   (escono)

SCENA II.

Il Campidoglio.

Due Uffiziali entrano, e pongono i cuscini.

Uff. Affrettiamoci; disponiamo i seggi, fra un momento giungeranno. Quanti sono gli aspiranti al consolato?

Uff. Tre, dicesi; ma ognuno crede che l’otterrà Coriolano.

Uff. Prode è colui, ma troppo vendicativo e superbo; il popolo minuto non gli va a sangue.

Uff. Certo, molti grandi uomini avemmo, che piaggiarono al popolo senza esserne amati; e molti ve n’hanno, che il popolo ama senza saperne il perchè. Ma se senza motivo il popolo ama, esso odia ancora senza motivo. Onde l’indifferenza di Coriolano per l’odio del popolo e pel suo amore, prova la conoscenza che ha del di lui carattere; conoscenza che la sua nobile tempra non gli permette di dissimulare.

Uff. Se gli fosse indifferente di esserne amato o no, dovrebbe starsene neutro, e non fare al popolo nè ben nè male; ma ei cerca l’odio de’ plebei con maggior zelo ch’essi non n’abbiano a prodigargliene, e nulla intralascia per farsi conoscere nemico. Ora, voler così attirarsi l’abbominazione del popolo è condotta tanto biasimevole, quanto lo è quella, ch’ei danna, di adularlo per farsi da esso amare.

Uff. Bene ha meritato della patria, e a tanta altezza non venne salendo quella facile via che mille altri percorrono, via di lusingherie e di viltà; nè fra quei vani idoli vuol egli collocarsi, attorniati d’inchini e di genuflessioni, i quali nulla mai fecero che meritasse onore e gloria. Coriolano si innalzò davanti agli occhi di tutti, ed ha sì bene scolpite le sue azioni in tutti i cuori, che un silenzio perfido, il quale non volesse palesarle, sarebbe ingratitudine; una narrazione infedele sarebbe calunnia, che smentirebbe da sè, ed attirerebbe da ogni parte al suo autore vituperio e disprezzo.

Uff. Più non se ne parli: egli è un uomo degno; apriam la via: essi vengono. (squillo di trombe; entrano, preceduti dai Littori, Cominio console, Menenio, Coriolano, Senatori, Sicinio e Bruto. I Senatori si assidono; i Tribuni vanno ai loro posti)

Men. Dopo avere statuita la sorte dei Volsci col decreto d’inviare appo loro Tito Larzio, ne rimane per cura principale di stabilire la ricompensa che i nostri servigi di questo Romano, generoso difenditore del suo paese, han meritata. Piaccia dunque il venerando ed illustre Senato di Roma l’imporre al Console qui presente, degno nostro generale nell’ultima e fortunata guerra, di raccontarne qualcuno dei prodigii di valore operati da Caio Marzio. Ragunati qui siamo per ringraziarlo pubblicamente, e dimostrare la riconoscenza nostra con onori degni di lui.

Sen. Parla, buon Cominio; non ommetter nulla per amore di brevità. Fanne comprendere come tutte le ricchezze del nostro Stato non basterebbero, senza i nostri cuori, per pagare sì giusto debito di gratitudine. Capi del popolo, vi chiediamo ascolto favorevole e zelo per la cosa pubblica; questo mostrerete, approvando ciò che qui accade.

Sic. Ci uniamo a voi nel giubilo di una pace felice. I nostri cuori san rispettare e cooperare agl’intenti di questo Consesso.

Br. E siamo lieti di poterlo fare sin d’ora, se Coriolano vuol mostrare al popolo più benevolenza e stima, che non glie ne attestasse fin qui.

Men. Di ciò non è discorso; meglio era che aveste taciuto. Volete udir Cominio?

Br. Di buon grado; ma il mio consigliò era più convenevole, che il vostro rifiuto d’ascoltarmi.

Men. Egli ama la vostra plebe; ma non vogliate che s’immischii familiarmente con lei, e, obbliando il suo grado, scenda al livello di essa. Degno Cominio, parlate. (Coriolano s’alza, e fa per uscire) — No, rimanetevi al vostro seggio.

Sen. Sedete, Coriolano; non arrossite per udire le vostre nobili geste.

Marz. Illustri Senatori, perdonate; amerei meglio di dover guarire ancora le mie ferite, anzichè udir ripetere come le ricevetti.

Br. Spero, signore, che non saranno state le mie parole che vi han fatto abbandonare il vostro posto.

Marz. No, signore; nullameno sono spesso fuggito in guerre di parole, mentre immoto rimaneva a quelle di colpi. Voi non mi adulate; onde non mi fate oltraggio: quanto ai vostri plebei, io gli amo per quel ch’e’ valgono.

Men. Vi prego, sedete.

Marz. Più volentieri starei assiso dinanzi ai raggi del sole, immerso in molle ed oziosa indolenza1, mentre squillasse l’allarme, che ascoltar qui, inoperoso, il racconto turgido de’ miei poveri fatti.     (esce)

Men. Capi del popolo, come potrebbe un tal eroe adular le vostre moltitudini, in cui non si trova un dabbene fra mille? egli che, dopo aver rischiata la sua vita per l’onore, rifiuta di porgere ascolto alla narrativa delle proprie opere? — Incominciate, Cominio.

Com. La lena mi mancherebbe; e non è con fiacca voce, che si denno esporre le geste di Coriolano. Il valore è riputato la prima delle virtù, e la più onorevole per colui che la possiede. Il mondo non ha dunque uomo che possa reggere al paragone di quello a cui accenno. Di sedici anni, allorchè Tarquinio si fece un partito in Roma, Coriolano guerriero sorpassò tutti i Romani. Il dittatore che allora comandava, e che la mia mano addita qui con rispetto, vide quell’adolescente, colle guancie di giovine Amazone, cacciare in fuga innanzi a sè soldati incanutiti sotto le armi. Diritto, al di sopra d’un Quirito ucciso che col suo corpo ricopriva, immolò, al cospetto del console, tre nemici avventatisi sopra di lui. Osò assalire Tarquinio stesso, e lo ferì in un ginocchio. In quel giorno famoso, in una età in cui avrebbe potuto compiere le parti di giovinetta sui nostri teatri, primo si mostrò fra i guerrieri sul campo di battaglia; e il prezzo delle sue opere fu la corona di quercia. Così, entrato fanciullo nelle vie dell’uomo, i fatti suoi si estesero come l’onde del mare, e nell’urto di diciassette successive battaglie la sua spada tolse agli altri e mietè per sè tutti gli allori. Quanto a ciò che operò in quest’ultima guerra, convien ch’io il dica, non saprei degnamente chiarirlo. Solo, egli solo arrestò i fuggiaschi; solo insegnò ai vili a farsi scherno della paura. Come i flutti passano e si conseguono sotto un vascello vogante a piene vele, così gli uomini aprivansi, e cadevano a torme sotto di lui. La sua spada, come falce di morte, dovunque ei l’addrizzava, feriva; e, insanguinato dalla testa ai piedi, ogni suo moto era accompagnato da grida di moribondi. Solo ei varcò le porte della città, che tosto divennero le porte del sepolcro; e il suo braccio inevitabile, come il destino, le annaffiò di rosse onde. Reduce, e perseguitato nell’esterne pianure, trovò quivi un rinforzo; e, simile ad infausta cometa, s’avventò con esso di nuovo su Corioli, e l’atterrò. In questa un romore gli ferisce l’orecchio; ode le grida che noi di lontano combattendo mandavamo; e tosto il suo coraggio raddoppia: la sua gran d’anima infonde novelle forze nell’esausto suo corpo, e lo guida fra noi; là fra un nembo di ferite calpesta gli estinti, e muta la battaglia in carnificina. In breve, finchè non siamo stati signori della città e dei campi, Coriolano non s’è fermato per riposare.

Men. Degno eroe!

Sen. Al di sotto non sarà degli onori che gli apprestiamo.

Com. Ha sdegnato le spoglie de’ Volsci; il più prezioso bottino è stato considerato da lui come il fango della terra; meno ei desidera, che l’avarizia stessa dar non potrebbe; nelle sue azioni trova ogni ricompensa.

Men. Valoroso e grande egli è. Sia tosto richiamato.

Sen. Fate rientrar Coriolano.                                   (ad un Ufficiale)

Uff. Eccolo.                                   (rientra Caio Marzio)

Men. Coriolano, tutto il Senato è lieto di salutarvi console.

Marz. Per sempre gli ho sacrati i miei servigi e la mia vita.

Men. Sol vi rimane da parlare al popolo.

Marz. Concedetemi, ve ne scongiuro, di ommettere quest’uso; io non saprei dispogliarmi della veste per offrirmi nudo a’ suoi sguardi, e supplicarlo, in nome delle mie ferite, d’accordarmi il suffragio. Permettete che io intralasci tal costumanza.

Sic. Caio, il popolo deve avere il suo voto, nè soffrirà che si negliga alcuna formola della cerimonia.

Men. Non l’irritate: sommettetevi, vi prego, alla consuetodine, e salite agli onori colle pratiche di quelli che vi han preceduto.

Marz. È atto che non potrei fare senza arrossire, e si dovrebbe toglier al popolo un tale spettacolo.

Br. Udite ciò?                                   (a Sic.)

Marz. Magnificarmi innanzi a lui! Dire: questo e questo ho fatto! Mostrar le margini, che vorrei tener nascoste, come se non avessi ricevute tante ferite che per esporle al suo alito infetto, o raccogliere il vil prezzo de’ suoi suffragi!

Men. A ciò non attendete. — Tribuni del popolo, a voi accomandiamo gl’intenti del Senato appo lui, ed auguriam gioia ed onore a Coriolano, nostro illustre console.

Tutti i Senatori. A Coriolano gioia eterna ed onore!

(squillo di trombe; tutti escono, tranne i Tribuni)

Br. Voi vedete quale condotta egli vuol tenere dinanzi alla moltitudine.

Sic. Possa questa penetrare i suoi intenti. Il voto ne chiederà con tuono, che ben le farà comprendere quanto disprezzi il potere ch’essa ha d’accordargli ciò che dimanda.

Br. Venite; andiamo ad istruirla delle cose che qui facemmo; so che ci aspetta nella piazza pubblica.     (escono)

SCENA III.

Il Foro.

Entrano parecchi Cittadini.

Citt. In breve, s’ei chiede il nostro voto, non dobbiam rifiutarglielo.

Citt. Ma bene lo potremmo, signore, se volessimo.

Citt. Certo, questo potere risiede in noi, ma è potere che non siam liberi d’esercitare; perocchè s’ei ne mostra le sue ferite, e ne racconta le geste che compiè, saremo costretti di baciar quelle cicatrici, e di prestar loro una voce. Sì, s’ei ci narra tutti i nobili suoi fatti, saremo tenuti di esporre la nostra riconoscenza, e di mostrarci a lui con onore. L’ingratitudine è vizio mostruoso; e quando il popolo fosse ingrato, sarebbe un mostro. Membri del popolo noi siamo, e diverremmo turpi per colpa nostra.

Citt. Ma per prender di noi tale idea, non avremmo mestieri che di rapportarcene a lui: imperocchè quando a cagione del prezzo del grano ci siam sollevati, ei non esitò a chiamarci il mostro dalle cento teste.

Citt. Il solo non è che così ci abbia chiamati: non già perchè gli uni han la capigliatura bruna, gli altri nera; o perchè questi han molti crini, e quelli son calvi: ma a cagione della grande varietà di spiriti, che ci distingue. E infatti, se tutti i nostri spiriti dovessero uscire da un sol cranio, essi si vedrebbero volare in un medesimo tempo ad oriente, a ponente, a mezzogiorno e a settentrione. Partendo dallo stesso centro, arriverebbero in retta linea a tutti i punti della circonferenza.

Citt. Credete ciò? Or quale strada prenderebbe il mio spirito, stando al vostro concetto?

Citt. Il vostro spirito non isloggierebbe così prontamente come un altro, tant’è sepolto addentro nella vostra stolida testa; ma se potesse spastoiarsi, certo andrebbe diritto al mezzodì.

2* Citt. Perchè da quel lato?

Citt. Per perdersi fra una nebbia, da cui dopo essersi evaporato pei tre quarti, e liquefatto in corrotta rugiada, l’ultimo quarto tornerebbe a voi per un resto di coscienza affine di aiutarvi a trovar moglie.

Citt. Faceto sempre... Vi torni in pro quel riso.

Citt. Siete risoluti di dare il voto? ma poco importa che tutti lo diano; la pluralità decide. Per me io dico, che se Coriolano s’umilia dinanzi al popolo, non mai fu uomo più degno di lui (entrano Coriolano e Menenio). Eccolo colle umili vesti del candidato: osserviamo la sua condotta. Noi ci restiam così tutti uniti; ma avviciniamoci al luogo ov’ei sta, a pochi alla volta. Convien che ne faccia a ciascuno in particolare la sua dimanda, onde ognuno di noi s’abbia un onor personale eleggendolo. Seguitemi, v’insegnerò come dobbiamo appressarci.

Tutti i Citt. Così si faccia, così si faccia.                                   (escono)

Men. Oh, signore, non vi apponete; ignorate voi che i più illustri Romani han fatto quello che ora fate.

Marz. Che posso io dire?... Pregovi, signore... Maledizione su di loro!... No, non saprò mai indur la mia lingua a dire ad un plebeo: guardate le mie ferite; le ricevei in servigio della patria, mentre molti Romani della vostra classe tremavano di paura, e fuggivano il romore dei nostri strumenti da guerra.

Men. Oh Dei! non favellate di ciò. Convien pregarli a ricordarsi di voi.

Marz. A ricordarsi di me? Maledizione li colga! Vorrei che mi avessero obbliato, come obbliano le minacce che i nostri auguri fan loro in nome degli Dei.

Men. Voi rovinerete ogni cosa. Vi lascio; favellate con essi, ve ne prego, con dolcezza, con bontà, come n’avete d’uopo.

(esce; ed entrano due Cittadini)

Marz. Imponete loro di lavarsi il volto e i denti... Eccone una coppia. — Sapete voi perchè io mi stia qui?

Citt. Lo sappiamo, signore: diteci nondimeno quel che vi ci ha condotto.

Marz. Il mio merito.

Citt. Il vostro merito?

Marz. Sì, e non il mio volere.

Citt. Come! non il vostro volere?

Marz. No, messere; non fu mai piacer mio d’importunare il povero con inchieste.

Citt. Dovete pensare, che se qualche cosa v’accordiamo, è colla speranza di guadagnare col mezzo vostro.

Marz. Bene dunque, vi prego, a qual prezzo ponete il mio consolato?

Citt. Al prezzo di chiederlo cortesemente.

Marz. Cortesemente? Fate dunque ch’io l’abbia. Ho alcune ferite da mostrare, e che potrei farvi vedere particolarmente. Ebbene, datemi il vostro voto. Che rispondete?

Citt. L’avrete, degno signore.

Marz. È detto. Ecco due aurei voti... Ottenni la vostra limosina. Addio.

Citt. Ciò parmi strano.

Citt. Se dovessi dargli ancora il voto... ma non importa.

(escono; ed entrano due altri Cittadini)

Marz. Pregovi, se da voi dipende il mio consolato, vedete... indossai l’abito di costume.

Citt. Voi avete servito nobilmente il vostro paese, e non lo avete servito nobilmente.

Marz. Che è questo enimma?

Citt. Siete stato il flagello de’ suoi nemici, ma eziandio degli amici suoi. Mai non amaste il popolo.

Marz. Dovreste riputarmi tanto più virtuoso, quanto meno fui prodigo della mia amicizia; ma, poichè lo volete, e poichè questo vi piace, adulerò il popolo, e giurerò che i plebei li ho in conto di fratelli, onde ottener da essi maggiore stima; e poichè, nella saviezza loro, preferiscono la vuota formola d’un saluto ai veri sentimenti del cuore, simulerò quelle sembianze esteriori che li captavano, e imiterò il fare dei cortigiani perfidi e ingannatori. Pregovi dunque, perch’io possa divenir console.

Citt. Speriamo trovare in voi il nostro amico, e con questa speranza vi diamo il voto di cuore.

Citt. Riceveste molte ferite pel vostro paese?

Marz. Non ve ne farò certi mostrandovele. Godo d’aver ottenuto il vostro suffragio, e non voglio importunarvi di più.

Entrambi i Citt. Gli Dei vi colmino di felicità: quest’è il nostro desiderio.     (escono)

Marz. Dolcissime voci!... Meglio varrebbe morire, morire d’inedia, che domandar sì vilmente la ricompensa dovuta al valore. Perchè sono io qui coperto di questa odiosa veste, e ridotto a mendicare il favore degli ultimi degli uomini, io che non ho alcun bisogno di essi? È il costume; tutto che il costume vuol da noi, noi lo dobbiamo fare. Lasciate che la polvere s’accumuli per anni ed anni; il tempo l’assoderà, e i venti non potran più sollevarla: l’errore aggiunto del pari all’errore, creerà montagne che la verità non potrà varcare mai più. Anzi che recitar così la parte del mentecatto, abbandoniamo il primo posto e il supremo onore a chi vorrà far l’insensato... Ma a metà sono della via; e poichè tanto feci, tolleriamo anche un poco, e compiam l’opera. (entrano tre altri Cittadini) Ecco voti novelli. Datemi la vostra voce. Per ottenerla ho combattuto, ho vegliato nei campi, ho ricevuto due dozzine di ferite, e forse più. Io stetti a diciotto battaglie; molte cose piccole e grandi compii per voi. Datemi il vostro voto. Intendo esser fatto console.

Citt. Egli ha operato nobilmente e non v’è uomo onesto di cui non debba ottenere il suffragio.

Citt. Onde sia console; e gli Dei lo facciano lieto, e amico sempre al popolo.

Tutti i Citt. Così sia, così sia. Gli Dei ti salvino, console valoroso.     (escono)

Marz. Oh degne voci! (rientra Menenio con Bruto e Sicinio)

Men. È trascorso il tempo stabilito; i tribuni vi assicurano i voti del popolo. Non vi rimane più che da rivestirvi delle insegne della vostra nuova dignità per tornare al Senato.

Marz. È tutto finito?

Sic. Vi siete conformato al costume. Il popolo vi riceve, e si adunerà per confermare la vostra elezione.

Marz. Dove? al Senato?

Sic. Là appunto, Coriolano.

Marz. Muterò veste?

Sic. Potete.

Marz. Tosto lo farò, onde riconoscer me stesso prima di mostrarmi al Senato.

Men. Vi accompagnerò. — Verrete anche voi? (a Br. e Sic.)

Br. Staremo qui per radunare il popolo.

Sic. Addio. (escono Marz. e Men.) Ora è fatto console: e giudicandone da’ suoi occhi, il cuore gli avvampa.

Br. Ei portava con anima superba quelle umili vestimenta. Volete licenziare il popolo?     (rientrano i Cittadini)

Sic. Ebbene, amici, sceglieste quell’uomo?

Citt. Ha i nostri voti, signore.

Br. Preghiamo gli Dei che possa meritar il vostro amore.

Citt. Lo desidero, tribuno; ma se le mie povere osservazioni fossero degne d’un pensiero; direi che sembrò beffarsi di noi allorchè chiese i nostri voti.

Citt. Nulla di più vero; e’ c’insultò co’ suoi falsi omaggi.

Citt. No. quella è la sua maniera; ei non ci schernì.

Citt. Non v’è alcuno fra noi, voi eccettuato, il quale non dica che ci trattò con disprezzo. Doveva mostrarne, come prove del merito suo, le ferite che ricevè pel suo paese.

Sic. Le avrà mostrate senza dubbio.

Tutti i Citt. No; alcuno non le vide.

Citt. Disse che aveva alcune ferite, che le poteva mostrare in privato; e con atto sdegnoso aggiunse: Bramo esser console. Antica usanza vuole ch’io il divenga mercè il vostro suffragio. Datemi dunque il vostro voto. E accordato che glie l’avevamo: Vi ringrazio (diceva); affè, che vi ringrazio. In gran conto io tengo i vostri voti. Accordati me gli avete? Ite ora, chè non ho più mestieri di voi. Non era questo uno schernirci?

Sic. Perchè dunque non sapeste avvedervene? se avveduti ve ne siete, perchè aveste, come fanciulli, la semplicità d’accordargli il voto?

Br. Non potevate dirgli, come vi era stato suggerito, che anche quando era senza poteri, povero servo della Repubblica, era stato vostro nemico? che tuonato avea sempre contro la vostra libertà, e astiati i privilegi che godete? che se giunto fosse all’ufficio sovrano in Roma restando nemico al popolo, la bontà vostra, dandogli il voto, vi sarebbe divenuta fatale? Almeno gli dovevate far comprendere, che se le sue grandi azioni lo rendevano degno del posto che chiedeva, il suo cuore doveva insegnargli a stimare le vostre voci per quello che valgono, e a far succedere al suo ingiusto odio verso di voi un vero amore, mostrandosi protettor vostro.

Sic. Se aveste parlato così e se aveste seguìto i nostri consigli, avreste scrutata la sua anima; e postala alla prova, gli avreste strappato vantaggiose promesse, che sarebbe stato costretto di attenere; ovvero i procedimenti vostri avrebbero irritata la sdegnosa sua tempra, quella collera che nulla può flettere o moderare; e divenuto furioso, la sua rabbia vi avrebbe valuto di pretesto per non eleggerlo.

Br. Osservaste con quale indifferenza e disprezzo sollecitava il favor vostro nel momento stesso in cui ne aveva bisogno? Credete che quel suo disprezzo non vi opprimerà, allorchè avrà potenza di stiacciarvi? Perchè non siete voi che un corpo senza anima? o perchè avete una voce, se non vi giova che a contrariare la ragione che dovrebbe guidarvi?

Sic. Non rifiutaste cento altre volte il suffragio a più d’un candidato che lo sollecitava? E oggi l’accordate ad un uomo che invece di chiederlo, si sollazza di voi?

Citt. La nostra scelta non è confermata; possiamo ancora rivocarla.

Citt. E la rivocheremo; ho cinquecento voci che suoneranno come la mia!

Citt. Io ne ho mille, e molti amici, per ovviare al fallo commesso.

Br. Ite tosto a dir al popolo che si è scelto un console, il quale lo spoglierà della sua libertà, e non gli lascierà più voce, che non se n’abbia un cane spesso battuto perchè latra, sebbene lo si tenga per ciò.

Sic. Ragunatelo; e, dietro più maturo esame, ripudiate la vostra cieca scelta. Pingete vivamente il suo orgoglio, e non dimenticate di parlare dell’inveterato odio che ebbe sempre contro di voi, dello sdegno col quale si è mostrato sotto gli abiti di supplicante, e degli scherni che ha mescolati alla sua inchiesta. Dite che il vostro amore, considerando solo i suoi servigi, ha turbata la vostra attenzione e toltala dalla sua condotta attuale, risibile e bizzarra come l’odio che vi porta.

Br. Gittate anche tal colpa su di noi, sui vostri tribuni; lagnatevi del nostro silenzio, che non frappose alcuna opposizione, e vi ha come forzati a far cadere la vostra scelta sulla sua persona.

Sic. Dite che avete piuttosto seguìto il volere di noi, che la vostra inclinazione; dite che collo spirito invasato da cosa che vi pareva il vostro dovere, non attendeste al vostro senno, e contro voglia avete dato il vostro voto. Gittate su di noi tutta la colpa.

Br. Sì, non ci risparmiate. Aggiungete, che, malgrado la vostra ripugnanza, vi abbiamo assordati col suo panegirico, facendo risaltare i servigi che sì giovine rese alla patria, e che ha continuato per tanto tempo a renderle; rappresentandovi la nobiltà della sua origine, che appartiene all’illustre casa dei Marzii, da cui uscì quell’Anco, nipote di Numa, che dopo Ostilio regnò in Roma; e a quei famosi Publio e Quinto, a cui andiamo debitori del più superbo e del più utile de’ nostri acquedotti; e a quel Censorino, sì diletto al popolo, che tal nome ebbe per essere stato due volte Censore, venerabile e degno suo proavo.

Sic. Nato di tali padri, sostenuto da merito degno de’ primi onori, ecco l’uomo che abbiam dovuto raccomandare alla vostra riconoscenza; ma comparando l’attuale sua condotta colla passata, avete scorto in lui il vostro nemico eterno, e rivocate gl’imprudenti voti che proferiste.

Br. Chiarite, sopratutto, e non cessate di ripeterlo, che mai adottato non l’avreste senza le nostre instigazioni. Tosto che il vostro numero sarà compiuto, ite al Campidoglio.

Tutti i Citt. Così faremo; quasi tutti ci pentiamo della nostra elezione.     (escono)

Br. Lasciam che vadano. È meglio che questa piccola sommossa fruttifichi alla ventura, di quello che attendere un momento sicuro per eccitarne una maggiore. Se, conservando il suo carattere, infuria vedendo il loro rifiuto, osserviamlo dappresso, e rispondiamgli in guisa da trar partito della sua ira.

Sic. Andiamo al Campidoglio; vi giungeremo prima della folla; e ciò che questa farà, incitata da noi, non sembrerà, com’è in parte, che opera sua.      (escono)




  1. Scratching my head. Alla lettera: grattandomi il capo.


Note

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