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ATTO TERZO
SCENA I.
Una strada.
Suon di corni. Entrano Coriolano, Menenio, Cominio, Tito Larzio, Senatori e Patrizi.
Marz. Tullo Aufidio ha posto in piedi un nuovo esercito?
Tit. Così ha fatto, signore; ed ecco ciò che ne fa affrettare il nostro trattato.
Marz. Dunque i Volsci sono tornati alla potenza di prima, e stanno parati ad invadere alla prima occasione il nostro territorio?
Com. Sono spossati, signore; e dubito che viver possiam tanto da rivederli a sventolare i loro vessilli.
Marz. Vedeste Aufidio?
Tit. Venne da me sotto fede d’un salvacondotto, e fulminò i Volsci d’imprecazioni per aver sì vilmente ceduta la città: poscia s’è ritirato ad Anzio.
Marz. Parlò di me?
Tit. Parlò.
Marz. E in quali sensi?
Tit. Disse che molte volte avea combattuto con voi; che alcuno non v’era sulla terra, ch’egli odiasse al pari di voi; che ceduto avrebbe di buon grado tutte le sue ricchezze per essere solo una volta chiamato vostro vincitore.
Marz. E ad Anzio fermò il suo soggiorno?
Tit. Ad Anzio.
Marz. Desidererei mi si presentasse opportunità per andarlovi a snidiare, e oppormi agli sforzi del suo furore. — Il benvenuto qui siete. (a Tito) Vedete! (entrano Bruto e Sicinio) ecco i tribuni del popolo; le lingue della bocca universale. Io disprezzo costoro, perchè afforzano la plebe d’un’autorità ch’è impossibile ai nobili di patire senza avvilimento.
Sic. Non procedete oltre.
Marz. Ah! che vuol dir ciò?
Br. Sarebbe pericoloso per voi l’andare più innanzi. Fermatevi.
Marz. Da che procede tal mutamento?
Men. Che ne fu causa?
Com. Non venne egli eletto coi suffragi dei cavalieri del popolo?
Br. No, Cominio.
Marz. Fu dunque di pargoli ch’io raccolsi il voto?
1° Sen. Tribuni, lasciatelo passare; ei va alla piazza pubblica.
Br. Il popolo è sdegnato contro di lui.
Sic. Fermatevi qui, o sveglierete un grave incendio.
Marz. Questo dunque è il gregge che voi guidate? Merita esso d’avere una voce nello Stato un popolo che la dà, e la ritoglie un istante dopo? A che valgono i vostri ufficii? Voi, che bocca siete di tal mostro, perchè non reprimete il suo dente malefico? Foste voi forse, che accendeste il suo furore?
Men. Calmatevi, calmatevi.
Marz. Cotesta è una trama premeditata e indegna, per far onta alla nobiltà, e contrastarne i voti. Soffritelo, se potete; e vivete con un popolo che non può comandare, nè vuole obbedire.
Br. Trama non fu. Il popolo altamente si querela che voi lo avete insultato; e ricorda che, non ha molto, in occasione d’una distribuzione gratuita di grano, vi mostraste cruciato, e ingiuriaste coloro che lo difendevano, chiamandoli vili, adulatori, nemici dei nobili.
Marz. Il rimprovero non è nuovo; e’ lo sapevano anche prima.
Br. Non tutti.
Marz. E voi ne gl’istruiste dappoi.
Br. Io gl’istruii?
Marz. Vi credo degno dell’opera.
Br. Degno sarei anche di ammendare i vostri falli.
Marz. E perchè diverrei io console? Per quelle nubi che velano il cielo, lasciate ch’io far possa tanto male, quanto ne fate voi; ed eleggetemi allora per vostro compagno, tribuni.
Sic. Troppo dimostrate la vostra collera, che eccita il maltalento della plebe. Se bramate pervenire al termine a cui agognate, v’è forza rientrare, con maniere più dolci, nella via da cui vi siete dipartito; ovvero non avrete mai l’onore d’esser console, nè collega di Bruto nel tribunato.
Men. Non andiam tropp’oltre.
Com. Il popolo è deluso. Partiamo. Queste ambagi sono indegne di Roma: e Coriolano non meritò l’ostacolo ingiurioso, che l’invidia pone dinanzi al suo cammino.
Marz. Parlarmi oggi di grano? Sì, fu mio proposito, e lo ripeterò.
Men. Non ora, non ora.
1° Sen. Non in questo momento, nel quale gli spiriti avvampano.
Marz. In questo istesso momento, sulla mia vita, in questo momento stesso lo ripeterò. (ai Senatori) Da voi, miei nobili amici, imploro perdono; e quanto a questa ignobile e volubile moltitudine, vo’ ch’essa mi vegga in volto, per sapere com’io la soji; e vo’ che, stupita d’intendermi, se stessa riguardi mentr’io le griderò che noi nutriam contro il Senato semi di rivolta e d’insolenza da noi coltivati, unendo il nostro Ordine illustre a quello di un vil popolo, spogliandoci d’una parte di autorità, di cui facemmo limosina a quella ciurma pezzente.
Men. Basta; placatevi.
1° Sen. Non più parole, ve ne supplichiamo.
Marz. Oh! non più?... Come vero è che ho versato il sangue pel mio paese, senza timore mai d’alcuna forza nemica; così, finchè respirerò, la mia voce tuonerà contro queste turpitudini del popolo, che arrossiremmo se a noi si comunicassero, e che nullameno prendiamo ogni cura perchè divengano contagiose.
Br. Voi favellate del popolo, come se foste un Nume fatto per punire, e non come un mortale che ne divide le debolezze.
Sic. Sarebbe utile che il popolo ne fosse istrutto.
Men. Di che? di che? del suo sdegno?
Marz. Sdegno? Fossi tranquillo come il sonno nella notte profonda, e, per Giove, questo sarebbe il mio sentimento.
Sic. È tal sentimento, che avvelenerà solo il cuore che l’ha concepito; il suo contagio non si estenderà, ne fo fede.
Marz. Ne fo fede? Udite il corifeo del vulgo; udite il suo tuono insoluto?
Com. Sì, direbbesi che è la legge che parla.
Marz. Ne fo fede? Oh buoni, ma troppo imprudenti Patrizi! gravi e venerandi, ma inconsiderati Senatori! perchè deste all’idra il dritto di scegliersi un rappresentante, che col suo tuono imperioso, non avendo che la lingua e la voce del mostro, osa dire che muterà il corso dell’autorità, e lo farà divergere dai vostri dominii perchè trascorra ne’ suoi? Se è costui che ha il potere in mano, umiliatevi nell’impotenza vostra; ma se alcuno ei non ne ha, svegliatevi, e rinunciate alla vostra pericolosa dolcezza. Se avete lumi e saviezza, non operate come la folla dei dementi; se più saggi di essa non siete, lasciate allora che costui venga al Campidoglio, per sedervi accanto. Voi non siete che plebei, se essi sono senatori. E certo non meno di senatori essi sono, se il loro voto ottiene la preferenza sul vostro. Costoro scegliere magistrati! Ed uno ne nominano, che oppone l’ardita sua voce e il decreto delle ciurme alle decisioni di un tribunale più rispettabile di quelli che vide la Grecia ne’ suoi dì fiorenti? Per Giove! tanta ignominia invilisce e degrada i consoli; e l’anima mia soffre pensando che, quando due autorità lottano insieme, senza che l’una o l’altra primeggi, il disordine non tarda ad insinuarsi per l’apertura che lascia la loro disunione, e le abbatte in breve entrambe.
Com. Certo. Andiamo, andiamo alla piazza pubblica.
Marz. Chi mai potè dare il consiglio di distribuir gratuito il grano dei magazzini dello Stato, come si praticò qualche volta in Grecia?
Men. Non si parli più di ciò; andiamo.
Marz. Sebbene in Grecia il popolo avesse fra le sue mani un potere più assoluto, affermo che qui si nutriva la ribellione, e si logoravano le fondamenta dello Stato.
Br. Perchè darebbe il popolo il suo voto ad uomo che parla in tal guisa di lui?
Marz. Io tuonerò colla mia voce, che val più del suo suffragio. Il popolo ben sa che quella distribuzione di grano non era una ricompensa, e sa che nulla fatto avea che la meritasse. Posto lo Stato, per le necessità della guerra, in strettezza tale, che le sue sorgenti di vita parevano vicine a disseccarsi, esso non volle pur varcare le porte della città. Cotal servigio non meritava una limosina di grano. Nel campo i suoi ammutinamenti e le sue rivolte, nelle quali spiegava molto valore, non parlavano in suo favore. Le accuse che sì frequenti mosse al Senato, prive di base, fatte non erano per ingenerare quel generoso dono. E ne vedete ora la ricompensa? Come accolse quella vorace moltitudine la benignità dei Patrizi? Leggete nelle sue opere, e vedrete che dicono: Chiesto abbiam, perchè siam dell’ordine più numeroso; accordato ci fu, perchè s’ebbe timore della nostra dimanda. — Così è che noi avviliamo l’onor del nostro Stato; così che imbaldanziamo la villana plebaglia che chiama tema la nostra indulgenza per lei; e fra non molto tale condotta affrangerà le porte del Senato, e darà accesso a vili corvi, che verran per cacciarvi le aquile.
Men. Avete detto abbastanza.
Br. Sì, abbastanza, e troppo.
Marz. No, non tutto dissi; e aggiungerò cosa vera, che attestar si potrebbe con sacramento. Le potenze umane e divine suggellino la conclusione con cui finirò! Da questa doppia autorità, in cui un partito disprezza l’altro, e con giustizia; in cui l’altra insulta senza motivo da ciò; in cui la nobiltà, i titoli, la saggezza non possono nulla determinare che col sì o il no d’una ignorante e cieca moltitudine, risultar debbe l’omissione di mille opere importanti e necessarie, e in breve una trascuranza e una instabilità funeste. Da tale contraddizione perpetua se ne ricava il nulla farsi con senno. Vi scongiuro dunque, voi che avete maggiore prudenza che timore, che amate le costituzioni fondamentali dello Stato, più che non temiate i pericoli d’una rivolta che le cangi, voi che preferite una vita onorevole ad una lunga, e bramate di rialzare con un temperamento ardito un corpo vacillante, di cui senza tal mezzo è inevitabile la caduta; strappate al mostro la sua malefica lingua, nè sia più ad esso concesso di assaggiare una dolcezza che trasforma in veleno. La vostra vergognosa mansuetudine turba il corso e distrugge la saviezza del governo: essa priva lo Stato di quella unità, di quella perfezione di movimenti necessaria alla sua operosità e al suo splendore. Voi non avete potenza di compiere il bene, a motivo del male che vi si oppone e lo combatte.
Br. Ha detto abbastanza.
Sic. Ha parlato da traditore, e subirà il giudizio dei traditori.
Marz. Miserabile! possa l’ira soffocarti. Che bisogno ha il popolo di stolti tribuni? È sovr’essi ch’ei s’appoggia, mancando d’obbedienza all’augusto tribunale dello Stato. Costoro furono scelti fra una rivolta, in un turbamento nel quale la necessità, e non la giustizia, fece la legge. Ora in circostanza più provvida, ciò che giusto è, ritorni la legge, e rovesci la potenza loro nella polvere.
Br. Tradimento palese!
Sic. Costui console? No.
Br. Edili, olà...! impadronitevi di lui.
Sic. Ite a chiamare il popolo, (Bruto esce) in nome del quale io qui lo sospendo, come manifesto avversario, innovator nocivo, e nemico del bene pubblico. Obbedisci: io ti arresto in nome del popolo; seguimi, e preparati a rispondermi.
Marz. Via di qui, vecchio stolto!
I Senatori e Patrizi. Noi gli saremo scudo!
Com. Vecchio, ritira le mani.
Marz. Mi lascierai tu, scheletro infracidito? o vorrai ch’io ti riduca le ossa in polvere?
Sic. Soccorso, cittadini! (rientra Bruto cogli Edili e la moltitudine)
Men. Da entrambi i lati rispetto.
Sic. Ecco un uomo che vorrebbe togliervi ogni potere.
Br. Afferratelo, Edili.
Molti Cittadini. Morte al traditore, morte al colpevole!
2° Sen. Armi, armi, armi! (tutti s’aggruppano intorno a Coriolano) Tribuni, Patrizi, cittadini!... fermatevi... qual follia!... Sicinio, Bruto, Coriolano, cittadini!...
Citt. Silenzio, silenzio, olà! fermatevi.
Men. Che risulterà da ciò? Son fuor di lena. Tutto sta per isconvolgersi. Forza non ho di parlare... Tribuni, Coriolano, fermatevi, contenetevi. Parlate, Sicinio.
Sic. Popolo, ascoltami. Silenzio.
Citt. Udiamo il nostro tribuno, silenzio. Parlate, parlate.
Sic. Voi siete in procinto di perdere i vostri privilegi. Marzio vuol toglierveli tutti; Marzio che nominaste console.
Men. Vergogna, vergogna! Così susciterete l’incendio, prima che estinguerlo.
2° Sen. Sì; ruinerete la città dalla cima al fondo.
Sic. Che altro è la città, se non il popolo?
Citt. È vero; il popolo forma la città.
Br. Col consenso di tutti fummo salutati magistrati del popolo.
Citt. E tali resterete.
Men. Di ciò non vuol dubitarsi.
Marz. Quest’è il mezzo di rovesciar Roma, d’abbatterla sin dalle basi, e di seppellire sotto le ruine tutte le sue speranze.
Sic. Un tal discorso merita la morte.
Br. O sostener dobbiamo intera l’autorità nostra, o indurci a perderla. Qui dunque pronunziamo pel popolo, il cui potere ne ha creati suoi magistrati, che Marzio merita sull’istante la morte.
Sic. Egli è giudicato. Trascinatelo alla rupe Tarpea, e di là precipitatelo.
Br. Edili, impossessatevi della sua persona.
Citt. Cedi, Marzio.
Men. Udite una sola parola; vi supplico, Tribuni, udite una parola.
Edili. Silenzio, silenzio.
Men. Siate, quel che sembrate, gli amici veri della vostra patria; e invece d’usare tal violenza, procedete con ordine e ritegno al giudicio che avete impreso.
Br. Vecchio, coteste vie lente e misurate, che paiono rimedii prudenti, sono funeste allorchè il male è grande. Impossessatevi di lui, e trascinatelo alla rocca.
Marz. No, morirò qui. (sguainando la spada) Ve n’ha più d’uno fra di voi, che m’ha veduto combattere. Venite; sperimentate su di voi se veramente son tale qual mi vedeste dinanzi al nemico.
Men. Marzio, deponete la spada. Tribuni, allontanatevi per brevi istanti.
Br. Arrestatelo.
Men. Fermati, Marzio, fermati — Voi tutti, Senatori, Cavalieri, giovani e vecchi, soccorretelo!
Citt. Morte al traditore! morte al traditore! (segue la mischia, in cui il popolo è posto in fuga dai nobili).
Men. Ite, tornate alla vostra casa, partite, allontanatevi di qui; o tutto sarà stato indarno.
1° Sen. Fuggite.
Marz. Non temete: uguale è il numero de’ nostri amici e dei nostri nemici.
Men. Oh! a tanto estremo verremo?
1° Sen. Gli Dei nol vogliano! mio nobile amico, te ne prego, parti; lascia a noi soli il carico di trattar questa causa.
Men. È una ferita che voi non potete sanare. Ve ne supplico, allontanatevi.
Com. Venite, signore, venite con noi.
Marz. Vorrei che i barbari fossero (come sono, sebbene in Roma abbiano stanza), non Romani; nè Romani possono dirsi, quantunque nati in vicinanza del Campidoglio.
Men. Marzio, partite; non ispandete in vane ingiurìe il vostro nobile corruccio; aspettate tempi migliori.
Marz. Io vorrei solo atterrare quaranta di quei vili.
Men. Io pure ne prenderei per mia parte una coppia dei più avventati; sì, piglierei i due tribuni.
Com. Ma ora, Marzio, mal v’apponete riguardando un caduco vecchio; e il coraggio è stimato pazzia, quando lo si adopera contro cosa che vacilla e cade. Volete ritirarvi di qui, prima che il popolo ritorni? Il suo furore, come folgore sospeso, scoppia alla fine, e atterra tutto che gli si oppone.
Men. Vi prego, partite; vedrò se il mio antico spirito sarà bene accolto da questa moltitudine, che non ne ha molto. Conviene trovar modo per sedare questo tumulto.
Com. Venite. (esce con Marzio)
1° Sen. Egli ha per sempre distrutta la sua fortuna.
Men. Marzio è di natura troppo nobile per il nostro mondo volgare: ei non saprebbe adular Nettuno per ottenere il suo tridente, nè Giove per disporre della sua folgore. La sua bocca è il suo cuore; tutto che il suo spirito concepisce, convien che la sua lingua lo dichiari; e quando è sdegnato, dimentica che esiste la morte.(s’ode gran tumulto) Terribile sommossa!
1° Patrizio. Vorrei che tutti que’ plebei si fossero ritirati alle loro case.
Men. Io invece, che avessero scelto per letto il Tebro. — Vendetta vogliono!... Perchè non parlò ei loro con dolcezza? (rientrano Bruto e Sicinio con la folla)
Sic. Dov’è il mostro che vorrebbe spopolar Roma per imperarvi solo?
Men. Degni tribuni...
Sic. Debb’essere precipitato dalla rocca Tarpea per mano del carnefice. Ei s’è ribellato contro la legge; la legge lo condanna; e, senza concedergli altri esami, debbe fargli sentire tutto il vigore della potenza pubblica, che colui affetta di disprezzare.
1° Citt. Ei non debbe apprendere, che i nobili tribuni sono la voce del popolo, e noi il braccio dei tribuni.
Citt. Ciò vedrà.
Men. Signore...
Sic. Silenzio.
Men. Non bandite la strage là dove gridar non dovreste che giustizia e misericordia.
Sic. Signore, come avvenne che v’adopraste per la sua fuga?
Men. Uditemi. Io conosco tutta la grandezza del console, e non ne dissimulo gli errori...
Sic. Console! qual console?
Men. il console Coriolano.
Br. Egli console?
Citt. No, no, no, no.
Men. Buoni cittadini, se posso ottener dai tribuni e da voi il favore di essere ascoltato, non voglio dirvi che una o due parole, le quali non faran nascere altro danno, che quello della perdita di un istante per intenderle.
Sic. Parlate, ma brevemente, perchè siamo determinati di togliere di mezzo quel vile traditore: cacciarlo di Roma, sarebbe renderlo più pericoloso per noi; soffrirvelo, causerebbe la nostra certa ruina; decretato è ch’ei debba morire stanotte.
Men. Ah! i benefici Dei non permettano che la nostra gloriosa Roma, la cui riconoscenza verso coloro che l’han meritata sta scritta negli eterni libri di Giove, dimentichi se stessa così da divorare, come lionessa selvaggia e snaturata, i suoi figli!
Sic. È nello Stato una infermità che bisogna sanare.
Men. Ma un membro solo dello Stato è malato; tagliarlo sarebbe mortale; guarirlo è facile. Che fece ei dunque per meritar la morte? Il sangue che versò per distruggere i nostri nemici (ed oso affermare che ne ha più sparso che non ne rimanga nelle sue vene) lo versò per la sua patria: se la sua patria spandesse quel sangue che gli resta, sarebbe per noi tutti, che commetteremmo o che soffriremmo tale ingiustizia, una nota d’obbrobrio, che durerebbe finchè durasse l’universo.
Sic. Vane parole.
Br. Discorsi vani. Finchè egli ha amato la sua patria, la sua patria non mancò di colmarlo d’onori.
Sic. Allorchè un membro si infracida e divien nocivo, non si attende più ai servigi che prima prestò, nè a quel che fu innanzi.
Br. Alcuna cosa più non udremo. Correte alla sua casa; strappatelo a’ suoi lari; è a temersi che il suo veleno, essendo di natura contagiosa, non si diffonda.
Men. Una parola ancora. Cotesta rabbia di tigri, allorchè avrà castigo dell’inconsiderata sua foga, vorrà, ma troppo tardi, arrestarsi, e attaccare a’ piedi suoi ceppi pesanti. Ite moderati, per tema che le suscitate fazioni (come molti sonvi che le amano) non rovinino Roma e tutti i Romani.
Br. Se vero fosse che...
Sic. Quai fole ne narrate? Non faceste voi già sperimento della nostra obbedienza? manomessi non furono i nostri Edili? non fummo noi vilipesi e dispregiati?... Andiamo.
Men. Badate ch’egli è vissuto nei campi da che ha saputo trattare una spada, e male istrutto è del linguaggio delle città. Parole rozze e civili ei tutto mesce indifferentemente. Se me lo volete permettere, io andrò a trovarlo, e saprò condurlo alla piazza pubblica, dove gli converrà esplicarsi secondo le formole della legge, a rischio della vita.
1° Sen. Nobili Tribuni, tal via è più ragionevole; l’altra diverrebbe troppo sanguinosa, nè si saprebbe, stampata la prima orma, dove potesse finire il corso.
Sic. Ebbene, venerabile Menenio, siate qui dunque il rappresentante del popolo, e assumetene gl’interessi. Miei concittadini deponete le armi.
Br. Ma non rientrate nelle vostre case.
Sic. Venite a ritrovarci alla piazza pubblica; là vi aspetteremo: e se voi (a Menenio) non ci condurrete Marzio, torneremo! nel primo divisamento.
Men. Lo condurrò. (ai Senatori) Degnatevi d’accompagnarmi. Bisognerà ch’ei ci segua, o accadranno i mali più grandi.
1° Sen. Pregovi, andiamo a lui. (escono)
SCENA II.
Una stanza nella casa di Coriolano.
Entra Marzio ed alcuni Patrizi.
Marz. Quand’anche il dente di tutti quei furiosi mi straziasse il corpo; quand’anche mi presentassero la morte sopra la ruota, o alla coda di cavalli indomiti; quand’anche accumulassero dieci altre rupi sulla Tarpea, e da quella cima l’occhio misurar non potesse tutta la profondità dell’abisso, neppure allora metterei condotta. (entra Volunnia)
1° Patr. A generoso partito v’apponete.
Marz. Penso e veggo con istupore che mia madre comincia a non approvar più le mie opere, ella che soleva chiamare i plebei un gregge di pecore, buoni a comprarsi o a vendersi, non ad intervenire nelle pubbliche assemblee per mostrarvi nude le loro teste, e restarsene colle bocche spalancate allorchè qualcuno dei nostri parla. — Dico di voi, mia madre; perchè mi vorreste più dolce? perchè dovrei smentire il mio carattere? Io tale mi mostro, quale sono.
Vol. Oh signore, signore, signore, vorrei che aveste usato del poter vostro, non abusatene.
Marz. Avvenga che può.
Vol. Avreste potuto mostrare abbastanza qual siete, non ostentando di dimostrarlo. Il carattere vostro avrebbe trovato minori biasimi, se non vi foste tanto adoperato per porlo in luce.
Marz. Maledizione a quei pezzenti!
Vol. E fiamme eterne ancora. (entra Menenio e i Senatori)
Men. Su, su; foste troppo acre, un po’ troppo acre; v’è d’uopo tornare innanzi al popolo, e riparare al mal fatto.
1° Sen. Non v’è diverso temperamento se non volete vedere la nostra bella Roma, vittima del vostro rifiuto, straziata dalle discordie.
Vol. Vi prego, Marzio, accettate questo consiglio; io tengo in petto un cuore che non è molle più del vostro ma ho una testa che sa meglio reggere le mie passioni.
Men. Ben diceste, egregia Romana. Io, piuttosto che vederlo umiliarsi di tanto dinanzi alla moltitudine, se la violenza del momento non lo esigette, come il solo rimedio a cui si attiene la salute dello Stato, vorrei vestire di nuovo l’armatura che ora posso sollevare a pena.
Marz. Che degg’io fare?
Men. Tornare dai Tribuni.
Marz. E innanzi ad essi...
Men. Pentirvi di quel che diceste.
Marz. Per loro? Nol potrei neppur per gli Dei, e dovrò farlo pei Tribuni?
Vol. Siete troppo assoluto, figliuolo, sebbene non possiate avere mai abbastanza di tal nobile fierezza; ma quando la necessità parla... A dir v’intesi che l’onore e la politica, come due amici inseparabili, andavano di buon accordo nelle guerre. Con tal principio, ditemi, quale offesa fa l’uno all’altra in pace, perchè non vadano egualmente insieme?
Marz. Cessate, cessate.
Men. L’inchiesta è savia.
Vol. Se l’onore vi permette di mostrarvi talora nelle guerre quel che non siete, condotta utile a’ vostri interessi e da voi appellata politica, ditemi, perchè sarebbe meno ragionevole o meno onesto che tal politica fosse in pace, come lo è in guerra, compagna all’onore; quand’ella vi si trova egualmente necessaria?
Marz. Perchè m’incalzate con tali dimande?
Vol. Perchè da voi dipende il parlare al popolo, non giusta le vostre opinioni, nè col linguaggio che v’inspira il cuore, ma con termini formati dalla voce sola; sillabe vane che la lingua aduna, e cui disconfessano i sentimenti dell’anima. In ciò non v’ha maggior onta per voi, che non ve ne sia nel prendere una città con dolci e ingannatrici parole, allorchè ogni altro mezzo porrebbe le vostre sorti in pericolo, e costerebbe molto sangue. Dissimulare io saprei quando i miei interessi e i miei amici in pericolo lo esigessero: e in ciò penso come la vostra sposa, il vostro figlio, questi Patrizii e questi Senatori. Ma voi, voi volete piuttosto mostrare una fronte minacciosa al nostro popolo, che accordargli una carezza per guadagnarne l’amore, e prevenire avvenimenti che possono tutto sconciare.
Men. Nobile signora, venite, venite con noi; continuate a discorrere con tanta saggezza; potrete riescir non solo a prevenire le sventure che ci minacciano, ma anche a riparare le perdite del passato.
Vol. Te ne scongiuro, mio figlio, torna innanzi ad essi col capo scoperto e con volto cortese; piega un ginocchio a terra ( perocchè la vera eloquenza col popolo sta più nei gesti che nelle parole), e colla mano atteggiati ad un movimento dolce, che corregga e smentisca l’inflessibile tuo cuore: umile e arrendevole come il frutto maturo, il quale cede alla mano che lo tocca, mostrati innanzi a loro, e di’ che sei quel guerriero che per essi versò il proprio sangue, e che, nudrito fra il tumulto dei campi, non conosci gli insinuanti modi che sai necessari per ottenere il loro favore; ma che farai opera all’avvenire per formare il tuo carattere quale ad essi meglio talenti.
Men. Fate quel ch’ella dice, e tutti i cuori diverran vostri; perocchè sì facili essi sono a perdonare allorchè vengono pregati, quanto sono a spacciare parole senza ragione e senza scopo.
Vol. Te ne scongiuro, va, e sii docile. Io ben lo so, che meglio ameresti scendere col tuo nemico in un burrone infuocato, che adularlo sopra uno strato di fiori. Ecco Cominio.
(entra Cominio)
Com. Riedo dal fôro. È necessario o che v’afforziate, o che cerchiate la vostra difesa nella moderazione o nell’esilio. Il popolo è pieno di furore.
Men. Un’arringa lo calmerà.
Com. Io pur lo credo, se Coriolano vuol pronunziarla.
Vol. Ei lo debbe, e vorrà. Ti prego, mio figlio, di’ che acconsenti, e va a proferirla.
Marz. Dovrò io dunque mostrar loro così la mia calva testa? dovrà la mia lingua smentire vilmente il mio cuore? Ebbene, sia; lo farò. Nullameno, se null’altro si dovesse sagrificar che questo corpo di Marzio, vorrei piuttosto che lo facessero in polvere, e quella gittassero ai venti. Al foro, diceste? Ah! m’avete affidata una parte che non saprò mai recitar bene.
Com. Venite, venite; vi aiuteremo.
Vol. Vieni; ti prego, dolce figlio. Dicesti che le mie lodi t’aveano fatto guerriero; ora, per ottenere da me altre lodi, compi una parte che non avevi per anche fatta.
Marz. Proverò! — Esci dal mio seno, anima nobile e fiera, e cedi il posto allo spirito lasso e versatile di una cortigiana. La mia voce maschia e guerriera, che intronava gli eserciti, divenga debole e tremante come quella di un eunuco, o come la voce di giovinetta che addorme in culla il bambino. Il ghigno degli scellerati ipocriti solchi le mie guancie, e le lagrime dell’imbelle fanciullo m’intenebrino la vista. La lingua supplichevole del mendico guizzi fra le mie labbra; e i miei ginocchi, coperti di ferro, che non mai piegaronsi che sull’arcione, s’inchinino come quelli del miserabile che ha ricevuta l’elemosina. — No, nol farò; o convien che abiuri la mia fedeltà all’onore, o che coi moti e le attitudini del mio corpo insegni all’anima mia la più insigne, la più inesplicabile delle vilezze.
Vol. Ebbene, come vuoi. Più disonorante è per tua madre il supplicarti, che per te nol sia il supplicare il popolo. Vada tutto in rovina: a tua madre più piace di avere un rifiuto dal tuo orgoglio, che di mostrarsi tremante delle conseguenze della tua pericolosa inflessibilità; perocchè io disprezzo la morte con cuore superbo al par del tuo. Fa ciò che meglio stimi. Il tuo valore procede da me: tu col mio latte il succhiasti; ma conserva, il tuo orgoglio; ei non deriva che dal tuo cuore.
Marz. Ve ne prego, calmatevi, madre mia: andrò alla piazza. Non m’opprimete coi vostri rimproveri. Sì, andrò sopra i trespidi a mendicare la grazia del popolo, a guadagnarne i cuori con basse lusingherie; e tornerò da voi delizia di tutti gli scioperati di Roma. Vedete, io vo. Salutate la mia sposa. Io tornerò console; o non credete omai più ai talenti e agli sforzi della mia lingua nell’arte delle adulazioni.
Vol. Fa il senno tuo. (esce)
Com. Venite: i tribuni vi aspettano. Armatevi di moderazione per rispondere con dolcezza; perocchè, da quello che intesi, essi stan preparando contro di voi accuse più gravi di quelle che v’hanno già apposte.
Marz. La mia parola è moderazione. Pregovi, andianne: m’accusino a loro talento con tutta l’arte della frode; io loro risponderò con quanta franchezza sa dispiegare l’onore.
Men. Sì, ma dolcemente.
Marz. Teneramente ancora, se così volete. (escono)
SCENA III.
Il Fôro.
Entrano Sicinio e Bruto.
Br. Accusatelo d’aspirare alla tirannide. S’ei ci sfugge da questo lato, rimproverategli l’odio che ha contro il popolo, e il non essersi mai distribuite le spoglie degli Anziati. — (entra un Edile) Ebbene, verrà?
Ed. Ei viene.
Br. Chi l’accompagna?
Ed. Il vecchio Menenio, e i senatori che l’han sempre sostenuto col loro credito.
Sic. Notaste i voti che avremo in nostro favore?
Ed. Eccoli.
Sic. Li collocaste per tribù?
Ed. Ciò feci.
Sic. Ora adunate il popolo su questa piazza; e quando esso m’udrà dire: Così è statuito pei diritti e per l’autorità del popolo, allora si parli di morte, d’ammenda o d’esilio: faccia essa eco alla mia proposta, e difenda i suoi antichi privilegi, e l’autorità che in lui risiede per decidere siffatte cause.
Ed. Questo dirò.
Br. E dacchè incominciati saranno i clamori, non più cessino finchè lo strepito delle voci non abbia fatto porre ad esecuzione la sentenza che, secondo le circostanze, avrem pronunziata.
Ed. Tutto è detto.
Sic. Ognuno sia presto a compiere il nostro decreto.
Br. Andate, e siate cauto. (l’Edile esce) Cominciate dall’irritar la sua collera (a Sic.): egli fu avvezzo a vincer sempre, e non soffre contraddizioni. Una volta sdegnato, nulla potrà ridurlo a moderanza: ei farà conoscer tutto quello che gli ribolle nel cuore; e ciò che è nel suo cuore va di concerto con noi per operare la sua ruina. (entrano Coriolano, Menenio, Cominio, Senatori e Patrizi)
Sic. Bene sta; eccolo appunto.
Men. Moderazione, ve ne scongiuro.
Marz. Sì, quanta ne ha uno sgraziato ostiere, che per la più vile moneta udrà le inesauribili ciancie d’un ubbriaco. — I santi Dei conservino Roma; pongano essi sui seggi della giustizia uomini dabbene; intrattengano l’amore fra di voi, e riempiano i nostri vasti tempii dei profumi della pace, non le strade nostre degli orrori della guerra.
1° Sen. Gli Dei vi esaudiscano.
Men. Nobile e bel desiderio! (rientra l’Edile coi cittadini)
Sic. Avvicinati, popolo.
Ed. Badate ai vostri tribuni; uditeli: silenzio, dico.
Marz. Udite me prima.
Entrambi i Tribuni. Ebbene, dite. — Silenzio, olà!
Marz. È egli vero che, dopo questa volta, non sarò più accusato? Termineranno qui le vostre persecuzioni?
Sic. Vi dimando io, se vi sottomettete ai suffragi del popolo, e riconoscete gli ufficiali suoi, se acconsentite a subire un giusto processo pei falli di cui sarete provato colpevole...
Marz. Sono contento.
Men. Vedete, cittadini; dice che è contento. Considerate quali servigi egli abbia resi; ricordatevi delle ferite di cui il suo corpo è coperto; solcato n’è come un cimiterio lurido di fosse.
Marz. Lievi cose; poche scalfitture, cicatrici da celia.
Men. Ricordate ancora, che se in lui non troverete il forbito linguaggio d’un abitatore della città, troverete lo schietto carattere d’un guerriero. Non cercate nei duri accenti della sua voce alcuna intenzione di offendervi: quel tuono, vel dissi, s’addice ad un soldato. Piuttosto che odiarlo, dovete.....
Com. Basta, basta; non più.
Marz. Qual è la ragione per cui, nominato console con tutti i voti, mi si fa l’onta di togliermi il consolato un’ora dopo?
Sic. Rispondeteci.
Marz. Parlate; sì, ben dite, io vi debbo rispondere.
Sic. Noi vi accusiamo d’aver sordamente macchinato per abbattere in Roma tutte le antiche autorità, e d’esservi per vie fraudolente incamminato alla tirannide: per ciò siete dichiarato traditore del popolo.
Marz. Io! traditore?
Men. Moderatezza, moderatezza... la vostra parola...
Marz. Le fiamme del basso inferno investano il popolo! Chiamar me traditore!..... Insolente tribuno, quand’anche gli occhi tuoi, le tue mani, la tua lingua vibrar potessero contro di me ognuna diecimila folgori, diecimila morti, pur ti direi che menti con voce così libera, come quella che adopero a propiziarmi gli Dei.
Sic. L’odi tu, popolo?
Citt. Alla rupe il traditore! alla rupe, alla rupe!
Sic. Silenzio. — Bisogno non abbiamo di muovergli altre accuse: ciò che far lo vedeste, ciò che lo udiste dire, l’insolenza sua nel percuotere i vostri magistrati, nell’avventarvi imprecazioni, nel combatter le leggi colla violenza, nel disprezzare qui ancora l’assemblea, la cui rispettabile autorità debbe giudicarlo; tutti questi fatti sono tanto rei, che ad essi è pena adeguata solamente la morte.
Br. Risguardando però agli utili servigi da lui resi a Roma...
Marz. Che parli tu di servigi?
Br. Parlo di ciò che so.
Marz. Tu?
Men. È questa la promessa che faceste a vostra madre?
Com. Ve ne prego, pensate...
Marz. A nulla penso omai. Mi condannino a morire precipitato dalla rupe Tarpea, o ad errare in esilio, o a languir prigioniero con un granello di frumento ogni dì, non comprerò la grazia loro a prezzo d’una sola parola di dolcezza; nè, per quel che potessero darmi, soffocherò l’ira nel mio cuore, no, quand’anche per cattivarmeli non convenisse dir che buon giorno.
Sic. Per avere in differenti occasioni, e finchè dipese da lui, mostrato il suo odio contro il popolo, cercando i mezzi di spogliarlo della sua autorità; per avere non ha guari ancora percosso, rompendo ogni freno e ogni rispetto alle leggi, i ministri della giustizia; in nome del popolo, e in virtù del potere che ci fu conferito nella nostra qualità di Tribuni, noi l’espelliamo fin da questo momento da Roma, sotto pena d’essere precipitato dalla rupe, e lo condanniamo a non mai più rientrarvi. In nome del popolo dichiaro che questa sentenza sarà eseguita.
Citt. Sarà, sarà; sen vada di qui; egli è bandito; deve andare in bando.
Com. Uditemi, miei amici; non v’incresca udirmi.....
Sic. È condannato; vano ogni altro discorso.
Com. Lasciatemi parlare: fui console e posso mostrar sopra di me le margini che ricevei difendendo Roma da’ suoi nemici. Amo la mia patria d’un amor più tenero, più rispettoso, più sacro di quello che porto alla mia vita, o alla mia sposa, o al frutto delle sue viscere e del mio sangue; nondimeno s’io vi dicessi...
Sic. Conosciam le vostre arti: pure che direste voi mai?
Br. Non v’è più nulla a dire; egli è bandito come nemico del popolo e della patria; la sentenza è pronunziata.
Citt. È pronunciata, è pronunciata.
Marz. Cani di cui abborro il guaire, come le esalazioni contagiose d’una palude appestata; il cui amore apprezzo come la carogna d’un uomo privo di sepoltura; l’alito vostro infetta l’aere che respiro; io vi bandisco da me, e vi condanno a restar fra queste mura in preda alla vostra volubilità. Possano ad ogni istante vani rumori agitarvi; possano i nemici vostri, col solo movimento de’ loro cimieri, immergervi nella disperazione! Abbiatevi sempre la potestà di espellere i vostri difensori, finchè la cieca vostra stoltezza, che non discerne i mali che quando li sente, lasciandovi soli coi vostri più grandi nemici, cioè voi stessi, v’abbandoni quasi vili cattivi a qualche nazione che v’assoggetti senza snudare la spada. Disprezzando, mercè vostra, la mia patria, io volgo il dorso... Il mondo è anche altrove. (esce insieme con Cominio, Menenio, coi Senatori e Patrizi)
Ed. Il nemico del popolo fugge.
Citt. Il nemico nostro è bandito! è partito! oh! oh! oh!....
(gridando e gettando all’aria i berretti)
Sic. Ite; inseguitelo finchè sia fuor delle porte; accompagnatelo con quel disprezzo con cui egli venne qui; bistrattatelo, opprimetelo colle vostre ingiurie, accordateci una scorta che ci accompagni per le vie di Roma.
Citt. Venite, venite; vediamlo uscir delle porte. Preservino gli Dei i nostri nobili Tribuni! Andiamo. (escono)