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II.
Quando rientrò nella sua camera, Marcello Sangiorgio serbava sempre il suo freddo contegno inglese. Ma appena la porta fu rinchiusa, una orribile convulsione di collera gli attraversò il volto, scomponendolo da cima a fondo. Strappò con le dita tremanti la cravatta ed il goletto. Soffocava. Seduto presso la scrivania, immobile, in una posizione forzata e dolorosa, coi gomiti fortemente puntati sul legno senza provarne l’intormentimento, le tempia serrate fra i pugni chiusi, si vedeva solo l’angolo delle labbra che tremava allo stringimento dei denti. Non singhiozzava, non piangeva, non sospirava: la sua collera, lungamente vinta, rimaneva ora condensata, fiera e sdegnosa della libera via dell’espansione.
Ora egli combatteva a voler dominare il suo pensiero che gli sfuggiva: quando per un istante riusciva ad afferrarlo, il pensiero se ne vendicava, trascinandoselo dietro, per un laberinto inestricabile di idee indifferenti, di idee inutili, di impressioni lontane e disparate; e del momento presente, così angoscioso, perdeva la conoscenza esatta, restandogliene solo l’angoscia. Ed i ricordi che ritornavano, le impressioni che si riproducevano, avevano tutte un punto tormentoso e desolato. Una scena d’infanzia gli riviveva nella mente e, scacciata, riappariva con una insistenza che rassomigliava alla fissazione. Da bambino era stato violento e testardo nei suoi desiderii. Un giorno, una sua piccola amica, una bambinetta capricciosa, per uno strano ghiribizzo, aveva rifiutato di giuocare con lui. Egli l’aveva pregata due o tre volte, promessole un fiore, un confetto, una bambola; ella, incaponita, ancora a dir di no. Egli batteva i piedi a terra, gridava, diventava rosso per la rabbia, pareva che il sangue volesse soffocarlo: con un urto brusco aveva respinta la fanciulletta, che era caduta di peso e si era rotto il cranio. Provava un’altra volta il terrore di quella scena: il silenzio tetro di quella stanza, la bambina distesa a terra, svenuta, bianca, e, al piccolo gorgoglio del sangue che usciva, un ricciolino nero che si agitava. Aveva avuto paura, paura per quella faccina smorta, per quel tappeto che si macchiava, per la testolina infranta che avrebbe voluto risaldare con gli occhi; tanti anni erano trascorsi, molti anni, ed egli si desolava ancora per quel ricciolino nero che si muoveva, lambito lievemente dal sangue che gorgogliava. Era quello il punto doloroso del passato. Quello: un altro il presente. Beatrice... Beatrice. Chi era Beatrice?
Nel breve e rigido pomeriggio invernale, sotto i nudi alberi della Villa Nazionale, l’aveva veduta la prima volta. Ella era vestita di verde cupo; nella pelliccia di volpe russa che guerniva l’abito, brillavano dei fili argentei; una mano reggeva il pesante strascico e l’altra portava aperto l’ombrellino di seta nera, dando a quella testa uno sfondo bruno dove il sole invernale metteva una sabbiolina luminosa, simile al campo d’oro di certe madonne antiche. La fanciulla camminava accanto al padre, con un passo eguale, quasi ritmico, guardando con i suoi grandi occhi, che avevano il freddo fulgore dell’acciaio, ora l’orizzonte, ora un albero, ora un bambino, senza alcun interesse, ma senza noia; salutando gli amici, sorridendo a qualche amica, scambiando qualche parola col padre, con un bel movimento del capo e delle labbra. E poi? Nulla. Il pensiero si smarriva da capo. Egli rammentava invece i suoi folli amori di giovanotto, amori dal fuoco alto e rapido, simpatie irresistibili, passioni furiose e brevi, dove aveva gittata l’espansione della sua indole affettuosa, dove aveva soddisfatta la necessità di gioie clamorose e di larga felicità che era nel suo temperamento: sentiva ancora i sottili profumi delle treccie disciolte, le voci profondamente commosse, le parole interrotte, i singhiozzi deliranti, il tocco lieve della mano che fa fremere; ma non poteva rievocare un solo di quei volti. Faceva sforzi grandissimi di attenzione, si volea fissare sull’idea dei capelli biondi, delle bocchine ridenti, delle guancie colorite dall’amore, ma inutilmente; in quell’istante la sua fantasia sognava le onde brune e senza riflessi, la fronte egiziana e taciturna, l’arco misterioso delle labbra di Beatrice.
Per lei, dopo una sorda irritazione, era nata in lui un’antipatia irragionevole, forse tutta fisica. Se la incontrava per la via, nel suo momento più gaio, gli allegri pensieri si sbandavano, e gli sorgeva nell’animo un senso di fastidio. Con quella specie di malsano piacere che è la traccia irritante di tutte le cattive impressioni, egli la ricercava dappertutto. Al teatro isolava quella figura nelle lenti del suo occhialino e la guardava, sino a che gli danzassero davanti agli occhi abbaglianti quelle farfalle luminose, dorate, rosse e verdi, che affascinano e addolorano; al ballo le sedeva daccanto, la punta del piede sotto lo strascico di stoffa e di trine, e le parlava, dicendole delle stupidaggini complimentose, mentre un lento brividìo gli montava al capo. Talvolta ballavano insieme. Una notte, in un valtzer, ebbe la stravagante idea che quella fanciulla semplice ed inconscia, che lo guardava con tanta sicurezza, gli avesse fatto bere un filtro: gli venne l’irresistibile desiderio di soffocarla nelle sue braccia. Egli era un gentiluomo di alta nascita, la sua natura era buona e generosa, ma avrebbe goduto lungamente a vederla soffrire, avrebbe goduto a vedere scomposto quel volto corretto ed inanimato.
— Vuoi tu sposare Beatrice Revertera? — chiese un giorno a Marcello suo zio.
— Sì! — egli gridò, balzando dalla sorpresa, ma pronto nella risoluzione.
In fondo lo pungeva un’acre curiosità di conoscere meglio la fanciulla; si ostinava a supporla molto diversa dalla sua apparenza, e immaginava un segreto, una storia nascosta: sarebbe il fidanzato, sarebbe diventato il marito: la bella sfinge gli avrebbe detta la parola dell’enigma. Invece, no. Beatrice nulla aveva di segreto, Beatrice non era una sfinge. Lo accolse con franchezza, con disinvoltura, rimanendo sempre la stessa, nel suo piacevole carattere, senza variazioni brusche, amabile e sorridente il mattino, amabile e sorridente la sera.
Allora la sua ripulsione, la sua antipatia si accrebbe, s’inacerbì: quella inalterabilità pacifica presso cui si raffreddavano gentilmente i trasporti di qualunque sentimento, quella serena apatìa che disarmava ogni entusiasmo, lo sdegnavano; a volte gli pareva simulazione e se ne offendeva, a volte gli appariva realtà e se ne offendeva maggiormente. E lo sdegno celato sotto una forma di cortesia e di compitezza che Marcello vedeva necessario di adottare, questo sdegno si mutava in odio istintivo, irragionevole, nascosto e cauto nella sua ferocia, fuoco liquido di cui non si riversava una goccia di fuori. Quando la lasciava, dopo due o tre ore trascorse presso lei, trascorse in una conversazione futile, vuota, in cui Beatrice rimaneva eguale a sè stessa: quando la lasciava, scompariva il gentiluomo, restava l’uomo inasprito, irritato, spinto all’ultimo punto della pazienza. La natura selvaggia, brutale, sopravvinceva e quasi lo soffocava. Avrebbe voluto scoppiare in grida, in singhiozzi, bestemmiare, urlare, ficcarsi le unghia nel petto e dilaniarlo, rotolarsi per terra come un indemoniato, per cacciar via quel tormento, quell’odio. Fremeva nel desiderio di spezzar fra le mani qualche cosa di molto resistente, e che facesse un grande rumore; avrebbe voluto spezzare la sua testa contro il muro, pensando con delizia all’orribile scricchiolìo del cranio infranto, al dolore atroce che avrebbe provato. Così la sua febbrile fantasia, errando senza guida nel passato, lo aveva ricondotto al presente, in una delle sue crisi furiose.
Dovette alzarsi: passeggiò in lungo nella camera per dare con quel moto regolare un po’ di calma all’orgasmo dei suoi nervi. Andò alla finestra spalancata: nella notte alta il plenilunio scintillava, l’orizzonte si perdeva in una nebbia molto chiara; in quell’apparenza benigna delle cose, egli solo si sentiva riboccante di odio per una debole creatura umana, egli solo nutriva spaventosi progetti, egli solo era ridicolo nella sua anima tragica. Nella villa daccanto, un verone a terreno è aperto, una figura di donna si piega a parlare con un uomo che è in giardino. Sono due innamorati quelli. Si baciano, forse. Marcello ebbe uno stridente riso d’ironia per quei due, ma il sogghigno gli morì sulle labbra.
— E se quest’odio fosse amore?
Una subita tenerezza lo assalì alla gola: una dolcezza gli rimontò agli occhi in forma di lagrime; non ne versò, ma parve che lo inondassero tutto ed assorbissero tutto il fiele del suo spirito. I nervi tesi e frizzanti si riammollirono, chetando a poco a poco le loro vibrazioni, il sangue sembrò rinfrescato, le membra caddero in un languore che somigliava al sonno, mentre un velo bigio scese ad involgere la fantasia, come nei teatri scendono le nuvolette a celare il cambiamento di scena; e lentamente, in un giro che si allargava e si perdeva, la mente si assopì nella domanda:
— E se quest’odio fosse amore?
Mario Revertera leggeva prima di addormentarsi. Ma nella sua camera regnava già il riposo della notte; essa sonnecchiava prima ancora che il padrone dormisse. Chiuse le imposte e calate le cortine bianche, nulla si sapeva di dentro del chiarore lunare, del mare, nulla si sarebbe saputo del lieto risveglio mattinale: il mondo esterno era escluso. Le seconde cortine di stoffa avana pallido, orlate da una lunga striscia marrone, sciolte dai bracciuoli di cordonetto ad arabeschi, cadevano a terra con pieghe stracche; le poltroncine molto basse, dalle forme sdraiate e voluttuose, erano riunite intorno al tavolino, in semicircolo, con un’aria di raccoglimento riflessivo, preparandosi, per l’indomani, a sbandarsi per tutte le parti; nella piccola libreria s’immergevano nell’ombra gli autori favoriti: Voltaire, Cervantes, Darwin, Balzac; nessun poeta, nessuno scrittore italiano. Le figurine cinesi del largo parafuoco, destinato a nascondere un caminetto che non si accendeva mai, dormivano coi loro corpi smarriti nelle fluenti pieghe degli abiti rossi e gialli, in quelle pose strane, la testa ad ovo, le sopracciglia arcuate, gli occhi tirati verso le ciglia con un’aria di perenne meraviglia, i piedini brevi e raccolti; sul caminetto, sulla mensola, gli oggettini d’arte, arte graziosamente rotonda, tutta moderna, carezzevole, di fuorivia, avevano scelta la loro posa per le ore notturne; in un angolo oscuro e dimenticato dormiva da anni uno scrigno pieno di quelle lettere d’amore che segnano il primo pentimento, di ciocche di capelli, ricordo degli antichi incantesimi latini, di nastri gualciti, di guanti strappati, di fiori secchi dall’odore già vecchio, di tutte quelle cose che hanno toccato il volto, il collo, il braccio, le labbra, il corpo dell’amata e che intanto debbono parlare della sua anima. Si respirava nell’aria uno di quei profumi che le donne orientali bruciano nei loro appartamenti, profumi penetranti che assopiscono: verso il soffitto una nuvoletta biancastra si dileguava in strie sottili; sul tavolino dove era il lume, presso il letto, un grande bicchiere pieno d’una bevanda verde-opalina dove nuotava un pezzo di ghiaccio trasparente. A capoletto c’era stato una volta un ritratto ovale, quello di Luisa Revertera, la moglie di Mario; dopo la morte di lei, Mario l’aveva fatto togliere di là; sul parato dove era stato il quadro, si disegnava un ovale sbiancato, dove sembrava apparisse il volto della morta, volto senza sguardo, semplicemente pallido.
Ma nel sonno che se la prendeva, la camera rassomigliava tal quale a chi l’abitava. Erano dappertutto le traccie di quel temperamento nervoso, squisito, innamorato delle sensazioni eccezionali; in ogni angolo la rivelazione di quella esistenza aristocratica, raffinata; da per tutto le tracce di quello spirito medio, scettico, disdegnoso di poesia, incapace di grandi e di piccole azioni, arido, superbo, contento di sè, soddisfatto nella soddisfazione del proprio ed unico interesse.
Dopo poco il lume era spento: Mario Revertera dormiva nella sua camera, dove alitava il soffio del suo grazioso egoismo.
— Giulio, dammi la mia boccetta — disse Amalia.
Il marito, ritto presso il balcone, batteva sui vetri, con le unghie della mano bianca come quella di una donna, la marcia dell’Orfeo. Mentre sua moglie terminava la sua lunga acconciatura da notte, egli guardava Napoli, la sua Napoli, la Napoli elegante e gaudente che vive nelle tre vie di Toledo, di Chiaia e della Riviera, ed in uno spazio così ristretto accumula quei tentativi di lusso, di piacere, di corruzione, che la possono veramente far rassomigliare ad una grande città. Alla domanda della moglie egli si strinse lievemente nelle spalle e le diede una boccetta di cristallo smerigliato, dove i sali inglesi parevano rinchiusi in una brillante prigione. Amalia fiutò a lungo, con la testa buttata indietro sulla spalliera della poltrona, mentre la cameriera, inginocchiata davanti a lei, le sbottonava delicatamente uno stivalino.
— Mi sento male, male, male — prese a dire Amalia, col tono piagnoloso di un bambino che tormenta i grandi per essere compatito — ho dei dolori qui, nel petto, e oggi ho tossito due volte. Quest’aria mi farà morire.
— Ritorniamo a Napoli? — chiese Giulio, e gli si dipinse sul volto un desiderio intenso, che rianimava la sua molle ed indolente fisionomia.
— Io rimango qui — rispose Amalia irritata.
— Per quello che siamo venuti a fare... — aggiunse Giulio vagamente.
— A stare con Beatrice, a conoscere il suo fidanzato, signor mio.
— A vederli far l’amore — disse Giulio ridendo.
— Non s’amano, Giulio — rispose Amalia con una afflizione nella voce.
— Tanto meglio.
— Come?!
— Niente, cara.
Serafina, la cameriera, ascoltava la piccola disputa senza parer di udirla, camminando piano nella camera, compiendo le sue piccole operazioni, senza chiasso, con una misurata parsimonia di movimenti, una leggerezza d’ombra. Ora infilava ad Amalia le pianelline di velluto rosso, ricamato a stellette d’argento, col becco aguzzo e rialzato in su, senza tacco, senza tallone. Alla caviglia la pelle rosea del piedino appariva attraverso la finezza della calza di seta bianca. Giulio aveva preso un giornale di mode e leggeva la descrizione di un abito da caccia. Amalia fece dondolare la pianella, poi con voce carezzevole:
— Giulio?
— Eh?
— Ti ricordi quelle scarpette di cuoio gialle e quelle calze color polvere, che io portava tre anni fa, a Belvedere?
— No, cara.
— Ci amavamo allora. Del boschetto, neppure te ne ricordi?
E lo guardò con un riso muto e malizioso di tutto il volto. Era seducente, sdraiata nella poltrona, nei merletti del suo accappatoio, coi capelli biondi disciolti, in cui Serafina passava il pettine con grande calma. Giulio venne a sedersi presso di lei, scherzando con una delle sue manine, toccandole lievemente il braccio nella manica larga, strisciando le dita sulla pelle rasata, mentre Amalia rideva a colpettini, pel solletico. Serafina aspettava nella penombra, taciturna, tenendo sul braccio l’abito smesso della sua padrona.
— Hai dei foglietti da scrivere? — chiese dopo un momento Giulio, quasi distratto.
— Ne ho, ma con le mie iniziali. A chi scrivi?
— A Roberto Giordano, per un affare del Circolo — rispose Giulio con noncuranza, lasciando cadere il discorso.
Serafina aveva fatto un altro giro per la camera, aveva dato una buona notte a voce bassa e si era ritirata. Giulio scriveva, voltando le spalle alla moglie; Amalia aveva osservato se gonfiavano bene le pieghe del suo accappatoio; poi si era ricordata delle orazioni: seduta sull’orlo del letto, con le mani abbandonate lungo la persona, essa le balbettava, guardando una Madonnina col bambino, una Madonnina bella e buona. D’un tratto ella si risovvenne della serata, della sorpresa provata, dello strano romanzo che entrava novellamente nella sua vita. Con una rapidità fantastica, ella vi creò su un seguito di capitoli precipitosi e drammatici che finivano ad una catastrofe paurosa. Tutta accesa in volto, ansiosa e palpitante, ella fissava gli occhi nel vuoto, seguendo il volo della fervida immaginazione: fece un gesto energico e disperato con le braccia verso il marito, poi si guardò nello specchio per vedere se rassomigliava a Virginia Marini nella Straniera di A. Dumas.
Giulio intanto scriveva: «Non ridere, cara Titina, brunetta mia, se vedi le iniziali di mia moglie...»
La penna scorreva rettamente, da un capo all’altro del foglio, fra le dita di Beatrice, lasciandosi dietro un caratterino sottile, lungo, eguale, dalle sfumature molto fini. La luce della lampada, moderata da un grande paralume azzurro, lasciava cadere un circolo luminoso sulla scrivania: vi brillava il coperchio d’oro del calamaio aperto, prendeva una tinta giallina il foglietto di carta inglese, rifulgevano a sprazzi le gemme della sicura mano, dalle unghie troppo rosee, che compiva il suo lavoro con tanta esattezza. A volte, quando Beatrice chinava la testa, entrava in luce il basso del volto, solo il mento, o il mento e la bocca: il resto rimaneva nella penombra. Con quella linea decisa, senza gradazioni, che segnava il limite fra l’ombra e la luce, quel volto mezzo chiaro, mezzo oscuro, rassomigliava più che mai a quelle teste di sfingi, silenziose e belle nel loro puro granito.
Ella aveva già scritto tre lettere. Come ne finiva una, ci versava su la sabbia, soffiava, piegava il foglietto in due senza rileggere, lo metteva nella busta e vi scriveva rapidamente l’indirizzo. Trovava, quasi senza cercarla, la frase lucida e breve che rendesse il suo pensiero; andava diritto al suo scopo senza oziare per la via. Aveva scritto alla sua sarta per farle affrettare la consegna dei due ultimi abiti che dovevano completare il suo ricchissimo corredo: quello di nozze e quello da viaggio. Aveva scritto alla sua maestra di pianoforte, ringraziandola delle sue cure, inviandole un dono grazioso, pregandola a ricordarsi di lei. Aveva scritto alla sua matrina, la marchesa di Monsardo, per annunziarle che il giorno stabilito era proprio il venti, e che suo padre, don Mario, aveva affrettate le nozze. Sempre, dappertutto, una frase tornita, graziosa, placida come lo spirito di colei che l’aveva dettata. Ora scriveva al maggiordomo di casa Revertera, a Napoli, per avvisarlo che tra una settimana sarebbero discesi in città per i preparativi degli sponsali.
Ad un tratto, con un moto lento e cauto, posò la penna. Curvò la testa sul petto ed entrò così tutta nel cerchio luminoso della lampada; aveva gli occhi sbarrati, le nari dilatate, ma immobili, le labbra secche, strette, tutte le linee indurite, quasi tese; in tutto il volto una attenzione rinserrata, condensata, quasi dovesse cogliere il lontanissimo, l’impercettibile fra i rumori. Non osava muoversi, non osava gridare: il pallore della paura le saliva dal collo alla fronte. Poi, poco a poco, cedette lo sforzo dell’attenzione, il volto andò man mano riprendendo la sua serenità olimpica, una sicurezza quasi gaia lo colorò, lo ricompose nella purezza della sua espressione: ridiventando così la bella e solita Beatrice Revertera che si occupava pacificamente dei fiori, degli arazzi, degli abiti che servivano alle sue nozze.