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III.
Da principio tutto quel bianco del gran salone pareva freddo. Sulle mensole, sui tavolini, in ogni angolo vuoto si espandevano i grandi mazzi di rose bianche, di gardenie, di camelie bianche primaticce, di giunchiglie, di mughetti, di fior d’aranci: una fioritura enorme e tutta candida. Ogni tanto un circolo sottile, una linea quasi invisibile di verde che vi affogava, scompariva. Con lo stucco bianco delle porte e delle finestre, il damasco giallo oro a grandi fiori di seta bianca, il salone prendeva un aspetto virginalmente nevoso, qualche cosa di giovanile, di rigido e di puro nel medesimo tempo. Ma quando i quattro balconi che danno sulla Riviera furono spalancati, lasciandovi entrare la mattinata di autunno, lentamente il salone si destò, si riscaldò; allora il bianco-giallo delle gardenie, il bianco appannato delle rose, il bianco vivido e sfolgorante delle camelie, tutte le gradazioni del candore si distinsero, si staccarono. Qua e là risaltava il tono caldo, quasi indorato delle giunchiglie; un gruppo di mughetti pareva delicatamente scolpito nell’avorio; i mazzetti dei fiorranci parevano fusi nella cera, quasi dovessero liquefarsi ad un fiato. E gli arabeschi cremisi del tappeto di velluto bigio, accesi dal sole, riflettevano, sui fiori abbassati, un’ombra rosea; giusto una grande rosa incappucciata si tingeva di quel riflesso, rassomigliando stranamente di profilo alla guancia riscaldata di una donna.
Ad un capo del salone un tavolino. Sovr’esso posato un librettino elegante, civettuolo, legato in lucida pelle azzurra, con le lettere di argento sul dorso; accanto un librone nero, col dorso di cartapecora, col taglio sporco, consunto agli angoli, donde appariva la cartapesta dell’anima di cartone, un registro rozzo, il quale portava le tracce di tante mani diverse, che lo avevano aperto e brancicato. Accanto al tavolino una mensola ovale, dove sulla lacca posavano gli scrigni piccoli, grandi, ovali, a cuore, in pelle bruna, in raso, in seta, gli scrigni che contenevano i gioielli di Beatrice Revertera, i doni del padre, della madrina, dei parenti, il corredo di quelle pietre belle, fredde ed inutili, che le donne amano tanto. Verso le undici, la fanciulla era venuta a visitare il salone in compagnia del maggiordomo, approvando col capo le spiegazioni che egli le dava, sostando a tratti, consigliando qualche lieve cambiamento, leggendo alcune lettere di augurio che tirava fuori dalle grandi tasche del suo abito di cascimirro; poi aveva fatto chiamare suo padre.
— Ti pare che vada tutto bene, padre mio? — chiese ella.
Egli inforcò l’occhialino, guardò dattorno, fiutò l’aria: parve soddisfatto.
— A meraviglia, Beatrice. Sei stata nella cappella?
— Vi sono stata; tutto è in regola laggiù.
— Benissimo. È per l’una, nevvero?
— Sì, per l’una. Anzi ti chieggo permesso: vado a farmi vestire; — e si avviò.
— Ascolta, Beatrice — disse Mario Revertera.
Ella si voltò, ritornò. Sorrideva finemente. Il padre la guardò con freddezza, quasi le volesse chieder conto di quel sorriso.
— Marcello Sangiorgio ha inviato il suo dono di nozze, dei brillanti. Sono nella mia camera. Pensa di mandarli a prendere, per farli aggiungere qui, in salone, agli altri gioielli esposti.
— Ora manderò Marietta. A rivederci, padre mio.
Ed ella se ne andò con lo stesso passo leggiero e cadenzato, con la medesima disinvoltura con cui egli fece una giravolta e rientrò nel suo appartamento per terminare una rivista di conti con l’intendente.
D’un tratto le porte si spalancarono. Gl’invitati tornavano dalla funzione religiosa, entravano nel salone per assistere al matrimonio civile; poco a poco lì dentro si riuniva tutta l’aristocrazia napolitana, la bianca e la nera, questa diminuita molto di numero, ma ancora fiera ed ostinata nella sua vecchia fedeltà alla vecchia dinastia; quella numerosa, giovane, sempre crescente, baldanzosa: tutta l’aristocrazia napolitana, i vecchi ed illustri nomi che rimontano ai Sedili e quelli che hanno solo trecento, duecento anni di nobiltà. Era lì la principessa di Massenzio, il tipo fisico e morale della nobile napolitana, alta, snella, dal profilo purissimo, dai capelli neri e ondulati, dall’aria giovanile, malgrado i quarantacinque anni, chiacchierina, bonaria, innamorata del suo primo, poi del suo secondo marito, innamorata dei suoi figliuoli, naturalmente virtuosa – era lì la vecchia duchessa di San Demetrio, una rovina di sessant’anni, dipinta di bianco, di rosso, di nero, con le rughe che apparivano, malgrado ogni sforzo, con gli occhi ancora ardenti di vanità e di piacere in quel volto sepolcrale, carica di gioielli, con un abito troppo ricco pel suo corpo sfasciato — la principessa di Celano, bianca, fresca, con una bocca troppo piccola e sempre sorridente, malgrado il suo matrimonio di amore con un bellissimo principe che l’amava, la tormentava con la gelosia e la tradiva giorno per giorno con femmine stupide e brutte — la principessa di Brancaccio, un portamento regale, ma dissimulato in una grazia espansiva, un volto dalle linee pure, invecchiata da una passione unica, una passione cambiata poi in un misticismo profondo e convinto, che ingialliva il caldo pallore di quel viso, smorzava in roseo appannato il rosso vivo delle labbra — la duchessa della Mercede, una spagnuola, magra, alta, dalle labbra sottili, dagli occhi di carbonella, diritta e fiera nei suoi merletti stupendi, col contegno rigido di una virtù impeccabile per natura, implacabile pei falli altrui — la duchessa Della Marra di Alliano, biondo-cenere, col volto troppo fresco di una donna cinquantenne che non ha avuto figli, e sulla fronte la malinconia di una razza nobilissima che si estingue, il cruccio lento e continuo di una vita sterile — la duchessa di Mileto, una vedova di ventotto anni, severa, malgrado le lusinghe dei capelli castani e i ricci da giovanetta, cui sembra veder apparire nei ridenti occhi il terrore di un corpo sfracellato, quello del giovane marito che si era suicidato — la principessa di Montefermo, una sassone già vecchia che si tingea in giallo i capelli grigi, che prendeva ancora le arie sentimentali del suo paese, che vestiva di bianco la figliuola e non la maritava per farsi credere più giovane — la principessa di Giansante, brutta, con un naso adunco, sempre bizzarramente acconciata, intelligente, spiritosa, maligna, cattiva e seducente — la duchessa D’Alemagna, primissima nobiltà napolitana, con quindici titoli, senza feudo, di una famiglia quasi reale, rovinata, ma con l’aria splendida e soddisfatta di una buona madre che ha saputo maritare riccamente le belle figliuole senza dote — la contessa Filomarino D’Anchise, alta, robusta, dalla bellezza opulenta e soda, dai grandi occhi giunonici, che si consolava, in un lusso sfrenato, di sua cognata che le aveva tolto l’amore di suo marito — la contessa Aldemoresco, una zingarella dalla pelle dorata, piccola e magra, che manifestava la sua razza slava nell’amore degli ornamenti chiassosi, nello sfrontato abito rosso che indossava — la Varderhoot, di nome olandese, ma italiana, sposa di un anno, venti volte milionaria, un po’ stramba col suo visetto da cagnolino, vestita semplicemente di lana grigia, con due enormi brillanti agli orecchi — la Cantelmo, tutta seria, coi ricciolini ravviati, l’abito gravemente oscuro, l’andatura corretta, ma la gonna un po’ corta per lasciar vedere lo stivalino di raso — ed altre venti, trenta dame, tutta la fine araldica, quella che si trova insieme dappertutto, compatta e fedele, quasi avesse bisogno di affermarsi numerosa. Nessuna giovinetta, come vuole l’uso. Un abbagliamento di colori, fusioni armoniche di tinte smorte, dissonanze acute di tinte forti che irritavano e seducevano la vista, velature fioccose di merletti, uno scintillìo di gemme, un trionfo della eleganza raffinata, costosa più del lusso sfacciato.
Dall’altra parte la nobiltà maschile. Giovanottini biondi, femminilmente belli, cresciuti troppo presto, baciucchiati troppo dalla madre, venuti su fra le gonne donnesche, la pelle delicata, il collo grazioso, le mani bianche; giovanotti bruni, pallidi, dal tipo napoletano, corretto da un contegno composto; qualche figura malaticcia, nelle cui vene scorre lento il sangue impoverito e viziato di quindici generazioni; qualche figura corrosa, mezzo distrutta da una vita sfrenata; il volto verdognolo, per riflesso del tappeto verde, del conte Balsamo; otto o dieci ufficiali di cavalleria, tre o quattro di marina, attirati nell’esercito, o nell’armata, da quell’indistinto desiderio di fare qualche cosa, che ha ogni giovane; una gioventù intelligente più che non sembri, indolente per partito preso, troppo ben vestita, troppo ben pettinata, meno corrotta delle altre, coi suoi personaggi che si rassomigliano troppo, senza individualità quasi decalcata per tante copie, sopra un sol figurino. Poi gli uomini ammogliati, i capi di famiglia; due o tre senatori per censo o per nobiltà, che non andavano mai al Senato; qualche vecchio residuo della razza antica, di quei principi democratici, amanti dei bei quadri, delle belle statue, dei gagliardi commensali; un gruppo di amministratori comunali che aspiravano alla deputazione e di cui la politica arrivava a ridestare l’ambizione; un gruppo di semplici gaudenti. In un angolo il vecchio conte Margari, matto per la musica, che aveva conosciuto tutti i cantanti ed i compositori celebri dei suoi tempi, che andava a sentire i moderni, con una malinconica scrollatina del capo; poco lungi il marchesino Caranni, la più fertile immaginazione per creare un cotillon, un marchesino piccolo, grazioso, con una testolina svegliata di furetto, e il conte Mottola, che a stare sempre fra i cavalli, a parlar loro, a parlare di essi, aveva acquistato una certa lunghezza della testa, un movimento della mascella inferiore che lo faceva rassomigliare vagamente ad una testa di cavallo; il duca di Torremare, un uomo brutto di cui tutte le donne s’innamoravano, senza che egli si degnasse di far loro la corte; infine, ogni notabilità, ogni individuo, ogni novella forma di quella società che pare immobile, ma che vive e progredisce come tutte le altre, piccola nella grande.
Uomini, donne entravano nel salone un po’ pallidi, con un leggiero brivido di freddo portato dalla cappella patriziale, dove era una semi-oscurità triste, dove la voce del vescovo officiante era aspra, dove la cerimonia era durata troppo. Invece, nel salone l’allegra luce, l’aria tepida, i fiori dappertutto; le donne si raddrizzavano lentamente in quel calore, quasi ristorate e carezzate dai profumi, qualche sospiro di benessere sollevava un petto oppresso; le guance si coloravano, qualche sorriso appariva. L’etichetta rigida si rammolliva nella benevola indulgenza del sole. I giovanotti parlavano fra loro, ridevano modestamente dietro la placca del cappello portato all’altezza del viso. Si univano, a quelli dei fiori, i sottili profumi della violetta artificiale, del muschio, della seta confricata; un ventaglio di leggerissime piume si agitava.
In capo alla sala, presso il tavolino, era la sposa nella bianchezza morbida del suo abito nuziale. La corazza chiusa sino al collo, le maniche lunghe sino al polso le danno un’aria castissima, ma il raso si tende senza una piega, magnificamente, dal collo ai fianchi; è così assettato, così terso, che quel busto sembra scolpito; dietro, il lunghissimo strascico ha dei riflessi argentini, azzurrognoli, tremolanti, su cui il velo mette un’ombra trasparente. Beatrice conserva la sua calma tranquillità, l’aspetto soddisfatto di sè e del suo mondo. Accanto a lei la bella e fredda figura di Marcello Sangiorgio, punto commosso, lo sguardo errante talvolta; la marchesa di Monsardo, matrina della sposa, una siciliana nata a Parigi, vestita con falsa semplicità, senza gioielli, velando sotto la modestia delle palpebre lo sguardo provocante; il duca Mario Revertera, una sagoma finissima di gentiluomo in marsina, con l’abituale sorrisetto che gli incava l’angolo delle labbra; il principe di Sangiorgio, zio di Marcello, un bel gentiluomo, alto, canuto, con una di quelle teste che paiono espressive e sono insignificanti. Si fa silenzio. Dietro il tavolino ha preso posto il duca di Rivela, un consigliere del comune di Napoli, che funziona per cortesia da uffiziale dello stato civile. È un viveur dai capelli radi sulla fronte, dai lineamenti abbattuti: è diviso da sua moglie. Sotto la marsina compare un pezzetto della fascia tricolore. Egli compie le sue operazioni con una posatezza calcolata che finisce per imporne agl’invitati; non si ode un mormorio, le candele accese sul tavolino, la cui piccola lingua di fiamma è divorata dalla luce meridiana, crepitano. È un istante di profonda aspettazione, ed un pensiero s’impadronisce di tutte quelle menti disattente ed annoiate, un pensiero che domina tutti gli altri. Il duca di Rivela apre il librettino azzurro che è il Codice, e con voce alta legge:
«Articolo 130. — Il matrimonio impone ai coniugi l’obbligazione reciproca della coabitazione, della fedeltà e dell’assistenza.»
Nei cuori si risveglia una lunga eco di ricordi: molti e molti furono i giuramenti simili, eppure quanti forti amori svaniti, quanti legami bruscamente distrutti, quante famiglie scisse!
«Articolo 131. — Il marito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata d’accompagnarlo ovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza.»
«Articolo 132. — Il marito ha il dovere di proteggere la moglie, di tenerla presso di sè e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze. La moglie deve contribuire al mantenimento del marito, se questo non ha i mezzi sufficienti.»
Alle ultime parole Marcello s’inchina appena. Beatrice saluta col capo. Quasi che tutto non fosse regolato, quasi che non si sapesse quel che viene dopo, quasi che qualche cosa di nuovo, di impensato debba accadere, la riunione è agitata da un’ansietà compressa.
— Voi, Marcello-Andrea-Ferdinando Galati, duca di Sangiorgio, volete per vostra legittima sposa Beatrice-Maria-Isabella Manso, duchessa di Revertera?
I giovanotti si curvano, tendono l’orecchio.
— Sì — dice egli con voce ferma e forte, impallidendo, guardando fissamente colei che in quel momento elegge per sua donna.
— Voi, Beatrice-Maria-Isabella Manso, duchessa di Revertera — dice Rivela, salutando la sposa — volete per vostro legittimo sposo Marcello-Andrea-Ferdinando Galati, duca di Sangiorgio?
Ella sorride alla domanda, sorride a Marcello e con tono semplice e piano risponde:
— Sì.
Un singhiozzo erompe da un petto femminile. È Amalia Cantelmo che si lascia sopraffare dalla commozione e si abbandona ad una delle sue crisi nervose, che la scuote tutta nelle lagrime. In un angolo la duchessa di Mileto, la vedova del suicidato, piange silenziosamente, dietro la sua veletta punteggiata d’oro.
Rivela apre il logoro e ruvido registro. Le più bizzarre calligrafie, contorte, tremanti, irrequiete, schizzinose, montavano, scendevano da un capo all’altro della pagina; nomi scritti in fretta, con amore, con rabbia, con indifferenza, ingenui errori di ortografia; nomi plebei che accavallavano i pomposi titoli della nobiltà: una pagina di vita. I due sposi venivano subito dopo il matrimonio di Gaetano Parascandolo, facchino, e di Pasqua Loiodice, operaia nella fabbrica di tabacco. Mentre Marcello si curva a scrivere, Beatrice si toglie il guanto della mano destra, rialza un pochino il merletto della manica, ringrazia amabilmente lo sposo che le porge la penna, e senza fermarsi per leggere, senza esitare, trovando subito il posto, firma, curvando leggiadramente la testa: una firma diritta, lunga, chiara. Ella non è turbata. Non par neppure notare la strana insistenza, con cui la fissa negli occhi suo marito Marcello.
— La sposa pare una bambola — dice sottovoce il cavaliere Castelbarco a Roberto Giordano — una di quelle bambole che dicono sì e no, premendo una molla.
— Che importa? È una bella moglie — dice Giordano.
— Non vorrei averla per amante, io.
— Non l’avresti. Le Revertera sono saggie. Anzi, donna Luisa dicono sia morta di troppa saggezza.
La sfilata cominciava. Gli sposi erano sempre in fondo al salone, nella stessa linea, distanti l’uno dall’altro. I signori stringevano la mano a Mario Revertera, fermandosi un istante con lui: stringevano la mano a Marcello Sangiorgio, mormorandogli una congratulazione; passavano davanti alla sposa facendole un grande inchino, senza accostarla, senza dire nulla, e si avviavano per uscire. D’altro lato, le signore, una per una, si fermavano davanti alla sposa, parlavano con lei un momento, sottovoce, le due teste avvicinate e sorridenti, l’abbracciavano, volgevano un saluto a Marcello ed a Mario, poi si avviavano per uscire. Questa doppia corrente si veniva svolgendo gradatamente, incontrandosi senza urtarsi, rasentandosi appena, con una grazia composta, le donne agili e svelte negli abiti strettissimi, manovrando con abilità le code lunghissime; gli uomini movendosi con disinvoltura in quelle onde di stoffa, facendo valere la distinzione del proprio saluto, facendo gonfiare il petto candido della camicia. Tutto questo senza un urto, senza un istante di confusione, con una scioltezza di movimenti che era diventata natura, come se ognuno avesse imparato alla perfezione la partina propria in quella rappresentazione. Lo spettacolo riusciva così completo, così convenevole, così degno, che gli stessi attori se ne andavano con una ciera modesta e soddisfatta.
Mario Revertera accettava le congratulazioni, lasciava cadere una breve risposta, per lo più un grazie; Marcello Sangiorgio dava una stretta di mano convulsa, una mano ora ghiacciata, ora bruciante, balbettava qualche vaga parola di ringraziamento, con lo sguardo incerto. Pareva stanco. Invece Beatrice si manteneva ritta, franca, accogliendo cortesemente le donne, trovando sempre e subito la risposta giusta ai diversi augurii, abbracciandole con moderata effusione, senza dare segno di stanchezza e di noia.
— Vi auguro tanta felicità quanta ne ho desiderato per le mie figliuole — disse la duchessa d’Alemagna, la madre felice.
— Spero di meritarla come esse — rispose Beatrice.
— Prego Dio che benedica la vostra famiglia, mia cara Beatrice — disse la buona principessa di Massenzio, cui si rimproverava di essere troppo borghese.
— Grazie per me e per la mia famiglia, signora.
— Vi auguro di essere sempre bella, Beatrice — disse la vecchia duchessa di San Demetrio, con un sorriso che le scovrì i denti ingialliti; — è il mezzo per essere invidiata e felice.
— Dovrei essere la duchessa di San Demetrio — rispose Beatrice.
— Dio vi conservi l’amore di vostro marito — mormorò la Celano, con un lieve sospiro di rimpianto.
— Grazie, signora — rispose Beatrice senz’altro.
— Vi auguro tanta felicità quanta ne meritate — disse la Giansante con quel tono equivoco, che smentiva quasi sempre le sue parole.
— È il miglior augurio che possiate farmi.
— Vi auguro che le vostre virtù di giovinetta rifulgano come sposa — aggiunse la duchessa Della Mercede, con la sua bocca stretta di spagnuola penitente.
— Lo spero anch’io.
— Vai tu a Parigi? — chiese l’Aldemoresco con la sua espansione vivace. — Farai un viaggio delizioso. Divertiti. Non ritornare presto. Io e Alessandro rifaremmo volentieri il nostro viaggio di nozze! Chi sa! forse verremo. Tuo marito è molto simpatico. Sarai felicissima, cara.
— Sì, cara. Ti attendo a Parigi.
— Dio vi accordi la gioia dei figli — le augurò sommessamente la duchessa di Alliano.
— Grazie, signora — e chinò gli occhi.
— Un matrimonio d’amore: non posso farvi altri augurii, cara Beatrice — disse la principessa di Montefermo, col suo nordico languore.
— Conosco il vostro cuore, mia buona principessa — fece l’altra eludendo la risposta.
— Ti auguro buona fortuna, Beatrice — disse la contessa Filomarino. — Se vai a Parigi, ricordati che non c’è che Worth capace di farti un abito presentabile.
— Grazie, me ne ricorderò.
— Non vi rattristate se lasciate vostro padre e Napoli — disse la contessina Wanderhoot; — anch’io soffersi lasciando la mia famiglia ed il mio paese. Fatevi lieta nell’amore del vostro sposo, come io ho fatto.
— Seguirò il vostro consiglio, mia buona amica.
La sala si vuotava. Pochi uomini ancora; di signore solo la principessa di Brancaccio, la duchessa di Mileto e la contessa Amalia Cantelmo.
— Ti sei rinfrancata? — chiese Beatrice ad Amalia Cantelmo, come se le fu accostata.
— Sì, Beatrice mia. Che vuoi? Non ho potuto dominarmi. Ora me ne vado. Lascia però che ti faccia un’altra domanda: Sarai tu felice?
— Ma sì, ma sì, te lo ripeto. Perchè non dovrei esserlo?
— Ohimè! l’avvenire è una ignota — esclamò Amalia ricadendo nelle sue fantasticherie. — Ma non voglio rattristarti. Divertiti, torna presto. Tuo padre sarà desolato e triste senza te.
— Lo credi?
— Ma certo! Ritorna, ritorna presto.
— Vedremo. È Marcello che decide.
E si baciarono due o tre volte, mentre Amalia si rasciugava le lagrimette che ricomparivano.
— Siate felice lungamente, Beatrice — disse la duchessa di Mileto, con la sua voce dolce. — Amate vostro marito efficacemente, entrate nella sua vita in tal modo che mai, mai gli sorrida l’idea di abbandonarla. Noi donne non ci pentiamo di aver troppo amato, ci pentiamo di aver amato troppo poco.
Beatrice restò alquanto pensosa. Un’ombra le oscurava il volto.
— Credo di poter fare il mio dovere — rispose poi, quasi decisa.
— Sono stata al matrimonio di vostra madre, della mia buona Luisa — disse la principessa Brancaccio. — Io spero che dal cielo essa sia contenta di questo giorno.
— Lo spero, lo spero anch’io — balbettò Beatrice impallidendo, mentre le sue palpebre battevano due o tre volte.
— Non credo aver fatto male a nominarla — soggiunse la principessa. — Pensate a lei spesso. Essa vi amava molto; mi parlava sempre di voi. Essa vi guidi. Siate virtuosa e felice.
— Grazie a voi, signora — mormorò Beatrice.
Infine la sala era deserta. Mario era uscito ad accompagnare il duca di Rivela che era andato via l’ultimo. Distratto, assorbito in un’idea, Marcello rimaneva fermo al suo posto, aspettando ancora, senza accorgersi della sala vuota.
— Siete stanco? — gli chiese Beatrice, appressandoglisi ed offrendogli una sedia.
Egli si scosse, si sedette macchinalmente, passò la mano sulla fronte, e sempre preoccupato, rispose:
— Sì, un poco. La giornata è stata faticosa.
Ella era ritta presso di lui, nel suo abito candido, con le guance accalorate, il mazzetto del petto quasi disfatto, una rosellina bianca che si sfogliava. Marcello si perdeva da capo a contemplarla, con lo sguardo assiduo e fitto dell’amore. Così, soli, vicini, pareva che col loro gruppo avessero scemata la vastità imponente del salone. Sembrava un salottino bianco, caldo e recondito. Un silenzio benevolo li avvolgeva. Ella si chinò lentamente, quasi volesse mormorargli una confidenza.
— Grazie dei vostri doni, Marcello. Sono stupendi.
Fu allora solo che egli si accorse di stare seduto, dinanzi a sua moglie in piedi. Si rizzò, le prese la mano nuda e bellissima, gliela baciò lungamente, dicendole:
— Vi sono grato, Beatrice, di avere accettato il mio amore ed il mio nome.
Ella inarcò appena le sopracciglia:
— Il nome dei Sangiorgio vale quello dei Revertera, Marcello.