< Cuore infermo < Parte Prima
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Parte Prima - III Parte Seconda


IV.


Dietro ai cristalli della carrozza fuggiva la Riviera di Chiaia con le sue eleganti palazzine, non molto alte, senza botteghe, coi suoi grandi alberghi dalle stanze da pranzo sfolgoranti di luce, con la striscia nera come l’inchiostro che mettono a destra gli alberi della Villa; sorgeva e si dileguava la strada di Chiaia stretta, erta, coi ricchi negozi di mode, dove le graziose fanciulle che vi lavorano, sogguardano i passanti attraverso le vetrine; appariva e spariva, silenzioso e quieto, il palazzo Reale; appariva e spariva il teatro San Carlo, massiccio, grigio, dal portico oscuro; scivolava la via del Molo, sporca, chiassosa, rossa di fiammelle; fuggiva, fuggiva la via della Marina, con gli uffici di assicurazioni marittime sbarrati, la gran dogana chiusa e muta, col nauseante odore del suo mare mercantile, un mare odioso a fondo di carbone. Nella carrozza si parlava poco; a intervalli moriva la conversazione. Mario sedeva accanto a sua figlia, dandole la destra: Marcello sedeva dirimpetto ad essa. Il duca Revertera aveva fumato una sigaretta, lasciando andare il fumo dalla portiera aperta; aveva tentato di rialzare il discorso che rovinava da tutte le parti, aveva scherzato un poco sulle figure del corteo matrimoniale, sulla gravità del duca di Rivela, ma le sue parole non trovavano eco nei due giovani. Pareva che essi si compiacessero di quel silenzio. Beatrice, nel suo angolo, appoggiava la testa sulla stoffa della carrozza. Nella penombra, Marcello fissava sua moglie, sentendo ogni tanto posarsi su lui il tranquillo sguardo di Beatrice.

— Hai tu la lista degli alberghi a cui abbiamo telegrafato? — chiese Mario a Marcello.

— Sì, l’ho qui, nel taccuino.

— Voleva dire — aggiunse Mario Revertera, senza rivolgersi a nessuno dei due — voleva dire che la via Helder a Parigi sarà troppo rumorosa per voi.

— Quando si viene da Napoli, nulla è rumoroso — rispose Beatrice.

— Infatti... — approvò il padre senza trovar altro da dire.

Di nuovo vi fu silenzio. Il ginocchio di Marcello sfiorava la morbida gonna di lana di Beatrice e da quel contatto così leggiero, egli sentiva un fremito lento, doloroso e dolce, qualche cosa di acuto che lo faceva lagrimare: attratto invincibilmente, si chinò verso lei, desolato di non poterne vedere il volto, come se dubitasse di trovare un’altra donna al suo posto. Il volto di Beatrice, in quell’angolo, pareva un’ovalità bianca ed immobile. Marcello si rigettò in addietro, dominato un’altra volta da quell’acre sentimento di antipatia, di odio, che rinasceva sempre in lui e che era il tormento, il castigo del suo amore.

Ma al duca Revertera spiaceva ognora più quel silenzio imbarazzante. Gli pareva che fosse un silenzio ridicolo.

— A Roma vi fermerete, al ritorno? — chiese rivolgendosi, come al solito, all’oscurità.

— Come desidera Beatrice — rispose Marcello, e stette aspettando anch’esso la risposta.

— Io fo quel che vuole Marcello — disse ella con pari cortesia, senza interesse.

— Se vi trattenete a Parigi, vi raggiungo — riprese Mario con trascuranza — ho qualche buon amico colà.

— Anche Fanny Aldemoresco ha promesso di venire — disse la figliuola, eludendo altra risposta.

E chinò la testa al cristallo dello sportello per guardare l’arco del Carmine passato allora allora. Continuò a guardare fuori la lunga via della ferrovia che a quell’ora sembra un deserto, il giardinetto con la fontana tutta bianca dove sorge la statua della sirena napolitana, la sirena antica, il cui formosissimo corpo termina in una volgare coda di gallina, immagine della bella, poetica e triviale città; il grande edifizio della stazione centrale, somigliante ad un casolare abbandonato, ad una fabbrica di cui sia fallito il padrone, un edificio troppo vasto, troppo vuoto, troppo muto, con una malinconia strana da ciclope, il cui unico occhio infiammato era l’orologio della facciata.

Nella sala della prima classe aspettavano poche persone. Le fiammelle del gaz erano abbassate, rimanendone sollevate, con la luce troppo vivida, solo tre o quattro. Un gruppo di giovanotti circondava un deputato grasso, tarchiato, dalla calvizie rossa, su cui passava ogni tanto una mano, quasi a temperarne l’ardore; vi era una vecchia signora tutta infagottata nei mantelli, negli scialli, nelle sciarpe, e accanto a lei la sua donna di governo, una tedesca stecchita dal volto duro ed opaco. Le ombre dei divani rossi si allungavano sul marmo del pavimento, mettevano degli angoli stranamente prolungati sulla bianchezza cruda del gesso, di cui erano coperte le muraglie e le grandi colonne. Padre e figlia erano rimasti soli. Gli sposi viaggiavano in un vagone-salone riservato, i bagagli li avrebbero puntualmente ritrovati all’albergo. Tutto era regolato con quel lusso di comodità che previene e toglie di mezzo ogni più piccola noia; pure Marcello si era assentato un momento per sbrigare alcune ultime formalità. Fors’anche lo allontanava un sentimento di delicatezza. Certo, padre e figlia dovevano dirsi qualche cosa, ci doveva essere un saluto, un istante di commozione; ed egli si sentiva ancora troppo estraneo a quei due per esservi presente.

Mario e Beatrice sedevano accanto, sul divano, in un angolo, all’ombra di un grande pilastro quadrangolare che li nascondeva. Il deputato andava su e giù, soffiando, sbuffando, traendosi dietro i suoi giovanotti, facendo tinnire con la mano le medaglie della sua catenella; ogni volta che ricompariva, Beatrice lo fissava e lo seguiva con gli occhi, invece di parlare. Il padre girava fra le dita una sigaretta spenta. Quello che avveniva in lui, lo infastidiva, gli dava noia. Non era un dolore quello, non era neppure un dispiacere, ma una inquietudine vaga, latente, continua, a cui non poteva sottrarsi. Non era questione di scetticismo, di spirito forte, di egoismo. Per due o tre volte nella sua vita, nelle epoche decisive, i nervi gliene avevano fatto delle belle, dovendone poi sopportare per lungo tempo le conseguenze. Ecco, vi capitava da capo: e sapeva di non poterli dominare.

— Tu mi scriverai, nevvero, Beatrice? — domandò fingendo noncuranza.

— Ma certo, scriverò subito — rispose ella, guardandolo in volto, quasi per assicurarsi dell’intenzione.

— A lungo?

— A lungo...?

— Impressioni di viaggio... — mormorò egli, turbato un poco.

Passò l’impiegato a bucare i biglietti. Qualche porta strideva sui gangheri, la partenza si avvicinava. D’un tratto egli si decise:

— Sei forse contenta di andartene, Beatrice? Sono io stato un cattivo padre per te, così da farti desiderare molto questo giorno?

Ella si trasse indietro, impallidita, sgomentata. Di nuovo aveva smarrita la sua calma.

— Non so, non so... — rispose egli con tono vago, quasi parlasse a sè medesimo — in casa mi sei parsa sempre felice. Non ho cercato altro. Ma voi altre donne serbate per voi i vostri dolori, vi rodete per essi, e poi sono nostri i torti ed i rimorsi...

— No, no — arrivò a dire lei, pregandolo col gesto, con lo sguardo, di desistere da quel discorso. Ora ella arrossiva; quasi appariva umiliata ella stessa di quella spontanea umiliazione a cui discendeva la coscienza di suo padre.

Egli si tacque, rimanendo pensieroso. Così, in quei momenti, era caduta dalle labbra la piega del sogghigno e la fisonomia era diventata più grave, più vecchia. Beatrice andava ricomponendosi.

— V’ingannate — disse ella seriamente, con la sua voce pura di ogni emozione. — Sono stata felice in casa vostra, sarò felice in casa di Marcello. Lo dissi anche alla Cantelmo che me ne parlava. Vi lascio con un rimpianto e con una speranza, caro padre.

Per riflesso, per quelle parole misurate e prudenti, per subitaneo equilibrio del suo spirito, egli si calmò. Dopo tutto, Beatrice aveva ragione. A che servivano queste tenerezze fra due persone che erano vissute tanto tempo insieme, senza giungere a queste scempiaggini? Di che si andava impacciando ora, egli? che vespaio gli veniva in mente di stuzzicare? A vivere quieti e tranquilli erano inutili quelle sentimentalità da commedia. Il suo egoismo risorgeva. Si strinse lievemente nelle spalle e crollò il capo, come chi si liberi volentieri da un fastidio. In fondo provava un po’ di scorno. Si trovava ridicolo nella sua parte di padre nobile, che parla di felicità, di dolori, come si scrive falsamente nei libri e si dice convenzionalmente sul teatro. La figlia così saggia, così lontana da queste espansioni, doveva aver riso di lui in sè stessa. Ora non sapeva più che dirle, cercava uno scherzo, una ironiuccia, qualche cosa di disinvolto, per farle vedere che egli era sempre quel di prima. Per fortuna venne Marcello.

— Ebbene, si parte — disse Sangiorgio con una premura dissimulata, senza fissare in viso sua moglie e suo suocero.

— Vi metto in vagone e me ne vado — disse Mario.

Si spalancavano le porte della sala. Tutta la gente correva avanti per ritrovare la terza e la seconda classe, ma veniva bruscamente respinta dalla voce monotona dell’impiegato:

— Seconda e terza classe, indietro!

Beatrice montò sveltamente, senza farsi aiutare; Mario, ritto sullo scalino, dette una occhiata di riprovazione nell’interno del vagone.

— Tutto va bene; a rivederci dunque: — e baciò la figlia, strinse la mano al genero. Poi:

— Ricordati di scrivere alla Monsardo, Beatrice.

— No — rispose lei con voce bassa e dura, con un corrugamento delle sopracciglia; ma il monosillabo si perdette nel rumore degli sportelli che si chiudevano con violenza.

Il duca Mario Revertera si confuse nella folla, con la sua alta e distinta figura che gli dava il passo anche dove non era conosciuto. Non era punto triste. Era anzi soddisfatto. Non gli aveva assicurato la figliuola di lasciarlo con un rimpianto ed una speranza? In questa elegante frase non era riassunta la sua quiete? Tanto meglio per tutti — e soprattutto per lui.

Intanto i due sposi aspettavano la partenza. L’impiegato aveva chiuso loro lo sportello, con una grande alzata di berretto; ma laggiù si regolavano ancora i biglietti della folla che viaggia sulle panche di legno. Poi si attendeva il treno da Roma. Beatrice aveva subito ritrovato un buon posticino, mentre Marcello rimaneva ancora un po’ impacciato dinanzi a lei, in quell’aspettazione, in quei minuti di sospensione in cui pare di poter contare ad uno ad uno i battiti del cuore. Ella possedeva sempre quella sua amabile scioltezza, che la faceva star bene dovunque. Sedeva nel vagone con la medesima grazia con cui sarebbe stata nel suo salone. Si guardava dattorno senza alcuna meraviglia; aveva posato il suo mantello foderato di pelliccia. Le sue mani, finemente inguantate di nero, stringevano la borsetta di cuoio dove erano tanti oggettini che le potevano servire nel viaggio. Nel suo abito di castoro blù scuro, succinto, corto, col colletto bianco e dritto da viaggio, col cappellino tondo e stretto, ella perdeva un poco di quell’aria serena e maestosa che aveva sempre avuta. Sembrava più giovane, più piccola; la sua bellezza si umanizzava, prendeva qualche cosa di piccante, di realmente femminile. La fronte troppo statuaria era semi nascosta dal capriccetto di un cappellino bizzarro; vivevano le labbra sanguigne come il melagrano. E Marcello dimenticava tutto, si sentiva invadere da una tenera confidenza che allontanava fra loro due la freddezza del cerimoniale; in quella trasformazione apparente di Beatrice, gli pareva che ella cominciasse ad appartenergli, e questa deliziosa incipienza, che era ancora una illusione, lo empiva di tanto delicato piacere, che egli non profferiva parola, prolungando nel silenzio la festa del suo cuore.

— Ebbene, si parte? — domandò ad un tratto Beatrice, quasi fosse impaziente.

— Giunge il treno da Roma. Partiremo a momenti — rispose lui gittato di nuovo nel dubbio e nell’incertezza.

Passavano le vetture di terza e di seconda classe: la gente in piedi, pallida, stanca, insofferente, impaziente, abbottonava i soprabiti, aggiustava gli scialli, prendeva gli ombrelli, i bastoni, i piccoli bagagli dalle reti dei vagoni. Ma di fronte allo sportello degli sposi venne a fermarsi una vettura di prima classe, un salone come il loro. Dentro, una donna giovine, sola, col viso bruno, magro, ammalato, imbellettato; sul tappeto un libro caduto, rimasto aperto; sui divani gittati a caso un fazzolettino di battista, un gruppo di fiori appassiti, uno scrignetto di lacca; la donna dietro il cristallo, seduta, come se non avesse nessuna intenzione di scendere. Ella fissò uno sguardo nero e lungo nella vettura degli sposi; per un sol momento quei tre personaggi si guardarono. Ella arrivava, essi partivano.

Marcello, mentre la macchina raddoppiava i suoi sbuffi, pensava e sperava e sorrideva a sè stesso e si affidava all’amore.

— Tanto l’amerò, tanto l’amerò... — diceva tra sè, con la bella fiducia dei cuori onesti ed affettuosi.

Certo, Beatrice non pensava nulla di questo. Certo, se nell’anima ella portava una cura segreta, vi portava anche la sua forza ed il suo coraggio.


Vi è un momento nella nostra vita che è il punto culminante di essa. Ci si arriva per gradazioni insensibili, per vie oblique; vi si arriva ciechi, inconsci, senza un sol presentimento. Si vive quel momento come tutti gli altri; solo, dopo di esso, la domanda oscura dell’avvenire ha voluto la sua risposta: tutto è deciso. E, molto tardi, sempre troppo tardi, rinasce nell’uomo la coscienza del grande momento vissuto; rinasce solo il ricordo, l’irrimediabile ricordo.


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