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II.
Una carrozza si fermò sul piazzale, davanti il portone. Beatrice, che scriveva una lettera, tese l’orecchio: furono schiusi due o tre usci, un fruscìo di abiti, un vocìo femminile. Amalia Cantelmo e Fanny Aldemoresco invasero il salotto. Fu un grande abbracciarsi e baciarsi per un buon minuto. Le due signore venivano nei loro abiti corti di percallo, riparate sotto enormi cappelli di paglia, provvedute di ombrelli larghissimi. Fanny con un ventaglio colossale, una vera vela. Pure erano arrossate dal caldo ed impolverate.
— Ecco qui due vittime dell’amicizia, cara Beatrice — disse la Fanny, facendosi vento rumorosamente: — per amor tuo, abbiamo affrontato il Sahara, a quest’ora, da Castellammare a Sorrento.
— Tanto è caldo, fuori?
— Orribile, orribile, Beatrice — rispose languidamente Amalia.
— Ma qui è fresco, freschissimo; ci si sta bene, duchessa mia. Capisco perchè non ne vieni fuori.
— Infatti — disse Beatrice — non esco che nelle ore senza sole. Voi altre siete coraggiose; e poi così buone di venirmi a trovare.
— Sfido a non essere buone — saltò su la Fanny. — Tu diventi romita, solitaria; a momenti pronunci i voti monacali: noi non possiamo permettere questo.
— Sei diventata invisibile, cara.
— Non tanto, mi sembra. Ma mi sentivo stracca dell’inverno e volli riposarmi. Sento dire che a Castellammare mettete il mondo sossopra.
— Sicuro, sicuro, il mondo a soqquadro. Lavoriamo da mattina a sera per divertirci, come i negri nelle piantagioni. Non riposiamo un minuto solo. Non trovi, Beatrice, che facciamo diventare un’ironia la quiete della campagna? Ma non importa; tutte le cose molto regolari sono regolarmente noiose. Non ti annoi, qui, Beatrice, malgrado il bel fresco che vi regna?
— Qualche volta mi ci annoio; ma per poco.
— Perchè non scendi anche tu a Castellammare? — chiese Amalia, senza lasciare il suo tono indolente.
— No, cara. Non voglio ammalarmi per troppo divertimento. Ci state voi per me...
— Oh! io... — fece Amalia, quasi per ischermirsi...
— Che significa?
— Io, come se non ci fossi; tutti quei divertimenti mi sembrano lugubri...
— Non le dare ascolto, Beatrice — interruppe vivamente l’Aldemoresco: — è lei, che è lugubre, che vuol essere lugubre. Figurarsi, con quel po’ po’ di svaghi, con tanta aristocrazia straniera, con tutto il nostro circolo, se è il caso di essere malinconica. Non crederesti che viene dappertutto con una ciera mesta, e tutti intorno a chiederle che cosa ha, se si sente male, perchè è triste! Cara Amalia, la posa di questa stagione è interessante, ma finisce per rattristare le tue amiche.
— Pur troppo, non è una posa — disse Amalia con un sospiro.
— Se ricominci a sospirare, protesto che non ti conduco via. Piuttosto ti lascio in una siepe.
— Hai qualche cosa che ti rende malinconica? — chiese Beatrice, col suo sorrisetto un po’ ironico.
— Chi non ne ha? Anche voi due...
— Io, no — protestò la Fanny.
— Ed io neppure — disse Beatrice.
— V’illudete: il mondo è infelice senza accorgersene. Io mi accorgo della mia infelicità.
— Io mi domando — rispose Fanny con una ciera comicamente spaventata — quante altre frasi consimili Amalia ci vorrà prodigare.
— Non temere, cara; non temere. Per amor vostro cercherò distrarmi, rallegrarmi un poco.
— Ma la odi, tu, Beatrice! Se non la interrompo, ne moriremo. Parliamo d’altro. Che fai qui, da mattina a sera, duchessa?
— Molte cose. Lavoro di ricamo, leggo, passeggio nel parco, esco a cavallo, mi trattengo sul terrazzo. Ti assicuro, il tempo mi va via molto bene. Vengono anche amici; voi altre per esempio.
— E i vicini? — chiese Amalia, senza badare ad una occhiata di rimprovero della Aldemoresco.
— Qui la villa è isolata; non ne so molto dei vicini.
— Al solito — disse Amalia, con un tono singolare.
— Al solito, di che? — si rivoltò vivamente Beatrice.
— Volevo dire, al solito della tua indifferenza. Non hai accanto a te la villa Torraca, dove abita la contessa D’Aragona?
— Credo di sì.
— Ma scusa, Amalia, a noi non importa nulla della D’Aragona — interruppe Fanny, con la sua buona e generosa natura — e neppure a Beatrice interessa molto. Lasciamola lì nella sua villa, la contessa. Ci è venuta per salute; speriamo che guarisca e vada via.
— È sofferente? — chiese Beatrice, senza dare alcun interesse alla sua domanda.
— Già, già, sofferente — riprese, con dispetto, la Cantelmo: — è sempre ammalata, sempre in fin di vita, e rinasce sempre, e sta molto meglio di noi. Le sappiamo queste malattie...
— Le quali somigliano famosamente a certe malinconie di mia conoscenza — osservò Fanny, cercando di stuzzicare la Cantelmo per distrarla dal suo soggetto.
— Pur troppo, no: — sospirò Amalia, lasciandovisi prendere: — ma tu non puoi intendermi, Fanny.
— Neppure io? — domandò Beatrice.
— No, no; avete detto che siete felici. Tanto basta; io ne godo per voi.
— Vuoi che te la dica io, Beatrice, la causa della malinconia di Amalia? Io la so. È innamorata.
— Innamorata?
— Non vedi come impallidisce? Amore, Beatrice mia. Cose da romanzo: immagina che è un amore non corrisposto...
— Non corrisposto? — domandò Beatrice, corrugando lievemente le sopracciglia.
Amalia chinò il capo, con un gesto drammatico, senza rispondere.
— Sicuro, non corrisposto: secondo me, l’eroe di Amalia non esiste.
— Ah! — fece soltanto la Sangiorgio.
— Così è — rispose Amalia: — sono innamorata di un ideale. Non esiste sulla terra...
— È in cielo e Amalia vuole andare a raggiungerlo. Bah! tutti questi sono scherzi; non vi è una parola di vero. Dico bene, Amalia?
— Dici benissimo.
— Nè io aveva creduto a tutte due — riprese Beatrice, scherzando anche lei. — E i signori mariti dove sono?
— Sandro mio e Giulio Cantelmo sono rimasti Castellammare, nella nostra sala da bigliardo, a giuocare.
— Con questo caldo?
— Che ti pare? Se si tratta di accompagnarci, di venire a fare una visita con noi, li vedi lì illanguiditi, morenti, incapaci di muovere un passo; ma quando si tratta di dar dei grandi colpi di stecca, contro le palle d’avorio, sopra un tappeto verde, sono pronti. Lo chiamano un esercizio refrigerante: la grazia del refrigerio!
— E Marcello? — domandò Amalia.
— Sta bene — rispose brevemente Beatrice.
— Niente altro?
— E che vorresti? — ribattè l’altra ridendo — io non posso darti la statistica dei suoi colpi di stecca. Anche lui ama il bigliardo.
— Sei tu che lo mandi dappertutto?
— Sicuro: io non vado per la ragione che ti ho detto; ed allora la casa Sangiorgio-Revertera non sarebbe rappresentata. Egli porta attorno le mie scuse — disse Beatrice con grande bonomia.
— Dio mio! questa Beatrice è insopportabile coi suoi ragionamenti: non ci è verso di farle aver torto.
— Non ci è proprio verso, cara mia; purchè tu non vada in collera.
— Con te, no. Piuttosto la sono con tuo marito; l’altra sera allo Stabia Hall m’invita per una polka ed una quadriglia. La polka la balliamo. Ma non si arriva alla quadriglia che a mezzanotte — ed allora che è, che non è? egli mi aveva fatto il tiro di andarsene alle undici e mezzo!
— È lunghetta la via da Castellammare a Sorrento: avrà temuto fare troppo tardi. Lo ammonirò sul suo mancato dovere di cavaliere; per ora ti presento le sue scuse. Ma tu godi ancora del ballo, mia bella afflitta?
— Che vuoi? Bisogna far pure qualche cosa per distrarsi.
— Non darle retta, Beatrice — scappò su l’Aldemoresco — balla ferocemente, sempre col pretesto di annegare la malinconia.
— Siete in molti laggiù, Fanny?
— In tutti, cara; meno che te. Già veniamo per questo.
— Per questo?
— Sicuro, siamo in missione.
— Missione diplomatica — soggiunse Amalia.
— Lasciami dire. Possiamo, eccellentissima signora duchessa, dar fiato alle trombe e leggere lo editto?
— Ti ascolto.
— Ebbene, così alla lesta: ti vogliamo sabato sera allo Stabia.
— Che si fa?
— Si balla, come è naturale; ti vogliamo assolutamente per questa volta.
— Ma se non sono mai andata laggiù...
— Ragione di più per venirci. È un ballo di beneficenza per i poveri.
— Potrei mandare del danaro senza venire...
— Carità poco evangelica, mia cara — aggiunse con gravità Fanny — massima poco cristiana. Bisogna divertirsi e beneficare. Poi avremo gli ufficiali della corvetta francese che vengono tutti. Dobbiamo abbagliarli, incantarli; tutte sotto le armi, e che armi! Se tu manchi, siamo perdute...
— Ne parlerò a Marcello.
— Gliene abbiamo già parlato, io e l’Amalia. Egli viene di sicuro. E tu, cara, non rifiutare più.
— Bene, bene, vi prometto di venire... mi annoia soltanto il ritorno a Sorrento ad un’ora così tarda.
— Anzi, sarà bellissimo, in carrozza, con la luna — disse Amalia, con la sua aria di bambina poetica. — Sabato ci sarà la luna.
— Figurarsi, Beatrice mia! Senti che ti dice Amalia; avrai anche la luna sabato. Per poco che Marcello sia poeta, ti farà un’ode lunga da Castellammare a Sorrento.
— Per fortuna che Marcello non fa versi. Avrete molti fiori sui vostri abiti, voi altre?
— Ne saremo coperte. Io avrò dei grossi gruppi di papaveri; stan bene con la mia tinta bruna.
— Io avrò dei giacinti. Il giardiniere dell’albergo è in giro per procurarmene.
— Ci penserò anch’io domani. Abbiamo qualche bel fiore nella serra.
— Perchè non andiamo a vederla? — propose Fanny Aldemoresco — tanto ora dobbiamo andar via. Stiamo qui da un pezzo; Beatrice ci fa vedere il suo nido campagnuolo e dopo ci mettiamo in cammino pel ritorno. Che ne dici, Amalia?
— Come vuoi. Già, i mariti non staranno in pena per noi.
— Parla per te, mia sfiduciata. Vorrei vedere che Sandro non si disperasse di già per la mia assenza.
Così si posero in giro. Le due amiche trovavano bello, tutto bello. Una pace incantevole, che non si conosceva in quel frenetico Castellammare. Pure, due o tre volte scambiarono un’occhiata d’intelligenza, dietro le spalle di Beatrice che le precedeva. Sul terrazzo batteva il sole; non vi rimasero che un minuto solo. La stanzetta rotonda della torre le entusiasmò. Fanny faceva scorrere le dita sul pianoforte, preludiando vivamente, rimanendo in piedi e continuando a chiacchierare con Beatrice. Amalia, sulla porta della cameretta, guardava nella campagna, facendo solecchio con la mano.
— Che guardi laggiù, Amalia? — chiese la duchessa.
— Cerco la villa Torraca.
Beatrice la raggiunse e gliela indicò. Era a destra, una palazzina molto piccola, dalle gelosie tutte chiuse.
— Beatrice, debbo parlarti — disse sottovoce rapidamente, Amalia.
— Quando vuoi, cara — rispose l’altra senza turbarsi.
Ma per le scale, mentre Fanny era andata innanzi:
— Ho scherzato, non ho nulla da dirti — disse a voce alta la Cantelmo.
Le raccomandazioni di Fanny e di Amalia furono molte, mentre salivano in carrozza, perchè Beatrice non mancasse il sabato sera allo Stabia Hall, e lei ad assicurarle di nuovo che sarebbe andata. Rimase sotto il peristilio a veder partire la carrozza: all’angolo del lungo viale che riesce alla strada maestra esse salutarono e furono salutate col fazzoletto. Nella carrozza Amalia Cantelmo era divenuta nervosa.
— Vedete se vi è al mondo una donna più apatica di Beatrice! Certo ella sa che Marcello è l’amante di quella scimmietta di Lalla ed intanto tollera tutto: anche una vicinanza insopportabile!
— Questo non è una ragione per dirglielo in viso, cara Amalia.
— Sempre compiacente tu, ma io sono irritata...
Intanto Beatrice risaliva lentamente la scalinata e rientrava nel suo salotto ridiventato silenzioso. Erano le quattro. Mentre si faceva vestire dalla cameriera per uscire al passeggio, pensava a varie cose. Ella pensava al largo colletto di smerlo che aveva Fanny, una novità del genere, alla malinconia di Amalia, al ballo del sabato, alle domande strane di Amalia, alla larga paglia foderata di rosso che portava costei, alle occhiate furtive che Fanny ed Amalia si erano scambiate, che essa aveva perfettamente vedute, ed ai fiori di cui doveva coprire la sua acconciatura pel ballo.
Era un pezzo che Marcello aveva posato la sua tazza sul tavolino che i servi trasportavano fuori il terrazzo. Avevano sparecchiato, anzi; — e Marcello continuava a fumare la sua sigaretta, appoggiato all’inferriata, guardando lontano. Poco distante da lui stava Beatrice, appoggiata ad un muretto, facendosi vento. Quel giorno Marcello si tratteneva più del solito. Durante il pranzo era stato ripreso dalle sue antiche distrazioni. A volte una fugace espressione di pena gli faceva corrugare la fronte. Ed ora egli prolungava la sua permanenza; fumava da un quarto d’ora, senza pronunziar parola. Di un tratto si accostò a Beatrice.
— Voleva dirti qualche cosa, Beatrice — le disse a bassa voce, senza guardarla in viso.
— Anche io, Marcello.
— Oh! — fece lui meravigliato. — Ti cedo il passo allora.
— Grazie. Veramente, sono due o tre cose. Sono venute a trovarmi oggi Fanny Aldemoresco e Amalia Cantelmo: una visita molto piacevole. L’Amalia l’ha con te, per non so qual quadriglia a cui l’avevi invitata, andando via invece...
— Dovetti partire...
— Così le ho detto, per iscusarti. Sai che quella piccina ci tiene a codeste inezie. Sono venute a dirmi, che sabato vi è un ballo di beneficenza allo Stabia. Mi ci vogliono, non ho saputo dire di no...
— Me ne hanno parlato; so di che si tratta.
— Sei libero per quella sera? Mi puoi accompagnare?
— Lo spero...
— Non ne sei certo? — chiese Beatrice, levando il capo.
— Quasi certo; anzi, verrò di sicuro.
— Alla buon’ora! Anche tu volevi dirmi qualche cosa?
— Sì, sì, voleva dirti... è qualche giorno che doveva dirtelo... ma poi altre circostanze me lo hanno fatto uscire di mente...
Qui prese dal portasigari un’altra microscopica sigaretta e l’accese. Per un momento parve impacciato.
— Senti, Beatrice — riprese, decidendosi — quante messe si dicono la domenica nella cappellina nostra?
— Quando noi non vi siamo, una sola, per i giardinieri, coloni e custodi della villa. È don Giovanni Marantonio di Meta, che viene a dirla.
— E quando vi siamo noi?
— Due. Una esclusivamente per noi ed un’altra per i servi. La nostra viene a dirla il canonico Ruggi.
— Quella per noi, dunque, sei tu sola ad ascoltarla?
— Io sola.
— A che ora?
— Alle undici.
— Non ti sorprendere, se ti ho chiesto tutto questo. Gli è che qualcuno mi aveva richiesto di venire a pregare nella nostra chiesa.
— Qualcuno?
— ... Una dama.
— Vuol venire la domenica, nella nostra chiesa?
— ... Una dama, che non ama il chiasso, il rumore, i luoghi dove accorrono molte persone. Non va nelle chiese di Sorrento. E come tu non hai che ad attraversare una parte del parco per trovarti nella chiesuola, anche lei non deve fare che cinque o sei minuti di cammino nel suo parco, poichè è nostra vicina...
— Nostra vicina? La Trevisani, la moglie del banchiere forse?
— No.
— La contessa Mendozza?
— No, no.
— E chi allora?
— La contessa D’Aragona.
Le nuvolette ardenti del tramonto gittavano un riflesso roseo sul volto di Beatrice.
— La contessa D’Aragona vuol venire a pregare nella chiesa dei Sangiorgio? — chiese ella lentamente.
— Nella nostra chiesa.
— La domenica, all’ora in cui io vi sono?
— Naturalmente... ma non credo che sarà molto assidua. Non istà sempre bene...
Egli chinò gli occhi. Aveva cominciato arditamente il dialogo; ma la sua falsa esaltazione cadeva poco a poco.
— ... Che ne dici tu, Beatrice? — chiese, dopo avere esitato.
Ella non gli rispose subito. Pensava. Ma nessuna ombra del suo pensiero le appariva sulla fronte.
— È un consiglio che mi chiedi, Marcello, o un consenso? — disse lei, fissandolo bene negli occhi.
— La distinzione è sottile! — rispose lui con voce ironica. — L’uno e l’altro se ti piace.
— Ebbene, sono di parere che converrà dire di no alla contessa D’Aragona. Per privilegio antico, a quanto ho letto nelle carte di famiglia, solo i Sangiorgio, quando sono qui, possono recarsi in quella chiesa ad assistere alle sacre funzioni. Sono così pochi i privilegi che ci rimangono, che volerli abbandonare anche quelli, sarebbe un derogare...
— Comprendo. Ma nella chiesa non c’entrerebbe nè una borghese, nè una popolana. I D’Aragona ci valgono, Beatrice; sono anche imparentati con noi.
— Benissimo. Vi è altro, però; la Trevisani mi fece chiedere lo stesso favore e fui costretta a negarglielo. Così pure alla contessa Mendozza. Offenderei queste due dame se adesso, senza nessuna ragione, accordassi ad una terza quello che ad esse ho negato.
— Ma tu non conosci la Trevisani e la Mendozza invece conosci la D’Aragona...
— Ebbi l’onore di parlarle solamente al ballo in casa Filomarino. Non è un titolo sufficiente.
— È sofferente... è molto pia... la carità cristiana...
— Me ne duole molto: ma le convenienze non permettono.
— E se io te ne pregassi? — domandò egli, irritato da quella opposizione fredda e calcolata.
— Io credo che tu non mi pregheresti di far ciò, Marcello — rispose ella con voce grave, chinando gli occhi, quasi per non misurare la portata delle sue parole.
Un fiotto di sangue salì al volto di Marcello. Egli aveva onta di avere ubbidito al folle capriccio di Lalla. Malgrado il suo odio per Beatrice, egli comprendeva che ella aveva ragione; comprendeva che ella sola rimaneva dignitosa e severa dopo l’offesa ch’egli le faceva. Era turbato, inquieto con sè stesso. Nella passione che lo signoreggiava, nella sicurezza della indifferenza di Beatrice, aveva creduto poter tutto osare. Ma vi ha un limite che l’orgoglio non permette di varcare. Comprendeva di averlo oltrepassato, recando oltraggio non alla moglie amorosa, non alla compagna affettuosa, ma alla donna che portava il suo nome. Era umiliato dal contegno di Beatrice; avrebbe voluto dirle una frase che lo giustificasse. La guardò per animarsi a tal passo; ma gli apparve, come sempre, per nulla mutata, figura immobile, su cui non si traduceva alcuna impressione. Gli apparve come una figura ieratica, la custode del suo onore. Non seppe dirle nulla.
— È tardi — mormorò: — a rivederci, Beatrice.
— A rivederci, Marcello.
Quando fu andato via, ella prese una sedia e si pose nel suo angolo favorito. Chinò un momento il capo sul petto. Simili scene la stancavano.