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III.
Sulla porta dello Stabia, alcune signore si trattenevano ancora un poco a discorrere fra loro, prima di partire. Parlottavano sottovoce, con certi scoppietti di riso, raccogliendo i loro strascichi per salire in carrozza; al chiaro della luna brillavano i fili d’argento di una mantiglia ricamata. Esse si scambiavano, presto presto, le impressioni del ballo, il nuovo waltzer di Metra dal ritornello così stridente, ma che solleticava i nervi, lo scandaluccio della Filomarino che aveva ballato quattro volte con Mimì d’Alemagna, l’abito verde a fiori gialli, un ardimento strano, della Vanderhoot; prolungavano il loro piacere in quel dialoghetto vivace, spezzato da esclamazioni e da risatine. Intanto la sala si vuotava lentamente. I villeggianti di Meta, di Vico Equense, di Pianosorrento erano già partiti. Beatrice finalmente si decise a staccarsi dal gruppo delle sue amiche. Molti buona sera e dei buon viaggio risuonarono nell’aria, qualche bacio fu scambiato; Marcello che attendeva, discorrendo con Aldemoresco, Cantelmo e Filomarino, si accostò ed aiutò sua moglie a salire in carrozza.
— Vuoi far chiudere il mantice? — chiese, salendo dopo lei.
Ella dette uno sguardo dattorno, ravviò le pieghe del suo mantello bianco e rispose:
— No; non fa fresco per nulla.
La carrozza partì al piccolo trotto per la via principale di Castellammare. Le case erano buie. Solo i saloni degli alberghi erano ancora illuminati, aspettando qualche dama in ritardo dal ballo. Ma presto la carrozza cessò di rotolare sul selciato della città e, rallentando il suo trotto, prese ad ascendere quel nastro sinuoso che è la via per Sorrento. Alle tre del mattino, in quella notte di settembre, sembrava giorno. Certo non un giorno fulgido, dal colorito di sole, ma un giorno biancastro, settentrionale, molliccio e placido. Nel plenilunio tutto diventava candido; pareva che larghe falde di neve, chete, tranquille, si fossero posate dalle colline, pei villaggi, al mare. La strada polverosa, giallastra, s’imbiancava anch’essa.
— Sei stanca? — domandò Marcello, accomodandosi meglio nel suo cantuccio.
— Un poco; ci vorrà tempo ad arrivare?
— Non possiamo metterci meno di due ore.
— Ah! — fece lei, e ricadde nel silenzio.
Egli cavò di tasca il suo portasigari ed accese una delle sue sigarette. Fumava molto, da qualche tempo. Beatrice rimaneva nel suo angolo, non tenendosi diritta come al solito, ma abbandonandosi un poco alla spalliera. Nel suo abito di foulard bianco-appannato, a pisellini rossi, ornato di merletti bianchi dallo strascico a sbuffi, qua e là sostenuti da gruppi di garofanetti bianchi a puntini rossi, era stata adorabile, non era rimasta quieta un momentino sulla sua seggiola. Aveva ballato molto, molto. Marcello, no; due o tre volte lo aveva veduto girare per le sale, ozioso, incapace di prendere interesse alle quadriglie o alle tavole da giuoco, con una noia mortale, che gli si leggeva negli occhi. Nè lei gli aveva chiesto nulla; sapeva da tempo quanto lo infastidissero i balli. Ora ella si lasciava andare al senso beato di riposo, in una carrozza che camminava senza scosse, in un’aria benefica e dolce; anzi sotto il suo mantello di casimirra bianca, ricamato d’oro, di cui aveva rialzato sul capo il cappuccio, sentiva un po’ di caldo. Ma le giungeva tanto gradita quell’inerzia, che non voleva muoversi per prendere il ventaglio, buttato sul sedile rimpetto, insieme ad un mazzetto di garofanetti bianchi. Così in quel rallentarsi dei nervi, in quel cullamento fisico che arrivava a procurarne uno morale, ella si ricordava di dover dire qualche cosa al marito; ma non sapeva bene che cosa. Si fermava a cercare un poco nella sua memoria, socchiudendo gli occhi, divertendosi in quel piccolo lavorìo.
— Hai parlato con Amalia? — domandò finalmente.
— Sì, un momento solo; era malinconica.
— Infatti...
Ella tacque. A sinistra, la montagnuola coronata di agrumi, dalla base di tufo giallo, scavata in vani profondi, rettangolari, saloni singolari, in cui giacciono alla rinfusa grossi massi di tufo, dai profili duri e spiccati. A destra un filare di alberi che corona la rupe a picco sul mare; ed il mare chiaro che si disperde nelle lontananze dell’orizzonte e pare non finisca mai, mai. Talvolta il filare d’alberi è un cespuglio di rami che si intrecciano, s’inchinano sulla rupe, lasciando per un buco rotondo come un pozzo, vedere un pezzetto di mare, talvolta il filare sparisce; rimane un muretto, una siepe bassa. Si può guardare giù. È profondo; ma non è un abisso. In quella soavità della luce lunare che si infiltra dappertutto, che attacca ad ogni foglia, ad ogni onda, fili bianchi e lievi, come quelli di una tela di ragno fantastica, non vi sono abissi o precipizi. In quella notte di settembre l’idea del nero è scomparsa. La natura si annega nel latte, si affoga in una dolcezza incommensurabile.
Marcello fece un moto. Beatrice, levandogli gli occhi addosso, gli disse sottovoce:
— Ti dà fastidio la coda del mio abito? Vuoi che la raccolga e la metta sul sedile?
— Non lo sento neppure il tuo abito — disse egli senza guardarla, tenendo il capo rivolto verso il mare. La sigaretta era spenta.
Ella si strinse nelle spalle. Poco a poco il cappuccio, che non era fermato sui capelli, era scivolato e caduto sulle spalle, senza che ella se ne accorgesse. La bella testa rimaneva libera; i capelli neri, stretti in due trecce, erano riuniti alla sommità del capo; dietro l’orecchio, lambendo il collo, un gruppo di garofanetti bianchi. La nuca restava nuda. Ora ella accompagnava leggermente col capo il movimento della carrozza, quasi volesse addormentarvisi. In verità, sentiva penetrarsi lentamente dalla mollezza carezzosa del raggio lunare; dalla nuca pareva che i benefici raggi penetrassero per tutto il corpo, sfiorando l’epidermide, producendo un delicato piacere, piccoli brividi, una sensazione di lieve calore. Agitando il capo appena, i fiori le strisciavano sul collo, il che la faceva sorridere. Una volta chiuse gli occhi; ma riaprendoli, come una visione fluttuò davanti al suo sguardo e le parve di essere vestita tutta di bianco, in una carrozza bianca, fra una collina di argento ed un mare candido. Ebbe un momento di paura. Ma tutto in un momento ritornò alla realtà. Pure quel paesaggio rimaneva strano, inverosimile, troppo candido in quella notte di settembre.
— Che buon odore — disse Marcello fiutando l’aria.
— Saranno forse i miei garofani — rispose ella sottovoce.
— Hai dei garofani tu?
— Guarda, sono là, sul sedile. Ne ho anche sull’abito.
— Te li ha procurati il giardiniere?
— Ne abbiamo nel parco due aiuole. Le ho fatte spogliare.
Entravano in un villaggio, nelle strade brune, fra le case di due soli piani. Ivi la luna non penetrava. Ci era buio, triste, la medesima impressione di un treno che corre nell’aperta campagna e poi va a nascondersi in un tunnel nero e le conversazioni si sospendono bruscamente, e si chiudono gli occhi, per illudersi di essere ancora nella luce. Beatrice, uscendo di là, ebbe un sospiro di sollievo. Aveva cavate di sotto la mantiglia le mani calzate di lunghi guanti trasparenti in seta bianca, e le teneva abbandonate in grembo, quasi desiderosa ancora di provare le morbide impressioni di prima; e da capo, lentamente, il raggio lunare, quieto conquistatore, s’impadronì di lei.
— Tu ami i profumi, Beatrice? — chiese d’un tratto Marcello.
— Io no.
— Era naturale — disse lui con una singolare inflessione nella voce.
— Perchè?
— Per nulla.
Beatrice gli rivolse un’occhiata, che era ancora un’interrogazione. A che un mistero in quei chiarissimi albori? Quella natura aperta, senza angoli di oscurità, senza ombre, svelata nei suoi più intimi recessi, non poteva permettere all’uomo di chiudersi nel bruno segreto della sua anima. Ma Marcello si ostinava a fissare il mare, e Beatrice si meravigliò con sè stessa dei suoi pensieri troppo poetici. Ora si faceva riprendere da una lieve sonnolenza, un torpore delle membra, una mollezza dei nervi. Non voleva dormire, no; anzi pensava ostinatamente che le avrebbe fatto male addormentarsi al fresco della notte, nella sua carrozza scoperta. Così, per sottrarsi a quel torpore, per persuadere sè stessa di essere bene sveglia, voleva fissarsi sopra un’idea; chi pensa, non dorme, nevvero? Cercava riunire tutte le impressioni del ballo, ricordare per filo e per segno quanto ella aveva fatto, quello che aveva visto fare agli altri; ma si accorgeva di perdere un ricordo, mentre ne trovava un altro; mancava il filo che li congiungesse tutti. Alla porta della sala stava per ricevere le signore il duca di Rivela; sì, il duca. Non era lui che l’aveva maritata a Marcello? Sì; ma questo non ci entrava. Voleva farsi venire in mente con chi aveva ballato il primo ballo. Con Mimì D’Alemagna, che dopo si era dedicato esclusivamente alla Filomarino. Marcello girava per le sale pallido e muto, con la noia dipinta sul viso. La Giansante, nei lancieri, aveva fatto una riverenza troppo profonda, si era impigliata nella veste ed era caduta; molte signore avevano riso, nascondendosi dietro il ventaglio. Il breve cotillon rustico ella lo aveva ballato con Paolo Collemagno, che le sedeva daccanto, negli intervalli, pallido e taciturno come suo marito, quasi fossero attaccati ambedue dalla stessa fatale malattia. Ella, che si sentiva gaia, gli aveva chiesto: «Che avete, Collemagno?» Egli con la sua voce dolce e rispettosa, le aveva risposto: «Grazie, signora, niente.» Poi ad ogni giro di waltzer l’aveva trascinata via con un ardore febbrile. Ella udiva ancora nell’orecchio il ritmo acuto, stridente, quasi beffardo del waltzer di Metra; le pareva di ballarlo ancora, con Paolo Collemagno, sbiancato nel volto e silenzioso; le pareva di ballarlo sulla via che dava sul mare, senza parapetto, senza siepe; le pareva che Marcello girasse ancora attorno ad essi, vivente ritratto di Paolo, fratello di Paolo; le pareva che irremissibilmente l’ironico ritornello del waltzer la trascinasse sull’orlo della via dove era il pericolo, il pericolo di una caduta profonda, profonda, profonda...
La carrozza dette un grande balzo contro un sasso e Beatrice si scosse di soprassalto dal suo letargo, si guardò d’attorno; avevano fatto più della metà del cammino.
— Dormivi? — le domandò Marcello, con indifferenza.
— Non dormivo.
— Ti potrebbe far male; la nottata è dolce, ma queste calme dell’autunno sono perfide.
— Ti assicuro che non dormivo — riconfermò Beatrice.
La sua voce, per solito così uguale e fredda, era diventata languida, lenta, quasi raddolcita.
— Ti è caduto il cappuccio — disse Marcello e stese la mano per alzarglielo sulla testa.
— No, no; lascia stare — disse ella prontamente, arrestandogli il braccio.
Egli sorrise con un po’ di amarezza. Stette per dirle qualche cosa, ma si rattenne. Beatrice era desta, adesso: non sognava più; poichè quegli strani pensieri così insoliti, così bizzarri, non potevano essere che sogni. Badava bene a non ricadervi. La sua mantiglia, foderata di seta, le dava un caldo insopportabile, la soffocava; la sbottonò un poco alla gola, per respirare più liberamente. L’avrebbe tolta via volentieri: ma vi era Marcello che ne l’avrebbe rimproverata. Passavano per un altro villaggio. In un cortile di casa rustica, una giovinetta massaia, alta, bruna, forte, con un fazzoletto rosso, stretto sui capelli neri, la gonna succinta, metteva le fascine nel forno, già acceso; un garzone le porgeva le fascine man mano, fissandola e sorridendole. Un amante forse: Marcello e Beatrice si guardarono; Marcello fece un moto derisorio, Beatrice sorrise appena, quasi solo per secondarlo. Dopo un momento, riebbero la via maestra, fra la collina e il mare. La luna era calata abbastanza sull’orizzonte, la striscia che segnava sul mare si assottigliava, si assottigliava, come un acutissimo cono d’argento, il cui vertice, ultimo punto lucido, si disperdeva nell’indefinito. Di grado in grado che la luna discendeva, pareva che tutti gli oggetti per una mistica attrazione si allungassero verso lei, si slanciassero con un desiderio verso la sua plaga, come per rimanere un minuto di più nella sua luce. Nulla si oscurava ancora. Ma le piante che coronavano la montagnola, i fichi d’India, dalle foglie tropicali e mostruose che discendevano lungo il tufo, pareva fremessero appena, perchè dovevano essere i primi ad entrare nell’ombra. Ma il cielo rimaneva ancora così latteo, che le stelle piccine vi scomparivano, le più grandi brillavano fiocamente, quasi appannate, quasi smorte di dolcezza. Nella carrozza nessuno dei due si occupava del cielo. Marcello abbassava il capo pensieroso. Beatrice era di nuovo presa dall’inquietudine sottile di dover dire qualche cosa a suo marito, qualche cosa che aveva dimenticato.
— Hai letta l’ultima lettera di papà? — chiese, credendo di aver ricordato.
— No.
— Vuol sapere quanto altro tempo resteremo a Sorrento.
— Egli ritorna? — rispose lui, eludendo la vera risposta.
— Non ancora. Debbo scrivere che rimaniamo sino alla fine di ottobre? Nel caso giungerebbe in tempo.
— Fa come credi.
— Ma resteremo noi veramente sino allora?
— Io non ne so nulla — disse lui, quasi distratto.
Si annoiava di discorrere con lei. Era irritato. Mentre quel viaggio placido e lungo, quella luce, quella vastità di mare, calmavano e dilettavano Beatrice, egli trovava tutto questo eterno, stupido, insopportabile. La facoltà del sogno che ella acquistava, egli l’aveva perduta. Si sentiva arido, secco, con la fantasia insugherita, accartocciata e morta come una foglia appassita sul ramo. Il candore della natura gli appariva calcinoso. «Questo paesaggio è clorotico; ci si ispirerebbe un idealista»: aveva pensato fra sè. Egli era in contraddizione con quanto lo circondava. Invece della notte, avrebbe voluto il giorno caldo e polveroso, in una fracassosa via di città, col fumo dei sigari, l’urto delle persone affaccendate, il mormorìo e lo scoppio delle voci. Avrebbe voluto, invece di stare all’aperto, essere in un salotto chiuso, malsano, dall’aria viziata, dalle portiere pesanti, dai colori vividissimi, crudi, dal silenzio voluttuoso. Quella placida poesia gli era insoffribile; lo riprendeva il desiderio dell’agitazione febbrile, delle sensazioni acute e dolorose, della esaltazione nervosa. Il viaggio gli sembrava lunghissimo...
Dalle spalle di Beatrice era scivolata sulla stoffa dell’abito la mantiglia. Al termine del viaggio, ella si concedeva tutta nella sua acconciatura da ballo, con le linee perfette del suo busto disegnate nella corazza, ella si concedeva tutta al raggio lunare. Finiva ormai il cammino ed ella quasi se ne doleva. Quel diletto solitario, quieto, egoistico, di cui si compiaceva tanto, finiva. Pochi altri momenti ancora e la bella impressione diventerebbe anch’essa un ricordo. Entravano in Sorrento. Sulla piazza, la statua di Sant’Antonino, tutta di piperno bruno, arieggiava quella notte il marmo. Non rimaneva che un altro piccolo tratto di campagna, appena fuori Sorrento; villa Trevisani, villa Mendozza, villa Torraca...
— Ferma un momento, Pietro — disse Marcello, rivolgendosi al cocchiere.
— E perchè? — chiese ella, meravigliata — non siamo giunti ancora.
— Io scendo un po’ prima. Fo due passi; tu va a casa. Ti raggiungo.
Non doveva dirgli nulla al marito? No, nulla; ne era sicura adesso. Ma entrando con la carrozza nel viale della villa Sangiorgio, tutta sola, ella si ravvolgeva nella mantiglia, con gli occhi chiari e lucidi, il volto bianco, le labbra strette, colpita dal gelo mortale di chi ha dormito o sognato lungamente sotto il perfido raggio della luna.