< Cuore infermo < Parte Quarta
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IV.


Lalla si cullava nella sua poltrona americana; Marcello che sedeva quasi ai suoi piedi, sopra uno sgabello, aveva tentato più volte di fermare la seggiola che ondulava, poggiando la mano sul bracciòlo. Ma con un moto brusco, Lalla aveva scostata la mano, riprendendo il suo cullamento. Quella sera si preparava burrascosa. Lalla non parlava; una ruga le solcava la fronte; gli occhi parevano intorbidati, come se una tempesta si agitasse nella profondità del suo cervello; la bocca si stringeva tanto che scomparivano le labbra. Aveva morsicato tre volte la trina del suo fazzoletto, tirandone i fili coi dentini. Ora spezzava poco a poco, con un diletto visibile, i fiorellini, intagliati delicatamente, di un ventaglio di avorio.

— Sei ammalata, forse? — le domandò Marcello, inquieto.

— No.

— Nervosa semplicemente?

— No.

— Annoiata?

— No.

— Qualche cosa ti dà fastidio?

— Niente.

L’ultima risposta fischiò fra i denti stretti. Marcello scosse il capo. Ormai si abituava a quella variabilità continua, a quel mistero rinascente e contraddittorio che era il carattere di Lalla. Anzi quell’ansietà dell’ignoto che lo signoreggiava ogni volta che doveva vederla, aumentava il suo trasporto.

— Vuoi parlare o vuoi che stiamo zitti? — le domandò, come si fa ad un fanciullo ammalato.

— Io non voglio niente.

— Me ne vado allora?

— Vattene pure — disse lei, senza alzare il capo.

Egli, difatti, si alzò per andarsene. Ma non arrivò che alla porta del salotto.

— Voglio vedere se hai il coraggio di andartene — disse ella, con voce stridente, stringendo le mani sui bracciali della poltroncina, come se volesse conficcare le dita nel legno.

— Mio Dio! mio Dio — mormorò Marcello sottovoce, con una espressione desolata — io non so più che cosa fare.

— Hai ragione, io sono folle. Perdonami, Marcello — disse Lalla, tendendogli la mano, mentre alcune lagrime le ammollivano lo sguardo troppo scintillante, troppo duro.

— No, no, la colpa è mia, Lalla: sono io lo sciocco a non saper indovinare i tuoi desiderii. Ma quale è dunque il motto di questo enigma? Io t’amo ed intanto non ti comprendo.

— Neppure io ho compreso mai nulla di me — rispose Lalla, col tono di una assoluta sfiducia.

Si guardarono, colpiti dal medesimo triste pensiero.

— Vediamo, cara — disse lui, prendendole le mani — vediamo se posso indovinare. Hai tu desiderio di qualche cosa molto strana, di quale sensazione assurda?

— Io non ho neanche la potenza di formare un desiderio, Marcello. Io mi sento vuota ed inerte — disse ella malinconicamente.

Marcello chinò il capo. Era di nuovo vinto dal sentimento della sua impotenza. Comprendeva di non avere alcuna influenza sullo spirito di quella donna.

— Tu non mi vuoi più bene — mormorò.

— Può darsi.

— Almeno dovresti avere interesse di accertartene — ribattè egli ironicamente.

— Ne sei certo tu? — domandò Lalla, con uno sguardo scrutatore.

— Io non ne so nulla — rispose Marcello brevemente.

E per calmarsi si alzò ed uscì fuori il balcone aperto, dove rimase un poco. Quando rientrò era più tranquillo.

— Che hai fatto stamane? — gli chiese Lalla, come se volesse distrarsi.

— Sono andato a Castellammare.

— Chi hai visto?

— Tutti quanti, Cantelmo, Filomarino, Ayerbo, D’Alemagna. Abbiamo fumato, abbiamo preso delle limonate, abbiamo provato un cavallo che D’Alemagna ha comperato. E poi più altro. E tu?

— Io... ah! io ho letto un libro stupido molto. Una lettera anche più stupida di Paolo Collemagno.

— ... Hai risposto?

— No; risponderò.

— Perchè?

— Per questo — disse lei, adoperando quella frase misteriosa di donna, che nulla spiega ed a cui nulla si può rispondere.

— ... E dopo? — disse Marcello, passandosi una mano sulla fronte che gli ardeva.

— Dopo, ho passeggiato nel parco.

— ... Nel parco? — chiese egli, preso da un vago timore.

— Sì, nel viale di destra, quello che rasenta il tuo parco.

— Al solito — disse egli, impallidendo.

— Già, al solito. Ma, come tutte le mattine, è stato inutile. Ella non viene da quella parte.

— Tanto meglio.

— Perchè?

— Te l’ho già detto; parliamo d’altro.

Lalla fece un moto di fastidio. Poi, vedendo l’espressione dolorosa che si dipingeva sul volto di Marcello, sorrise. Veramente quel suo maligno sorriso le aveva segnato due pieghe crudeli agli angoli delle labbra.

— Dicono che la grotta della Sirena sia molto bella — disse ella vagamente, senza indirizzarsi a Marcello; — io dovrò andare a vederla.

— Andiamovi insieme, Lalla.

— ... Ma che è questa sirena?

— È uno scoglio che si erge nella grotta. Penetrandovi, non si vede nulla; ma quando gli occhi si sono assuefatti a quella oscurità, si vede sorgere e profilarsi la bianca figura di una sirena. È un’apparizione magica; si resta là silenziosi, incantati in quell’aspetto...

— Effetti di luce — disse Lalla.

— Appunto. Una illusione. La sirena non è che una stalagmite, uno scoglio, una pietra dura ed aspra.

— Ecco della poesia molto personale, Marcello — disse ella col suo risetto stridulo.

— Se fossi un poeta, te la dedicherei, Lalla.

— Io rifiuterei; odio i poeti che fanno i versi. Ma quella sirena m’interessa. Peccato che sia un’illusione! Il mondo ha bisogno di sirene. La fantasia dell’universo se ne muore per mancanza di sogni...

— Andiamo laggiù insieme, Lalla?

— Adesso?

— È notte, non si vedrebbe niente.

— Infatti, la sirena non si fa vedere nella notte. Essa scende nei regni azzurri ad amare. Ma quali sciocchezze diciamo! Siamo nebulosi, nordici questa sera. Le Loreley ci occupano troppo. Al sud, al sud, Marcello. L’altra notte, quando capitasti qui dal ballo, non mi dicesti niente. Raccontami. Era bello?

— Bello e stereotipo.

— Molte signore?

— Molte, per un ballo campagnuolo. Ne contarono ottanta.

— Si ballò molto, si giocò, si cenò? Dimmene dunque.

— Tutto come al solito. Purtroppo niente di nuovo. L’unica nota di questi divertimenti è la noia profonda che hanno con sè.

— Credi tu un obbligo il dirmi che ti sei annoiato dove io non era? Ti dispenso da questa finzione cortese.

— Quanto sei amara, Lalla!

— Io spero di essere amara. Sono pentita di non essere venuta al ballo.

— Perchè?

— Avrei visto tua moglie, le avrei parlato. Era adorabile, nevvero?

Marcello non le rispose. Un interno tremore lo aveva assalito, appena prima di questa domanda. La presentiva. Fatalmente, attirati per una china irresistibile, quei due ricominciavano a parlare di Beatrice. Il loro pensiero si distraeva, divergeva, prendeva le vie oblique, ma immancabilmente finiva per ritrovarsi al medesimo punto. Era questo lo spaventoso tormento della loro passione. Sempre in due, sempre soli, avevano finito per vivere in tre. Quando Lalla taceva e s’impensieriva, quando era presa da quelle sue esaltazioni bizzarre, Marcello sel sapeva — ella pensava a Beatrice. Quando Marcello compariva vinto da una tristezza ineffabile, quando la desolazione del suo spirito si manifestava incurabile, Lalla sogghignava, indovinando che egli pensava a Beatrice. Insieme dissimulavano; ma quel fenomeno era troppo energico, perchè potessero celarlo del tutto. Il loro strano amore era cominciato nel nome di Beatrice, lei lontana. Per diletto malsano Lalla si era compiaciuta di gettarlo spesso in viso a Marcello, come una sferzata, nel più alto momento della passione; se ne era compiaciuta maggiormente, perchè ella stessa sentiva nel petto il contraccolpo di quel dolore. E per quanto questo nome ritornasse sovente fra loro, avvolgendosi poco a poco nelle curve morbide e allacciatrici delle sue lettere, pure l’impressione era vivissima. Non potevano obliarlo che per poco: quando essi cadevano in quel languore che è la stanchezza dell’amore esuberante, quando si abbandonavano volonterosi a quell’oblio che è l’egoismo seducente dell’amore, ad un tratto il ricordo di quel nome li faceva sobbalzare. Quando essi si gettavano alla cieca in que' dissensi, in quelle lotte di parole pungenti, in quelle battaglie feroci che esasperano e che sono solo la necessità triste dell’amore, quel nome più li inaspriva, li aizzava. Si ostinavano a fuggirlo, ma esso si ripresentava contro la loro volontà. A Sorrento tutto era peggiorato. La vicinanza materiale dava corpo, adesso, alla vicinanza morale. Adesso essi la sapevano poco lontana, la sentivano presente. Marcello non poteva dimenticarla; Lalla non poteva dimenticarla; unica differenza fra loro: Marcello cercava sottrarsi in tutti i modi a tale singolare tortura, esitava a profferire quel nome, schivava ogni discorso che vi si ravvicinasse; invece Lalla, avida ricercatrice di impressioni estreme, si lasciava sedurre da quella cattiva inclinazione, vi s’immergeva con un tormentoso piacere. Era lei la prima a pronunziare il nome di Beatrice, a condurre la conversazione su lei, a interrogare minutamente, con insistenza, con un ardore implacabile, Marcello, su sua moglie. La mattina ella scendeva nel parco, con la speranza di poterla incontrare. Beatrice, indifferente, inerte, li dominava. Si scordavano di dirsi che si amavano. A volte, dopo uno slancio di passione, si arrestavano, freddi, smorti, guardandosi negli occhi, con una vaga diffidenza. Un giorno che Lalla aveva chiesto a Marcello come fossero i baci di Beatrice, egli era fuggito via, turandosi le orecchie, sentendosi lacerare qualche cosa nel petto.

— Tu non mi hai detto se tua moglie era bella — ridomandò Lalla, sorridendo.

— Credo di sì. Io non l’ho vista.

— Non la vedi più ora?

— No; non più.

— Sei fortunato.

— Perchè?

— Io la veggo dappertutto.

— Oh! Lalla, Lalla, come puoi dirmi sempre certe cose?

— Io valgo meglio di te Marcello. Io le dico, tu le pensi, e sempre.

— T’inganni.

— Non mentire, Marcello, già a nulla ti varrebbe.

— Nulla mi è mai valso con te.

— Sbagli; ti è valso qualche cosa. L’indifferenza di Beatrice.

— Dio santo! sempre questo nome! Ma non puoi tu scordarlo, crudele creatura che sei?

— Non posso.

— E io non conosco la parola efficace che t’induca a non pronunziarlo più!

— Anzi: tu dovresti fare una cosa, Marcello.

— Dimmela, se m’ami. Dovesse costarmi un tesoro, lo spenderò per sottrarmi a questa pena insopportabile.

— Odi: poc’anzi ti dissi di non avere alcun desiderio. Ho sbagliato; mi sono ingannata. Io l’ho un desiderio, aspro, cocente, assiduo. Le ore che passano, i giorni che fuggono, la mia fantasia irrequieta non fanno che accrescere la sua potenza. Sento che, soddisfatto, cesserebbe subito, immediatamente...

— Posso io darti quello che vuoi?

— Sì.

— Ebbene, dimmelo.

— Io voglio vederla, voglio parlarle.

— Di nuovo!?

— Una volta sola; cinque minuti soltanto. Te ne supplico, Marcello...

— Tu sei folle, ed io sono più folle di te ad ascoltarti.

— Non sono io folle — esclamò Lalla, animata da una rabbia sorda — sei tu che l’ami ancora, sempre.

— Per pietà, sii buona...

— Tu l’ami, Marcello, tu l’adori come una regina, come una dea.

— No!

— Tu mi sagrifichi ad essa; è naturale. Tu non vuoi che tua moglie s’incontri con la tua amante. A che dunque il tradirla? Non amare, non odiare a metà. Perchè non hai voluto che io venissi nella chiesa dei Sangiorgio?

— Sarebbe stato mostruoso.

— In questo caso, tutto è mostruoso: specialmente l’amore.

— È lei che ha detto di no.

— Lei? — chiese vivamente Lalla, mentre un fiotto di sangue le saliva al viso.

— Certo. Rifiutò, dicendo di aver già rifiutato ad altre dame. Ma che hai tu? — domandò egli, vedendola vacillare sulla seggiola, con lo sguardo smarrito.

— Soffoco qui dentro — rispose Lalla, con la voce spenta — conducimi fuori il verone.

Egli la sollevò dalla poltrona, come si fa di un bimbo infermo, e la condusse fuori il balcone. Ella rimase in piedi, col capo appoggiato allo stipite, con gli occhi chiusi, respirando lungamente. Marcello non osava interrogarla. Provava un’amarezza infinita, non trovando in sè e dintorno a sè che la infelicità completa dell’esistenza; non lottava più, era vinto, era annegato. Nulla si salvava da quel naufragio. Amore legittimo, amore colpevole, cuore aperto e vuoto, cuore chiuso e passionato: egli soffriva per tutto questo e tutto questo soffriva per lui. Il suo sogno era di essere obliato e di obliare; ma non poteva dimenticare, non poteva essere dimenticato. Le lagrime erano in lui, nelle cose che lo circondavano, nelle persone che amava, in quelle che lo amavano. Non un raggio in tanta tenebra. Non poteva analizzare il suo dolore. Era in una grande oscurità, vuota, uniforme, senza colore, senza suono.

Vide che Lalla aveva aperto gli occhi e lo fissava col suo sguardo nero, freddamente provocante. Egli, preso da un impeto di collera, la strinse fra le braccia, quasi volesse soffocarla, coprendole il volto ed i capelli di baci frenetici. Ma Lalla si svincolò ruvidamente da quella stretta.

— No, no! — gridò ella. — Ma non vedi? Tua moglie è là. Essa ci guarda.

E gli indicò con la mano, nella notte, la torricella di villa Sangiorgio, dove un lume brillava. Rimasero stupiti, immemori, l’uno accanto all’altra, intenti a guardare la finestra illuminata, affascinati da quella luce.


Alla piccola pendola suonò una mezz’ora. Lalla alzò gli occhi, ma il paralume posto sulla lampada non le lasciava vedere il quadrante.

— Che ora è, Marcello?

— Le undici e mezzo. Sei tu stanca? Debbo io andarmene?

— Sì, sono stanca — riprese ella, distendendosi nella poltrona americana, su cui era andata di nuovo a sdraiarsi — ma tu non andartene.

— Hai sofferto troppo questa sera...

— No, no, taci. Non parlarmi di questo... Dimmi di altro...

— ... Non so.

— Cerca, cerca qualche cosa di molto soave, di molto lento da dirmi. Fammi sentire la tua voce raddolcita dall’amore carezzarmi la guancia come un lieve bacio. Raccontami una bella istoria, un’istoria non vera, ma tutta candida. Il mondo è molto nero, Marcello...

— Un’istoria d’amore, cara? — disse egli, cercando racconsolarla come ella voleva. Quando vedeva quella donna umiliarsi nella bontà e nella dolcezza femminea, lo prendeva una grande pietà di lei.

— Sì, se vuoi. Cerca, amor mio, di allontanare le torbide visioni che mi agitano...

— Non pensarvi — egli mormorò — è già troppo triste la vita vera, per rendere malinconica anche quella dei sogni. Ascolta, Lalla, io so di un uomo che soffrì molto; eppure egli ebbe molte ore di grande felicità. Era un poeta; e quell’obblio che altri chiedono al vino, all’alcool, all’assenzio, all’haschich, all’oppio, quei paradisi artificiali, quelle ebbrezze prima gaie e leggiere, poi plumbee ed amare, egli le trovava nella sua fantasia. Come altri ha il dono della grazia, egli aveva il dono del sogno. La sua fantasia lo ubbriacava poco a poco. Che cosa sognasse, quali sconfinati orizzonti si aprissero al suo sguardo, quali sorrisi, quali trionfi, quali voluttà formassero il suo gaudio, egli non disse: ma usciva da quelle ubbriachezze pallido, soddisfatto, con una luce negli occhi...

— E poi?

— Poi? come tutte le ebbrezze, quella della sua immaginazione, spinta all’eccesso, divenne sregolata, folle, morbosa. Si distrusse da sè sola, per esaurimento. Il poeta diventò uno stupido.

— La tua storiella è mesta, Marcello.

— No. Non ti ho detto che egli fu felice? Non basta essere stato felice, per quanto più lungamente è possibile? La vita è premio o castigo di se stessa.

— Dimmi qualche cosa di gaio. Ti prego, aiutami a scacciare i miei fantasmi. Ora è il mondo dei sogni che mi spaventa. Parlami della verità, della verità ridente, rosea, azzurra, dorata...

— Sì, anche la vita può essere più bella di una illusione, purchè questa verità sia l’amore. Una volta un giovane si era formato, come tutti quanti, un altissimo ideale della donna che egli doveva amare; aveva per anni consacrato a questo ideale un culto segreto. Poi amò; ma la donna da lui amata nulla aveva del suo ideale. Eppure fu felice...

— La tua storiella vera è triste, Marcello.

— Gli è che noi siamo tristi, Lalla.

— No, non dirlo; ho paura di essere triste. Domani facciamo qualche cosa di molto gaio, di molto allegro...

— Dobbiamo allontanarci di qui...

— È vero, è vero, andiamo ad Amalfi, insieme, per amare...

— Io sono pronto. Manderò da mastro Tore, un armatore, che mi noleggerà una sua barca a vela... Sarà una gita deliziosa. La stupenda idea che hai avuta, Lalla!...

Si sorridevano, ora, pensando al giocondo indomani. Una grande quiete scendeva sovr’essi. La tempesta si era allontanata. Il dolore, la collera si rifugiavano in un angolo oscuro dell’anima, lasciandola libera. Si sentivano presi da una tenerezza soave, l’uno per l’altro, quasi che si compatissero. Era così che si riavvicinavano, che si riprendevano dopo le lotte feroci. Li sopravvinceva una debolezza pietosa, complice ipocrita di tutte le loro pacificazioni, Erano lì lì per chiedersi perdono a vicenda, come sempre, balbettando, evitando di guardarsi, con le lagrime negli occhi, coi sospiri affannosi...

Ad un tratto il silenzio intenso che era intorno ad essi fu turbato da un rumore che li fece trasalire. Si fissarono, meravigliati. Di lontano giungeva, ora debolmente, ora più distinto, il suono di un pianoforte; nell’aria calma, di notte, due mani invisibili scorrevano sovra una tastiera misteriosa. Era una musica grave e lenta, poggiata sulle note basse che sono così toccanti, che si allargano nell’anima come vibrazioni sonore; ogni tanto, una nota acuta vi metteva il suo squillo, come un appello, come un richiamo. Era uno di quei pensieri profondi che Beethoven svolge in un’armonia sobria e magistrale, in quelle ondulazioni melodiche che rassomigliano tanto alle gradazioni dolci di un quadro, alle curve morbide di una bellissima statua, all’onda fluttuante di un verso ispirato.

— È lei — disse Lalla, ritrovando il suo cattivo sorriso.

Egli non le rispose. Ambedue ascoltavano ansiosi, quasi che quella musica dovesse ad un tratto trovar parole e rivelar loro un segreto mortale. Essa penetrava nella stanza e la inondava di suono.

— È lei — ripetette Lalla.

— Forse no... — rispose Marcello, cercando ingannare anche se stesso.

— Ma sii franco. Come! Non senti che è lei, lei, proprio lei?...

— Non ha mai suonato, così, di sera...

— Ebbene, stasera ha inventato di suonare. È molto semplice, ella è sola laggiù, forse si annoia...

— ...Ella non amava la musica.

— Che ne sai tu? Hai mai compreso quello che ella amasse?

La musica dette in uno scoppio subitaneo, quasi imponesse loro silenzio. Riafferrati dalle loro superstizioni, tacquero. Erano risvegliati dall’assopimento in cui si erano immersi i loro cuori. Ogni nota di quella musica, che si perdeva nell’aria, aveva prima battuto sulla loro anima. Non pensavano più al compatimento, non pensavano più al perdono. Di nuovo erano dominati dalla inquietudine, dal bisogno di agitarsi. Il breve periodo di tranquillità, quando avevano creduto sottrarsi alla vista di quel lume lontano e vigilante, era scomparso. Ora, il tormento aveva solamente mutato forma; era diventato più assiduo, imperioso.

— La duchessa Beatrice suona molto bene — disse Lalla. — È del Beethoven, mi sembra. Se le rispondessi di qua?

— Non lo farete Lalla — disse Marcello, dandole involontariamente del voi.

— Avete ragione — rispose ella imitandolo per istinto. — Sarebbe inutile.

Si guardarono, muti, con una fredda collera negli occhi.

— ...Molta espressione, molta espressione — mormorò Lalla, prestando sempre orecchio. — Stimo che noi due abbiamo calunniato la duchessa, caro Marcello.

— Non fui io a parlarne, Lalla.

— Ipocrisie queste... ah! È Chopin che incomincia adesso. Era una fantasia ammalata, Chopin; ebbi per la sua musica una simpatia di sei mesi. E voi, duca?

— Io? Ho inteso poco di lui.

— La duchessa non ha mai suonato in vostra presenza?

— No, mai.

— È strano... — disse lei, pensierosa. — Udite, udite quanta malinconia in questo ritmo! Non una di quelle malinconie quiete, quasi sorridenti, che sono un dono celeste; ma una malinconia pesante, plumbea, soffocante. Tua moglie è triste, Marcello.

— In fede mia, io credo che tu l’ami più di me — disse lui, vibrandole questa frase come un colpo di pugnale.

— Forse.

— Vuoi tu disfarti di me? Non prendere vie occulte, sii franca.

Ella lo guardò con una espressione di disprezzo. La musica non cessava. Pareva che ispirasse, che accompagnasse il dramma che si svolgeva in quel salotto. D’un tratto Marcello si slanciò versò il balcone per chiuderlo, ma ritrovò Lalla, più pronta di lui, ferma, a sbarrargli il passaggio.

— Non voglio che tu chiuda! Voglio ascoltare — esclamò essa energicamente, con l’espressione di una volontà indomabile.

— Tu ne godi, non è vero? Tu ti consoli di questa mia disperazione?

— Sicura che me ne consolo — rispose ella, ridendo a scatti, impallidendo, come se quel riso la ferisse — non ti sembra un fatto molto grazioso, Marcello? Noi due sul balcone e Beatrice che veglia nella sua torricella e ci cruccia col suo lume; la fuggiamo, ella ci riprende colla sua musica. La storiella è preziosa.

— Lalla!

— A che servono le esclamazioni? Non è così forse? Qui il marito traditore che gorgheggia con la sua amante l’eterna canzoncina dell’amore, e poco lontano la moglie tradita che la fa da testimonio invisibile, che trova l’accompagnamento alla canzone. Ma parla dunque, Marcello! Dimmi che mi ami, che mi adori, mentre Beatrice esprimerà il cupo dolore del polacco ammalato. Sentiamo se è bello l’insieme...

— Lalla, te ne scongiuro, se hai cuore di donna, lasciami chiudere il balcone!

— No, tu non chiuderai. Il divertimento è molto piacevole. E durerà, te lo assicuro. Tua moglie non sa niente di certo; ma suonerà fino a che tu cadrai alle mie ginocchia...

— Lasciami chiudere.

— No. A qual pro? Il suono s’infiltrerebbe, entrerebbe ad ogni costo. Nulla potrebbe non farcelo udire. Vi siamo condannati.

— Come ti odio, come ti odio!

— Ed io quanto, quanto! — rispose ella, con un accento supremo, mentre egli fuggiva via.

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