< Cuore infermo < Parte Quarta
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Parte Quarta - IV Parte Quinta


V.


— Ho portato quassù lo scialle della signora — disse Giovannina, la cameriera.

— Perchè?

— Piove, e nell’attraversare il terrazzo potrebbe bagnarsi.

— Avete fatto bene. Ora discenderò. Il duca è fuori di casa?

— Sì, eccellenza.

— Ha preso la carrozza?

— No, eccellenza.

— E non si sa neppure dov’è per mandargliela. Uscendo, non mi disse dove andava...

— Il signor duca è assente da stamane.

— Sicuramente — disse la padrona, dando una occhiata severa alla cameriera. — Vi è Giuseppe, il cameriere del duca?

— No, eccellenza. È uscito col signore.

— Benissimo. Se ritorna, avvisatemi.

— La signora rimane quassù? Il tempo è pessimo.

— Rimango — affermò Beatrice, con un’altra occhiata imperiosa.

Giovannina se ne andò, a capo basso. Beatrice sel sapeva. Due o tre fra i suoi servi erano scontenti di rimanere ancora a Sorrento e incaricavano la cameriera di qualche piccola rimostranza. Quella gente si annoiava nella vita solitaria; amava il pettegolezzo ozioso dell’anticamera di città. D’un tratto Sorrento era stata presa dalla tristezza dell’autunno. Alle prime pioggie di settembre erano stati abbattuti i piccoli stabilimenti di bagni; indi una ventina di giorni ancora estivi, non cocenti: un’estate poco convinta, indecisa. Dopo erano cadute le pioggie di ottobre, pioggie lunghe, insistenti, che si portano via la polvere, il caldo, i colori troppo forti, i profumi troppo acuti, le foglie troppo verdi. La siesta del pomeriggio era abbreviata, i tramonti diventavano più corti, più mesti. Si passava rapidamente il giorno, la serata invece diventava lunghissima. I villeggianti erano presi dalla nostalgia di Napoli, delle sue vie rumorose, dei suoi teatri assiepati. Sorrento s’immalinconiva; vi si trattenevano ancora alcuni forestieri, qualche famiglia che non ama la grande vita cittadina, qualche ammalato. Ogni giorno schioccavano le fruste ed i sonagli delle carrozze in partenza. I Sangiorgio rimanevano. Nella cucina, dove i servi si divertivano a sbadigliare e a dormire, si facevano di molti commenti. Qualche ribellione trapelava. Il cuoco aveva dichiarato che era stanco della campagna. Giovannina aveva paura dei temporali e dei fulmini. Ma col padrone non c’era verso di cavar nulla; con la padrona non osavano. Era capacissima, con la sua ostinata volontà, di trattenersi a Sorrento tutto l’inverno.

Pure ella si accorgeva dell’autunno. Anzi, una piccola pena le nasceva nel cuore per l’estate che si distaccava, brano a brano. Era stata benissimo in estate, le sue giornate erano trascorse in mezzo a gradevoli occupazioni. Lo rimpiangeva; e nel medesimo tempo si sentiva predominata dall’autunno. Non si occupava più che tanto del suo ricamo, delle sue letture, dei suoi abiti: era presa da una grande noia di queste cose. I suoi pensieri non erano più regolati dal movimento monotono dell’ago che va e viene; ella non si assorbiva nelle pagine di un libro; invece, spesso, sorprendeva sè stessa in una distrazione profonda. Dalle gelosie socchiuse guardava sovente i viali del suo parco, immergendosi nella contemplazione di quel lago verde, dove comparivano le tinte gialle e rosse autunnali. Aveva ripreso i suoi acquerelli, studio di giovanetta obbliato per tanto tempo; un angolo del parco che ella aveva preso a dipingere, giaceva incompiuto sul cavalletto ed i colori si disseccavano nei bicchieri. Molto spesso non usciva nel pomeriggio e non si svestiva della sua veste da camera, quasi che quell’abbigliamento largo e comodo, convenisse di più al languore da cui si sentiva compresa. Alle volte, dalle sue distrazioni, cadeva in un sonno leggiero, quasi un dormiveglia, dove le pareva di pensare ancora, mentre sognava. Se ne svegliava tutta arrossita, con la testa pesante e la bocca amara. La sera suonava il pianoforte, ma uscivano di sotto le dita, ogni tanto, strani accordi che l’autore della musica non aveva scritti. Tale l’impressione dell’autunno su di lei; eppure ella non si decideva ad abbandonare Sorrento.

Quella sera, mentre fuori cresceva il rumore della pioggia, ella era sola nella stanza della torre, occupata a leggere. L’interruzione di Giovannina era stata breve ed ella aveva ricominciata la sua lettura. Dopo un quarto d’ora, se ne stancò e posò il libro; allora solo parve accorgersi della pioggia.

— Come farò ad attraversare il terrazzo con questa pioggia? — pensò tra sè, e sentì scorrersi un brivido per la persona, all’idea che quell’acqua dirotta potesse rovesciarsele sul capo.

Conveniva aspettare. Passeggiò su e giù nella stanza, fermandosi presso qualche mobile, a sfogliare un album, a fissare la cornice di un quadro, ad aprire e chiudere un cofanetto da ritratti. Quel cattivo tempo la rattristava. Per la prima volta in sua vita era dispiacente della solitudine: una voce umana che rispondesse alla sua, le avrebbe fatto un certo piacere. Non si può leggere sempre ed il troppo pensare nuoce. Talvolta la parola che si espande è più bonaria del pensiero che si chiude e si profonda nel suo solco. Desiderò la presenza di un’amica, di Fanny, di Amalia, di suo padre o di Marcello. Erano follie. Bisognava trovare un’occupazione per aspettare che la pioggia cessasse, per scendere giù negli appartamenti. Leggere, non voleva più. Il libro inglese di Dickens, Dombey and Son, la impressionava troppo, con quel sorriso che velava le lagrime, con la morte di quel bambino già vecchio. Per un momento, insieme allo scroscio di acqua piovana, le era parso udire nell’aria lievi sospiri dolenti. Assolutamente non avrebbe più letto. Ah!... doveva scrivere una lettera alla principessa di Brancaccio che le chiedeva il suo nome per una Commissione di beneficenza. Ricercò la sua cartella e scrisse una lettera più lunga che non volesse la circostanza. Prima di chiuderla, si volle ricordare, se non avesse a scriverne qualche altra. No. Rilesse quella. Mancava la data: Sorrento, 20 ottobre... Che era adunque quella data? Il dì dei matrimonio, non è vero? Era trascorso un anno.

Andò verso la porta; la pioggia diminuiva, si chetava. Ancora un altro poco ed avrebbe potuto attraversare il terrazzo all’asciutto. Tra le nuvole nere qualche stella brillava, poi scompariva; solo l’orizzonte non si diradava. Ma ella non potette resistere all’impazienza. Si mise lo scialle sul capo e lo cinse alla vita, come fanno le contadine; raccolse, sollevò il suo abito ed affrontò quei dieci passi, sotto la pioggia. Alcune goccie, che le caddero sulla fronte e che le recarono un grande refrigerio, la fecero accorta che aveva la testa calda; forse per la soverchia attenzione posta nella lettura. Scendendo la scala a chiocciola, incontrò la Giovannina.

— Vostra eccellenza si è bagnata? Non ha voluto suonare?

— No. Non mi sono bagnata. Piove poco. È ritornato il signor duca?

— No, eccellenza.

— Nè Giuseppe?

— Neppure, eccellenza.

— Ricordatevi, come vi ho detto, di avvisarmi se vi sono novità.

Ed entrò nel suo salotto quasi sperasse di trovarvi qualcuno. Era vuoto, naturalmente. Se ne indispettì. Che avrebbe fatto quaggiù? Da capo diventava impaziente, inquieta. Girò un poco per la stanza, fermandosi dietro i vetri del balcone, fissando l’oscurità della campagna, il cielo che tornava a scomparire dietro le nubi. Poi andò a gittarsi in una poltrona, chiudendo gli occhi come se volesse dormire. Era rimasta due minuti così, quando un nuovo scroscio di pioggia la riscosse. Il salotto le pareva nero, pauroso. Tirò il campanello con forza.

— Accendete un’altra lampada — disse brevemente.

Quando vide maggior luce, quando ogni cantuccio del salotto fu illuminato, parve sollevarsi.

— Accendete anche i lumi in camera mia, Giovannina — soggiunse con una certa dolcezza — e lasciate la porta aperta.

Dal punto ove stava, vedeva una parte della sua camera in grigio-azzurro, quasi calda, quasi sorridente, piena d’una gaia luce.

— La signora desidera andare a letto? — chiese Giovannina, ritornando.

— Che ora è?

— Le dieci e mezzo.

— Resterò ancora; vi chiamerò.

Sola, sempre sola. Fuori la tempesta imperversava. Una gelosia, mal chiusa, strideva ogni tanto sui gangheri, con un piccolo lamentìo. La pioggia cadeva, spinta ora a destra, ora a sinistra, da un principio di vento, sicchè il suo rumore pareva che si allontanasse o si avvicinasse; talvolta pareva fosse cessato e subito dopo ricominciava con più vigore. Salvo la voce variabile della tempesta, salvo il confuso ed immenso balbettìo, non una voce umana, non un grido, non un respiro: la natura era oppressa. Beatrice soffriva: non poteva più negarlo a sè stessa. Doveva essere l’impressione di quella burrasca insistente, forte, tenace; doveva essere la elettricità che si scaricava nell’aria, col brontolìo di un tuono molto lontano. Ella era invasa da una grande tetraggine, quasi che tutta l’amarezza di cui è capace un essere umano, le si diffondesse per l’anima e pel corpo. Si sentiva nervosa, in preda a pensieri troppo tristi, a paure infantili; la bella luce dei due salotti e della camera sua, in tanta solitudine, con la tempesta che muggiva all’esterno, le sembrò una splendida pompa funebre...

— Signora, Giuseppe è tornato or ora da Sorrento. Lo vuol vedere?

— Fatelo entrare.

Giuseppe grondava acqua. Pure rimaneva in attitudine rispettosa, aspettando di essere interrogato.

— E il duca? — chiese Beatrice, cercando di non precipitare troppo questa domanda.

— Il signor duca mi ha dato questa lettera per l’eccellenza vostra.

Ella la prese; voleva aprirla, ma si rattenne.

— Andate ad asciugarvi, povero Giuseppe.

— Se la eccellenza vostra desiderasse qualche cosa...

— Andate ora; se avrò bisogno di voi, vi farò chiamare.

Voleva restar sola per leggere quella lettera. Già, era un biglietto; poche parole:


«Cara Beatrice,

«D’urgenza parto per Napoli; non so se potrò ritornare presto a Sorrento. Addio.

«Marcello


Ella rilesse due o tre volte le poche parole, aprì e voltò il foglietto, osservò bene la busta: niente altro. Marcello aveva omesso di scrivere con chi era partito. La data 20 ottobre... un anno era trascorso. Con chi era partito dunque, con chi? Andava su e giù nel salotto, stringendo le mani per dominare la sua agitazione. Ecco: tutto il resto non serviva, non le importava per nulla. L’ora singolare, quella notte burrascosa, quel viaggio impensato, quel biglietto monco ed arido, non pensava a tutto ciò: voleva sapere con chi era partito. Qualcuno doveva dirglielo, qualcuno, qualcuno... Giuseppe certamente. Anzi egli aveva insistito per parlare, aveva forse qualche incarico a voce...

— Giovannina, è di là il cameriere del duca?

— Si riscalda al fuoco, eccellenza.

— Venga subito da me.

E riprese i suoi giri nella stanza.

— Giuseppe, è il duca in persona che vi ha vi ha dato questo biglietto?

— In persona, eccellenza.

— Dove?

— All’albergo Tramontano.

— Non ha chiesto la sua carrozza?

— No, ma una carrozza era nel cortile dell’albergo. Mi disse di scendere domani a Napoli.

— Non aggiunse nulla per me?

— Nulla, eccellenza.

— Era solo?

— Solo.

— Benissimo. Scenderete domani a Napoli. La servitù può ritirarsi. Il duca questa sera non ritorna.

— E le chiavi, eccellenza?

— Quali chiavi?

— Quelle della casa. Sa che ogni sera si portano nella camera del padrone.

— Le porterà a me Giovannina. Domattina verrà a riprenderle.

Non avrebbe dunque saputo con chi era andato via? Nessuno voleva dirglielo? Solo: era solo. Menzogna; qualcuno si doveva nascondere con lui, qualcuno di cui vedeva i perfidi occhi neri, la bocca sarcastica, dietro il volto smorto e stanco di Marcello. Come aveva potuto partire solo? Era impossibile, impossibile, impossibile. Qualcuno doveva essere nascosto nella carrozza, dietro la portiera chiusa, dietro la tendina calata; fosse stata essa là, avrebbe aperta la portiera e sollevata la tendina, per guardare in faccia colei che si celava nell’ombra. Perchè non manifestarsi? Perchè le veniva taciuto il nome di chi aveva accompagnato Marcello nel suo viaggio? Nè lei, Beatrice, avrebbe trovato un mezzo per conoscerlo questo nome? Doveva vivere ancora una giornata, una notte, un’ora, un minuto senza saperlo?

Macchinalmente, quasi che in altro luogo potesse avere dalle mura o dai mobili una risposta, entrò nella sua camera. Si guardò d’attorno, ma non vide nulla. Allora si prese il capo fra le due mani, come se volesse concentrare tutte le idee disperse.

— Ecco le chiavi — disse Giovannina entrando. — Posso svestire la signora?

— No, non ho bisogno di voi. Potete andare a letto.

— Buona notte, eccellenza.

— Buona notte.

Beatrice tese l’orecchio per udire i passi della cameriera che si allontanavano, ascoltò il rumore delle porte che si chiudevano. Teneva intanto l’occhio fisso sul quadrante. Quanto ci voleva perchè tutti della casa dormissero? Un quarto d’ora? Mezz’ora? Quanti minuti, quanti? Il romorìo fitto, incessante della pioggia le impediva di accertarsi che un silenzio completo regnasse nella villa. Bisognava aspettare. Avere pazienza, molta pazienza. Solo così avrebbe saputo con chi era partito Marcello. Aveva le chiavi in mano, guardandole come trasognata; domattina la cameriera sarebbe rientrata pian piano a ripigliarle. Sino a domattina vi era tempo. Ce ne voleva molto ancora perchè i servi fossero addormentati profondamente? Dieci altri minuti sarebbero bastati? Come passare quei dieci minuti, come divergere il suo pensiero? Balbettare un’orazione al Signore, un’orazione lunga e senza senso? Oh! almeno cessasse per un istante l’uragano, per udire se nulla più si muovesse dintorno!

Prese il suo scialle e lo riadattò sul capo, annodandolo dietro la vita, come aveva fatto poco innanzi. L’impazienza l’aveva sopravvinta. Rigida, senza guardare innanzi a sè, lasciando la sua camera illuminata, per entrare nel buio dei salotti, dei saloni e delle anticamere, camminando senza fare un rumore, si diresse verso la scala a chiocciola che conduceva al terrazzo. Stringeva nella tasca dell’abito il biglietto di Marcello e le chiavi. Aprì la porta di basso, salì la scaletta lentamente, aprì la porta di sopra e corse, sotto la pioggia, verso la ringhiera a destra. Dove era adunque la piccola villa Torraca, dov’era? Dio! Non si vedeva più. Era oscurissima la notte; un fittissimo velo di pioggia celava circolarmente l’orizzonte. Per quanto aguzzasse gli occhi non giungeva a distinguere nulla. Restava là, sotto la tempesta d’acqua che le flagellava il viso, cercando penetrare con lo sguardo quel buio. Non poteva, non poteva — e mai, mai avrebbe saputo con chi partito Marcello...

Abbandonò la ringhiera, tornò dentro, discese, chiudendo pianamente le porte dietro sè. In anticamera si fermò un momento solo, scegliendo, all’oscuro, nel mazzo di chiavi. Invece di tornare in camera sua, schiuse la porticina della scaletta interna, per cui i servi scendevano nel parco; a tentoni, appoggiandosi al muro, contando gli scalini, discese. La toppa della porta che dava sul parco strideva; tentò tre volte di aprirla, ma faceva sempre troppo rumore. Gliene vennero le lagrime agli occhi; finalmente riuscì ad aprirla quietamente. Era nel parco. Nulla vedeva davanti a sè, ma era certa di ritrovare la via. Istintivamente tendeva la mano per toccare ed evitare qualche ostacolo, e rasentava con la persona i tronchi degli alberi del viale laterale. Il terreno molliccio, impregnato d’acqua, era divenuto pericoloso. In alcuni punti era sdrucciolevole, in alcuni altri il tacco dello stivalino vi rimaneva preso. Il vento si calmava alquanto, ma la pioggia cadeva dritta, continua, aprendosi un varco fra le foglie. Ma nessuna di queste sensazioni arrivava a Beatrice; ella pensava solo che il viale era molto lungo, troppo lungo e che doveva ad ogni costo sapere con chi era partito Marcello. Ogni tanto, macchinalmente, si riportava lo scialle, già bagnato, sulla fronte.

Infine incontrò un muro. Là si fermò un momento. Doveva seguirlo per ritrovare il punto dove la siepe soltanto divideva i due parchi. Vi si appoggiava, sentendolo sotto la mano umido e vischioso coi rivoletti d’acqua che scorrevano, pel polso, nel braccio. Il muro mancò, quasi precipitasse nel vuoto; cominciava la siepe, imbottita di spine, foderata di mortella; ella passò dall’altra parte, senza ostacolo. Ora non conosceva più la via. Era il parco di villa Torraca quello; gli alberetti bassi lo lasciavano indifeso contro la pioggia. Sembrava una via interminabile, nuda, ignota, sotto la tempesta. Le folate di vento turbinoso ricominciavano, formando piccoli cicloni di acqua. Tratto tratto Beatrice abbassava il capo per istinto. Credeva di camminare da un’ora. Ad ogni passo il suo desiderio potente, insoddisfatto si moltiplicava, diventava precipitoso. Cercava affrettarsi, ma le pareva di essere attaccata al suolo da invisibili legami; se ne distaccava con una pena infinita. D’un tratto il rumore della pioggia cangiò forma, diminuì, fu più sordo. Ella tese le mani innanzi... era arrivata! Era lì sotto la palazzina Torraca. Allora lentamente, con precauzione, ella girò attorno alla palazzina sfiorandone le mura. Si fermava ad ogni finestra del piano terreno: silenzio, oscurità, non un filo di luce. Se ne allontanò un poco per guardare le finestre del primo piano: nulla, chiuse ermeticamente, buie. Ritornò di nuovo, credette incontrare e riconoscere la porta dei servi: nulla, nulla sempre. Cercò il portone, tastò la serratura, trovò il catenaccio; la villa era deserta, abbandonata. Marcello era partito con Lalla D’Aragona.

In quel momento le parve che il cielo si capovolgesse, che il parco le turbinasse d’attorno; fu presa da un terrore sconfinato, terrore della notte, della solitudine, della tempesta, della casa vuota, del pericolo ignoto. Fuggì ansante, chinando il capo sul petto, soffocando le sue grida di dolore. Voleva chiudere gli occhi, ma non poteva; ombre nere le si rizzavano innanzi per impedirle il cammino; schivando l’una andava ciecamente ad urtare contro l’altra, senza sentire il colpo contro il duro tronco. Il vento la schiaffeggiava, sbattendole in viso gli insulti della pioggia; sotto lo scialle inzuppato si erano disciolti i capelli che colavano acqua nel collo; la casimirra dell’abito esalava un odore disgustoso; sulla pelle bruciante s’incollava il ghiaccio della camicia di batista. Lo strascico infangato, mezzo lacero, si trascinava dietro un virgulto secco, come un fruscìo di passi che la perseguitassero. Ella fuggiva, incespicando contro i ciottoli, sentendo solo il suo terrore sconfinato e le precipitose pulsazioni del suo cuore. Fuggiva come un’insensata, con le braccia strette al seno, coi denti serrati, sobbalzando come una cervia ferita. Alla siepe, l’abito si attaccò alle spine: ella cadde sulle ginocchia, mezzo impazzita, cercando distrigarsi, pungendosi e straziandosi le mani, lacerando i lembi del suo abito, credendo di dover morire là, avvinta alle spine: con un moto convulso se ne staccò e riprese la sua corsa. Due volte si arrestò in cammino, perchè il petto pareva si dilatasse per poter capire quel palpito sfrenato che la soffocava; due volte riprese la sua fuga, senza un barlume, perdendo la sua via, girando per i viali, ritornando donde era partita, supplicando mentalmente Dio di farle ritrovare la porticina. Finalmente vi andò a battere di contro; si arrampicò per le scale, attraversò come una freccia i saloni. La luce, il caldo, il silenzio della sua camera produssero una reazione. Ella andò a cadere presso il letto, sul tappeto, nei suoi abiti fradici, alzando verso il ritratto di Luisa Revertera le sue mani, e gridando con la voce del fanciullo disperato:

— Mamma mia, mamma mia!


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