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I.
— Ma non fa freddo — osservò la Filomarino, la cui tranquilla ed opulenta bellezza parea non potesse risentire alcuna impressione.
— Ebbene, io ho i brividi — rispose Amalia rannicchiandosi sulla sua seggiola come un uccellino freddoloso.
Le tre signore, prime arrivate, si erano riunite attorno alla padrona di casa, in un angolo del salone. Profittavano di quel momento d’intimità prima che giungessero altre visite e la conversazione divenisse troppo generale per rimanere molto maldicente. La Giansante, quella principessa spiritosa, brutta ed adorabile, che nessuno potea soffrire ed a cui tutti facevano la corte, aveva preso in mano il bandolo della conversazione. Raccontava tanto bene, con certi sottolineamenti di voce, con certi sorrisi maligni, che davano il solletico del riso alle interlocutrici. Alle volte non mancava qualche botta diretta ad un’amica assente. Amalia Cantelmo, Giovanna Filomarino e Fanny Aldemoresco scoppiavano in un grido d’incredulità meravigliata; a poco a poco facevano qualche concessione e finivano per accettare. Anzi la Filomarino aggiungeva qualche particolare, con la sua flemma fiamminga. La Aldemoresco — la migliore fra le quattro — teneva sempre la difesa, ma spesso doveva confessare che era una difesa sbagliata. Per la Cantelmo poi era un altro affare: scusava tutto col dramma della vita. La marchesa Cicerale, una donna a quarant’anni, aveva una relazione col giovane sposo di sua nipote? Un dramma. Alberto Sorito aveva perduto al giuoco settanta mila lire in una sola notte? Dramma anche questo. Il duca di Marenza, che discendeva da Carlo Quinto, che aveva titoli spagnuoli, tedeschi e francesi, ed idem denari di ogni conio, si dilettava ad ubriacarsi di vino cattivo? Ebbene, tutto ciò era molto drammatico. Ersilia Caracciolo moriva d’amore per Gerardo Mariconda che non la curava? Dramma profondo, completo. Da qualche giorno l’immaginazione di Amalia era stata colpita dall’attraente frase, letta in un libro: il dramma della vita. Ora la metteva dappertutto, con un’aria misteriosa e grave, con un sorriso di conscia compassione. La conversazione delle quattro signore si animava, passava rapidamente da un oggetto all’altro:
— ... Il padre glie l’ha rifiutata — completò Fanny un fatto cominciato dalla Filomarino.
— Ed il giovane si è consolato altrove: — aggiunse la Giansante — le consolazioni non mancano.
— No, no, cara — rispose Fanny — il giovanotto si è dato alla letteratura.
— Un poeta: io li adoro — disse Amalia.
— Neppure: scrive novelle pei giornali, qualche commedia pel teatro.
— L’avremo al Sannazaro, sicchè? — chiese la Filomarino.
— Non si sa — riprese Fanny. — Amalia, hai avuto per tua serata la Cecilia?
— Non me ne parlare: ho ancora i nervi tutti scossi. Quel Morto da Feltre aveva un viso bianco, bianco e spaventoso.
— Per me, non ci ho condotto mia sorella — osservò Giovanna. — Il dramma è un po’...
— Bah! — disse la Giansante; — quando si è andati all’operetta...
— Ma quelle sono in francese — aggiunse Giovanna con ingenuità.
— Infatti è un’altra cosa, cara mia.
— Poi un dramma è un dramma — confermò Amalia. — Vedete, care amiche, la vita è bella, perchè vi è il dramma. Ne avete voi a casa vostra?
— Io ce l’ho ogni giorno. Litighiamo sempre con mio marito, perchè egli non approva i conti di Worth — rispose, ridendo, la Filomarino. — Bisogna però confessare che l’ultima noticina era amarognola; ventidue mila franchi!
— Io credo di averlo — rispose, riflettendo, Fanny. — Sandro mi vuol bene ed io glie ne voglio, come tutte sapete. È un dramma questo?
— Una commedia, cara mia — disse la Giansante. — Il marito amante della moglie e viceversa. E tu Amalia?
— Io, io? inutile chiedermelo. Il mio dramma è... straordinario... è terribile...
— È una farsa, ci scommetterei — disse fra sè la Giansante.
Il servo annunziò a tempo la principessa di Montefermo e la sua figliuola, il conte Màrgari, il marchesino Caranni. Il gruppo delle signore si sciolse rapidamente, Amalia andò incontro sino alla metà del salone ai nuovi arrivati, misurando i passi a seconda della maggiore o minore cordialità che doveva usare a chi giungeva. La conversazione si allargò. Le signore erano sedute in semicircolo, agitando i ventagli piccoli ed inutili, per quell’istinto costante di movimento che è nella donna; intanto un fuochetto acceso nel camino manteneva un calorico amabile, escludendo l’umidità pesante della giornata di novembre. La Montefermo, sempre più bionda e sempre più sentimentale, aveva portata qualche notizia: parlava della contessina Montuoro, che aveva avuto felicemente un primo bimbo. La contessina stava benissimo, non aveva sofferto nulla — aveva soggiunto la principessa sottovoce, a causa di sua figlia che l’ascoltava, con la sua aria candida di fanciulla trentenne.
— È almeno bello il bimbo? — chiese Amalia.
— Già, somiglia molto al suo papà.
— Allora è brutto e calvo — fece, ridendo, la Giansante.
— Principessa, siete cattiva con Montuoro — mormorò il marchesino Caranni, con la sua voce di flautino.
— Bah! chi è cattivo con lui, dice anche di più...
— La contessina deve essere contenta. Un primo figlio dopo un anno di matrimonio, e maschio — sospirò la Fanny, interrompendo qualche botta feroce della principessa.
— Fastidi e null’altro — osservò la Filomarino. — Per me, almeno per adesso, non amo i bimbi. Mi darebbero noia. Più tardi, forse...
— Più tardi, è vero — approvò la padrona di casa. — Ma la Montuoro è fortunata; sarà levata di letto quando incominceranno i balli. Avremo una stagione brillante, Caranni?
— Si dice molto, ma nulla è ancor sicuro — rispose il più famoso dei direttori di cotillons. — Alla Filarmonica ne avremo tre; uno alla duchessa della Mercede; due in casa Della Marra; due dalla San Demetrio. E null’altro.
— Un numero discreto; bisognerà seriamente pensarci alle nostre toilettes: scriverò a Parigi — disse la bella Giovanna. — Sai nulla tu, Amalia, se la Sangiorgio aprirà i suoi saloni quest’anno?
— Credo di sì: lo dovrebbe. Non l’ho vista ancora, quando è ritornata da Sorrento... Forse verrà oggi...
Il servo annunziò tre o quattro nomi maschili. E subito dopo la contessa Mornile con le due figliole. Una evoluzione avvenne nel salone, dopo la loro entrata. Tre gruppi, poco lontani, si formarono. Un gruppo di signore, in mezzo Amalia Cantelmo; un gruppo di uomini attorno a un tavolo, un gruppetto formato dalle signorine Mornile e Montefermo. Le conversazioni diventavano parziali. Le voci si facevano discrete. Ogni tanto, quando un silenzio sopravveniva fra le signore, si udivano gli scoppiettii di risa delle signorine che parlottavano fra loro. Gli uomini parlavano sottovoce, con sorrisi maliziosi, occhieggiando alla sfuggita le signore e le signorine.
— Conte Màrgari? — chiamò Amalia.
— Contessa? — fece quegli avazandosi alquanto.
— Ci date notizie del San Carlo?
— È probabile l’apertura, contessa, per i quindici o venti dicembre — rispose il vecchio e cortese melomane.
— E le opere? e la compagnia?
— Aprono con l’Africana.
— Ancora del Meyerbeer! — esclamò la Giansante. — Ne avremo ogni anno.
— A me piace l’Africana — disse la Montefermo languidamente. — Quella morte sotto il manzanillo è poetica.
— E quel vascello che va a picco! — esclamò Amalia — di un grande effetto drammatico.
— Una musica stupenda — disse Màrgari; — qualche lungaggine, ma piena di carattere.
— Ci saremo tutte in prima dispari? — chiese la Filomarino.
— Io ci sono con mia suocera — rispose Fanny.
— Non me ne parlate — disse Amalia: — ho avuto un brutto palco, numero 12, di seconda fila; nell’ombra del palco reale.
— Io mi sono unita con la Ruffo — rispose la Giansante. — È abbastanza bella per formarmi un contrapposto.
Le signore ed i signori protestarono. Il servo annunziò Francesco Filomarino, Mimì D’Alemagna e Paolo Collemagno. I due primi, uno marito della Giovanna, l’altro fortemente indiziato di essere il suo amante, entrarono insieme, da intimi amici quali erano; Paolo Collemagno entrò dopo, suscitando un certo mormorìo fra le signore. Si conosceva il suo amore sfortunato per la D’Aragona, si ammirava la delicatezza con cui celava la sua passione, rimanendo sempre amabile, sorridente, un po’ taciturno in società. Le signore lo trovavano interessante; le signorine pensavano che un disingannato d’amore conduce talvolta al matrimonio. La sua entrata fu dunque un piccolo successo. Egli andò a mettersi dietro la seggiola di Amalia, chinandosi per dirle ogni tanto una parolina. I due gruppi si spostarono: i giovanotti si accostarono alle signore; i duettini cominciavano. Le signorine avevano chiamato Caranni e lo stuzzicavano per sapere che avesse inventato di bello per i cotillons futuri.
— La duchesa Sangiorgio — annunziò il servo.
Amalia si scosse, sorrise, si alzò rapidamente per andarle incontro sino alla porta del salone. Beatrice entrò insieme con lei. Il capitolo dei benvenuta, bentornata non fu esaurito così presto. Ella rimase un momento in piedi, circondata dalle signore, rispondendo ad ognuna col sorriso, con parole gentili, con quei graziosi inchini del capo, che ella aveva per pregio speciale. Quando sedette accanto ad Amalia, avendo dall’altra parte l’Aldemoresco, parve fosse un po’ stanca.
— Sei stanca? — le chiese Fanny.
— Ho salito le scale in fretta, e voi non mi lasciate respirare.
Ma presto si rimise. Le signore giudicavano mentalmente il suo abito di stoffa oliva a gilet pompadour, azzurro e rosa, ma insieme severo e gaio nel medesimo tempo. Ella rimaneva sorridente, un po’ pallida in volto. La trovavano alquanto cangiata. In meglio certo. Parevano più oscuri, più profondi gli occhi, una volta dallo sguardo grigio e chiaro. Amalia ora la sopraccaricava di domande, agitata, ripetendo due volte la stessa cosa. Cercava d’isolarsi con Beatrice, dimenticando le altre visite del suo circolo. Ma Beatrice voleva invece l’opposto, e la conversazione da capo divenne generale. Si discorreva di matrimonii. Francesco Filomarino aveva ricevuto lettere da Parigi: Gerardo Mariconda sposava una Talleyrand-Périgord.
— Si sa nulla della sposa? — chiesero due o tre dame.
— Non bella, charmante, come si dice laggiù — rispose Filomarino.
— Povera Ersilia Caracciolo! — disse Fanny. — Ormai non ci è più speranza per lei.
— Perchè? — domandò Beatrice, volendo pure prendere un qualche interesse a quello che si diceva.
— È innamorata di Gerardo, la poverina. Un amore infelice.
Ci fu un coro di rimpianto. Le signore s’impietosirono su quella delicata fanciulla che si struggeva nel suo affetto. Era un caso molto commovente. Beatrice stava a sentire con gli occhi abbassati, come pensosa. Quando li rialzò, vide di rimpetto a sè Paolo Collemagno che la guardava. Egli sfogliava distrattamente una rivista illustrata, mentre il suo sguardo si posava spesso sulla Sangiorgio. Per molto tempo gli era apparsa come una bella bambola dalle forme bellissime, dalle acconciature eleganti, una donna insignificante. Ma ora, senza comprenderne il perchè, quasi per istinto, egli si perdeva a chiedersi che donna fosse colei, quale pensiero nascondesse quella pura fronte; ed intanto si meravigliava del proprio interesse. Che gl’importava al fine il cuore della contessa Sangiorgio? Lo aveva ella semplicemente un cuore? Che vi sarebbe stato di cangiato nella propria vita per questo? Nulla, è vero; ma da capo ritornava a fissare quel viso, che gli sembrava misterioso. Sotto quello sguardo Beatrice si turbava.
— Perchè mi guarda? — domandava a sè stessa, mentre una fiamma viva saliva a colorarle il viso.
Amalia si era alzata due o tre volte. Era inquieta, guardava la porta. Poi si gittava a capo fitto in una conversazione vivace, quasi vogliosa di stordirsi. Beatrice la osservava meravigliandosene. Un momento ella fu colta da un pensiero rapidissimo: vattene di qui. Ma lo scacciò. Servivano il the, il the delle quattro, che i nobili napoletani si sono rassegnati a prendere, per imitare bene gli usi inglesi. Amalia aveva trovato un pretesto per celare la sua inquietudine; andava e veniva con le tazze in mano, fermandosi a conversare un momento coi giovanotti, occupandosi molto dei suoi doveri di padrona di casa. Beatrice e Fanny rifiutarono; non prendevano mai the. Discorrevano insieme. La Giansante aveva intorno a sè tre o quattro giovanotti, che si divertiva a confondere con le sue risposte taglienti: dal suo gruppo non partivano che esclamazioni di ammirazione, proteste, risate. La Montefermo si lasciava dire da Caranni che le donne tedesche erano la sua passione: ed il piccolo marchese dal cervellino minuscolo era tutto lieto per aver trovato questa bella frase. La contessa madre Mormile discorreva con Màrgari di un certo duetto dell’Orfeo ed Euridice che avevano cantato insieme trent’anni prima, mentre ella fingeva tenere d’occhio le sue signorine, che avevano trovato ciascuna un ammiratore. La Montefermo, figlia abbandonata, sbadigliava dietro il suo ventaglio; la Filomarino aveva dato la metà del suo biscotto a Mimì D’Alemagna che lo aveva rosicchiato, guardandola negli occhi, con una muta espressione di tutto il volto...
— La marchesa di Monsardo, la contessa D’Aragona — annunciò il servo.
Sulla sua seggiola Beatrice tremò tutta. Le palpebre le batterono due o tre volte come se provasse un abbagliamento. A Fanny che si chinava verso lei, colpita, mormorando:
— Dio mio, Dio mio...
— Non è nulla — rispose sottovoce, le sorrise, rizzandosi sul busto.
La piccola scena non fu vista che da Paolo Collemagno, Amalia accoglieva le nuove arrivate con una cordialità nervosa, imbarazzandosi, cercando loro un buon posto. Tutte le conversazioni erano sospese. Non per la marchesa di Monsardo: era conosciuta da tanto tempo ed il suo intrigo con Mario Revertera non destava più alcun interesse. Ma la contessa D’Aragona, che si faceva vedere scarsamente in pubblico e su cui correvano le più strane voci, valeva la pena di essere squadrata e studiata minutamente. Col suo abito nero e giallo di raso, con i braccialetti ed il monile di ambra profumata, in quella acconciatura troppo fantastica, dai colori sfacciati per abito da visita, col viso delicatamente, ma chiaramente imbellettato, con la febbre del suo sguardo, ella era molto interessante per quella società frivola e leggiera. Ella aveva salutato quasi tutti nel salone, perchè li conosceva; a Beatrice un grazioso inchino ed uno di quei sorrisi frementi che le scoprivano i dentini.
Ora nel circolo regnava un po’ d’imbarazzo. Gli sguardi si rivolgevano spesso a Beatrice ed a Lalla. La Sangiorgio continuava a discorrere con Fanny senza distrarsi mai, guardando con molta scioltezza attorno a sè. Solo non s’era alzata per salutare la sua madrina, la Monsardo. Lalla D’Aragona guardava spesso Beatrice, sorridendole qualche volta, volgendo la testa dalla sua parte, come se volesse discorrere con lei. Ma erano un po’ distanti.
— Vorresti andartene? — chiese sottovoce Fanny a Beatrice.
— No: rimango. Grazie, cara. — E come un velo di lagrime le fluttuò innanzi agli occhi, lagrime subito disseccate dal fuoco dell’orgoglio che l’ardeva.
— Siete stata ammalata, cara Beatrice? — chiese la Monsardo dal suo posto, col suo falso sorriso.
— No, matrina mia. Sorrento è una bella villeggiatura.
— Oh! bellissima! — esclamò Amalia. — Quest’altro anno non andrò in quello sfrenato Castellamare; andrò a Sorrento.
— Io trovo Sorrento molto triste; vi sono stata presa dalla nostalgia: — disse Lalla. — Non le pare, duchessa Sangiorgo?
— Secondo le posizioni, contessa: — rispose Beatrice.
— Ma la villa Torraca è accanto a villa Sangiorgio: — esclamò il marchesino Caranni, gettandosi storditamente in mezzo alla conversazione.
— Ebbi allora il piacere di esserle vicina senza saperlo, duchessa.
La Sangiorgio s’inchinò come per annuire e per ringraziare. Gli astanti si sentivano sollevati. Ognuno pensava che quelle due donne erano persone di spirito. Infine non vi era da aspettarsi alcuna scena. Ognuno ricominciava a pensare ai proprii interessi. Lo spettacolo non aveva più nulla d’attraente: anzi non vi era punto spettacolo. Se la duchessa Sangiorgio e la contessa D’Aragona si parlavano con tanta calma, era segno d’una freddezza d’animo ammirabile. Al postutto si trovò naturale che fossero così. Due dame non si saltano agli occhi, nevvero? Neppure scambiano una parola pungente; sarebbe cattivo gusto. Tanto meglio, dunque. I ventagli si agitavano di nuovo. I dialoghetti erano ripigliati al punto dove erano stati interrotti.
Solo Amalia non osava volgersi al lato dove stavano sedute Beatrice e Fanny. Si ostinava a parlare con Filomarino, animandosi in una conversazione di cui non le importava niente. Tendeva l’orecchio per udire se qualche altra visita traversasse il salone contiguo. Impallidiva ed arrossiva ogni minuto. Quel visetto di bimba-donnina si tramutava improvvisamente. Quando Paolo Collemagno si accostò alla seggiola di Lalla, ella sorrise un poco, quasi racconsolata.
— Perchè siete venuta? — domandò sottovoce Paolo a Lalla.
— E voi? — ribattè quella, alzando la testa a guardarlo.
— Io vengo sempre.
— Ed io mai, ecco il perchè. Vi duole di avermi incontrata?
— No, ne sono contento — disse egli con una certa fierezza.
— Al solito, siete sempre innamorato di me?
— Io non ve l’ho detto, signora — osservò lui, ma senza asprezza.
— Ben risposto. Comincio ad amarvi, Collemagno.
— Badate, la duchessa Sangiorgio ci guarda.
— Io amo anche la duchessa Sangiorgio.
— Voi amate troppo, contessa.
— È il mio difetto. Chiedetene a Marcello.
Egli si tacque crudelmente colpito. Ma preso da un timore istantaneo, si chinò di nuovo a dirle:
— Verrà forse Marcello qui?
Ella diede una risatina sarcastica, affissandolo, senza rispondergli.
— Ditemelo dunque. Verrà?
— Non so. Forse. Anzi verrà certo.
Collemagno si rizzò e, senza volerlo, guardò Beatrice. Era diventato così pallido, negli occhi gli si leggeva tanto dolore di sè, tanta gentile e conscia pietà di lei, che ella se ne intimorì. Le parve che il proprio doloroso pensiero prendesse una forma in quello sguardo, che le ripetesse di nuovo, con maggiore insistenza: «vattene dunque, vattene di qui.» Non seppe resistere: si alzò.
— Oh! Te ne vai di già? — chiese Amalia accorrendo.
— È già tardi, cara. Ho passato più di un’ora qui. Ci rivedremo presto.
Intanto Beatrice salutava in giro. La Monsardo la trattenne un minuto, tenendola per la mano, raccomandandole di andare a vederla. Era la madrina o no? Se ne sarebbe lagnata col padre. E come un’eco fedele...
— Il duca Mario Revertera, il duca Marcello Sangiorgio — annunciò il servo.
Beatrice esitò un istante, poi continuò il suo giro di saluti. Un inchino ed un sorriso alla contessa D’Aragona, mentre il duca di Revertera contemplava la sala, fermato sulla soglia, sorridendo finemente. Sua figlia aveva proprio ereditata da lui tanta graziosa disinvoltura. Suo genero rimaneva accanto a lui, un po’ stordito, con la sua ciera di giovane invecchiato, con la persona accasciata nel costume elegante.
— A rivederci papà, a rivederci Marcello: — disse Beatrice, passando in mezzo ad essi.
— A rivederci, Beatrice; hai bisogno di compagnia? — chiese il padre.
— No, ho la carrozza.
Ed uscì nel salotto con Amalia.
— Ti assicuro che è stato un caso... — mormorò costei, rimasta sola con Beatrice.
— Non importa, taci — rispose l’altra, temendo una spiegazione maggiore.
Veniva Marcello.
— Beatrice... vuoi che t’accompagni? — diss’egli, senza guardarla.
— No, Marcello; rimani pure.
E li salutò con un unico sguardo, andandosene da sola, col suo bell’incesso da dea, col suo passo ritmico.
— Che bel dramma! — disse con una ciera soddisfatta Amalia, ritornando a sedersi presso Fanny.
— Sei una scioccherella cattiva — le rispose costei, irritatissima.
— Ma che! la Beatrice non se ne dà pensiero.
— Che ne sai tu?
— Lo so... lo sapeva... — disse Amalia, balbettando ed impallidendo ella stessa, per quello che aveva fatto.
Marcello Sangiorgio e Paolo Collemagno sedevano accanto alla contessa D’Aragona, facendo una conversazione i tre, che doveva essere molto singolare.
Nella carrozza che fuggiva, Beatrice fiutava la sua fialetta di sali inglesi. Una sola domanda si presentava molto chiara, tra la folla dei suoi pensieri. Ella chiedeva a sè stessa, se Lalla D’Aragona non fosse la figlia della marchesa di Monsardo.