< Cuore infermo < Parte Quinta
Questo testo è stato riletto e controllato.
Parte Quinta - I Parte Quinta - III


II.


Nel palazzo Sangiorgio, a Napoli, Beatrice non aveva ripigliate le sue abitudini.

Quando rientrò nei suoi appartamenti vasti e silenziosi, col sole di autunno che li inondava di luce, ritrovando quell’ambiente gravemente sereno, da lei creato, da lei abitato nel tempo quieto e felice della sua vita, ella sentì calmarsi e addolcirsi l’asprezza della sua agitazione. La casa dove ella aveva trasfuso l’amabile tranquillità del suo spirito, doveva renderle la pace. Ne visitava ogni stanza, con un piacere muto che le ridava il possesso di sè stessa. Erano proprio quelle le linee pure, grandi, esteriori che avevano dilettato il suo sguardo; erano quelli i colori schiettamente armonici, in gradazioni sapienti che non offendevano l’occhio; era quello l’interno grandioso, senza velature e senza ombre che ella aveva desiderato. Nei salotti erano trascorse tante ore leggiadramente placide, nelle sue gradite occupazioni; nei saloni aveva ricevuto, conversato, sorriso, compiacendosi nella compagnia delle amiche e degli amici; nella sua bella camera aveva passato tante notti tranquille, dal sonno lungo e benefico. Tutto questo sarebbe ricominciato; anzi ricominciava. Il passato, quel passato che le era sembrato tanto lontano, tanto da rimpiangersi, ecco, ricompariva. La casa doveva essere il balsamo della sua ferita. La villeggiatura di Sorrento non era stata che un lungo tumulto. Adesso ella si abbandonava alla sua stanchezza, una dolcissima stanchezza senza sonno. I bei giorni ritornavano dunque. La pace rientrava in quell’anima conturbata. A poco a poco dimenticava; e talvolta chiedeva a sè medesima, se Sorrento non fosse stato un sogno spaventoso. Una notte, forse, s’era addormentata male e l’incubo aveva minacciato soffocarla. Adesso era libera; il suo petto si sollevava in un sospiro di soddisfazione. Avrebbe rifatta la sua solita vita, quella che più le piaceva; avrebbe dimenticato completamente.

Ma due giorni dopo il suo arrivo, rivide Marcello che tornava da una escursione di quattro giorni a Roma. Stettero assieme, pallidi, muti, egli affranto dalla fatica, ella col viso tramutato, più grave, quasi indurito e chiuso.

Marcello si meravigliò del ritorno improvviso; la stagione era ancora buona, ella avrebbe potuto ancora restare a Sorrento. No, una tempesta orribile aveva percosso Sorrento, ella aveva voluto tornare. Ed in così dire la voce di Beatrice, pieghevole e duttile, era diventata severa. Egli la fissò lungamente, quasi che volesse scrutare se niente di nuovo fosse accaduto in quell’anima; ma nulla dovette intravvedere o comprendere. Si lasciarono senza i saluti gentili e cerimoniosi che usavano dapprima. Quando ella fu sola, venne colpita da un senso di terrore. Sanguinava la ferita; il sogno di Sorrento era la realtà, era il presente. Dimenticare non poteva. Invano cercava riafferrare la sua vita antica, invano voleva riviverla. Tutti gli anni d’infanzia, dell’adolescenza, della prima giovinezza scomparivano: sembrava che ella non li avesse vissuti; rimanevano tre mesi nella fioritura, nell’azzurro, nel fulgore di Sorrento. Nella mente, donde ogni altro ricordo era annullato, quei giorni erano impressi uno per uno, vivi, lucidi, onnipresenti, onnipotenti, terminati da una notte cupa e paurosa. Non vedeva, non sentiva che quelli. Cercava ribellarsi, contorcersi, liberarsi da essi; si rivoltava con tutta la forza della volontà contro l’idea fissa, ma l’idea fissa la dominava maggiormente, dopo ogni tentativo di rivolta. Ancora non era giunta al sentimento dell’impotenza, a quell’annientamento rassegnato che è l’ultimo punto del dolore. Ella combatteva le sue battaglie; la sua fierezza la sosteneva ancora; ma già una debolezza crescente la invadeva.

Per rimedio, cercava ripigliare l’antica esistenza. La sera predisponeva pel giorno seguente le sue occupazioni; si raffermava nelle sue risoluzioni; al mattino si risvegliava pronta, ben disposta. Ma il bigio mattino autunnale che si trascinava pigro nelle tristi vie le metteva la tetraggine nell’anima. Seduta dinnanzi allo specchio, ella vi rimaneva a lungo, con le mani in grembo, guardandosi senza vedersi; talvolta era un pezzo che la cameriera aveva finito di pettinarla ed ella se ne restava ancora là, gli occhi vaganti, le labbra socchiuse, tutta la persona abbandonata ed inerte. Pensava di dover uscire per fare qualche visita; ma questa decisione si faceva sempre più pallida, sempre più indistinta, vagolava nel cervello come un’ombra, e Beatrice non si vestiva, rimaneva sepolta nei merletti della sua veste da camera. Istintivamente andava a prostrarsi sul cuscino di velluto del suo inginocchiatoio, apriva il libro in madreperla e pregava per molto tempo. Quelle preghiere, che prima ella pronunziava con un fervore mediocre, le cui parole prima le scendevano sull’anima senza impressionarla, ora la scuotevano profondamente. Vi ritrovava i gridi affannosi, simili a quelli di un naufrago nella tempesta; vi ritrovava le impressioni di un amore di fiamma che partiva da un focolare corruscante; vi ritrovava quelle esclamazioni di umiltà affettuosa, che si annulla nell’adorazione del Divino, e il libro le cadeva dalle mani senza che se ne accorgesse, mentre ella pregava ancora, balbettando le ultime parole dell’orazione, ripetendo sempre: «Dio mio, Dio mio!» senza pensare più, senza sentire più...

Ma si rialzava di là muta, ghiacciata, senza che la fiamma della fede le avesse riscaldato il cuore, senza che la dolcezza della grazia celeste fosse discesa a consolarla. La forma del misticismo non appagava il suo spirito. Si elevava in uno slancio tutto il suo essere verso il cielo, ma qualche cosa d’irresistibile lo riattaccava alla terra; piangeva talvolta in una dolcezza divina, ma erano lagrime quiete e fredde. Ella desiderava la voluttà delle lagrime amare e cocenti, che scavano un solco nelle guance e nell’anima. Questo desiderio terrestre la distaccava dal cielo, la faceva rialzare scontenta, insoddisfatta, irritata dalla preghiera. Allora ricorreva alla lettura. Sempre il leggere l’aveva calmata e dilettata. Spettatrice indifferente, la lotta della vita ritratta nella novella, nel romanzo, nel dramma l’aveva interessata molto superficialmente. Le parole che leggeva le ronzavano nell’orecchio come un grato mormorìo. Qualche volta aveva detto fra sè: questo è bello, questo è brutto, questo è sciocco. Spessissimo: questo è assurdo. Ora non più. Ella diventava variabile, volubile: senza una ragione si lasciava prendere da una semplice storiella, ci s’interessava, quasi che nulla esistesse di più vero, addolorarsi, rallegrarsi, incatenandosi a quel libro. Ovvero la vinceva un disgusto di quanto era scritto; il libro era un ammasso di falsità, d’ipocrisie, di bugie sfacciate; la nauseava come un cattivo spettacolo; ne odiava l’autore. Ovvero riceveva impressioni profondamente contradditorie: un libro triste la faceva scoppiare in un riso convulso, irresistibile, che finiva per farle male; un libro gaio, dove lo spirito di buona lega brillava e sprizzava, la rendeva lugubre. Un poema stupendo non le destava un pensiero, mentre un versetto le mandava le lagrime agli occhi. Si svegliava l’indomani, mormorando quel verso; ogni tanto nella giornata lo ripeteva sottovoce o mentalmente, provandone sempre la medesima impressione. Si rammentava un verso solo di una lunga poesia, che aveva tutta scordata, di cui non conosceva l’autore, una poesia che vagamente le sembrava aver letto in una strenna, un verso solo che non intendeva e che la rendeva pensosa:

Pietà del mondo non avrai, meschina.

Quando lo aveva ripetuto a sè stessa, un cruccio infinito, incomprensibile la struggeva.

Alle volte un pensiero armonioso, ma quasi lontano, quasi indistinto, le vagava nella mente. Pareva un pensiero fatto a meandri, a curve indefinite che le sfuggivano, si perdevano in una nebbia; pareva un pensiero musicale, melodico, fatto di vibrazioni aeree, come i profumi, come la luce. Ella cercava leggere le note di quel pensiero musicale nella sua mente, cercava discernere se fosse una melodia già creata, un ricordo di musica udita altre volte, oppure una idea nuova. Così le sue dita impazienti scorrevano sui tasti bianchi e neri del pianoforte, frugando in tutti i motivi conosciuti, tentando qualche accordo vago che rispondesse al suo pensiero, che ne fosse la forma viva. Spesso questa forma le sfuggiva ogni momento, era introvabile e lei si ostinava a ricercarla, passando le ore al pianoforte, obliando il tempo. A volte le sue ricerche erano felici e il pensiero trovava la forma. Allora quella musica diventava l’iniziale della sua giornata; si compiaceva ricominciarla e finirla cento volte, ora più allegra, ora più lenta, variandola, allargandola, con un piacere solitario. Quando si alzava dal pianoforte sentiva ancora vagarle nell’anima quella musica misteriosa, di cui non conosceva e non voleva conoscere le parole; dopo quelle ore, sotto l’impero di quel tormento soave, si ritrovava stanca, abbattuta, quasi malata.

Nelle collere improvvise che la assalivano contro la sua debolezza, gittava i libri, chiudeva rumorosamente il pianoforte, voleva distrarsi, voleva ridiventare energica, sottrarsi al languore morbido che se la prendeva. Aveva cominciata una trina in seta bianca, lievissima, un lavoro di pazienza e di attenzione, uno di quei capolavori della moda e della ricchezza; ma non ci durava un quarto d’ora. I pensieri se ne andavano, e lentamente le dita cessavano il loro vivace movimento. Ogni tanto

si ridestava, riprendeva prestamente il lavoro come un’operaia in ritardo; ma per poco. Finiva per gettarlo via, si prendeva la testa fra le mani per decidersi a qualche cosa, s’alzava, andava nelle anticamere, interrogava la Giovannina, parlava col maggiordomo, fingendo anche a sè stessa un grande amore per le cose di casa. Ma era così distratta, così irrequieta, faceva domande così insolite, che talvolta s’accorgeva che i servi la fissavano, con una certa meraviglia. Di sicuro doveva essere molto cangiata. No, Beatrice non aveva potuto ripigliare le sue belle abitudini. Molte di esse erano abbandonate per sempre; alcune degeneravano in forme novelle; sorgevano fenomeni singolari; la sua esistenza, turbata da cima a fondo, fluttuava, indecisa, errante, combattuta dai vecchi ricordi del passato, dalle strane aspirazioni del presente.



Di sicuro molto cangiata. Un giorno, per l’onomastico di un’amica, fece ordinare ad un fioraio un mazzo di rose the e di vainiglia. Glielo portarono al palazzo, nel suo salotto. Quando il servo che lo aveva deposto sopra una mensola si fu allontanato, quando ella fu certa di essere sola, si accostò ai fiori e li fiutò lungamente. L’olezzo delicato delle rose gialline e quello soavemente pungente della vainiglia le piacquero; quelle onde profumate che ella aspirava, le rinfrescavano la testa. Sentiva quel profumo sulle labbra, sulla pelle, nei capelli; si chinava sui fiori perchè le toccassero lievemente le guance, le carezzassero la fronte, si strisciava un poco contro essi, irritata e consolata da quelle piccole punture. Un momento, strappò coi denti un gambo di vainiglia e lo masticò: era amaro, lo sputò subito. Ma d’allora in poi i fiori molto olezzanti esercitarono una grande attrazione su lei. A poco a poco, cedendo a quella attrazione, timidamente, temendo quasi di farsi scorgere, se ne fece portare in casa, prima raramente, come per caso, poi più spesso, poi ogni giorno. Dapprima aveva permesso l’adito negli appartamenti solo a quelle piante esotiche, dalle foglie sempre verdi e lucide, senza fiori, che vegetano per anni ed anni nei vaselli giapponesi: piante ingrate, immobili, dalla vita troppo lunga, tanto da sembrare artificiali. Ora non le piacevano più; le aveva fatte confinare negli angoli, in seguito portar via addirittura; e nelle brillanti coppe di Murano, nelle porcellane candide, leggiere e porose, era una festa di fiori freschi, odorosi, che non arrivavano neppure a reclinare il capo ed erano sostituiti dai nuovi. Ella non amava vederli morire, e quella primavera che si rinnovava ogni giorno, le molceva la tristezza dell’autunno, la pesante lunghezza dei giorni piovosi. Ne aveva perfino nella sua camera. Ma questa inclinazione si accrebbe, degenerò, divenne morbosa; quel piacere che le dava l’olezzo dei fiori diventò malsano; la sensazione leggiera e fresca si cangiò in una sensazione acuta, calda, quasi febbrile. I fiori semplici e schietti non le bastavano più: e volle quelli dalle doppie, dalle triplici corolle, che hanno concentrato nel carnoso velluto dei loro petali, nel calice profondo, un profumo inebbriante; volle i gelsomini orientali, le gardenie ceree, le magnolie voluttuose. Si abituava a vivere in quell’aria viziata; anzi una volta si fece recare una grande scatola di profumeria inglese e orientale, profumeria violenta, quasi oltraggiosa e si divertì a sturare tutte le fialette, a paragonare le impressioni, a salire e a discendere la gamma degli odori. Dopo, quando fu sola, impallidì e svenne.

Aveva anche cominciato a prediligere le penombre confidenziali. Nella camera sua faceva rimanere sempre abbassate le cortine bianche, come un grande ed ermetico sipario, teso fra lei e la vita del mondo esterno. Quando passava nei saloni pieni di luce, le sbattevano le palpebre, si fermava inquieta, chiudendo gli occhi. Al giorno preferiva la notte; si era occupata a fare una scelta di paralumi rosati, verdi, azzurrini, che le creavano attorno, ogni tanto, come ella voleva, un paesaggio roseo, verdino o azzurrino, una fantasmagoria del colore che le piaceva. I suoi sensi sin’allora equilibrati nella loro felice medianità, si affinavano, si assottigliavano, cadevano nella esagerazione della squisitezza. Una volta la solida costituzione le faceva ricercare ed accettare ogni cibo; ora s’era fatta strana anche in questo. Si disgustava di tutto, trovando un sapore di cenere alle cose più delicate. La prendevano certe voglie segrete ed indefinite, di qualche camangiare piccante, nuovo, che le desse una sensazione più forte. Di questo si vergognava molto. Intanto cercava di eccitarsi rosicchiando confetture aromatiche, sorbendo caffè. I nervi si guastavano a tale trattamento; e l’eccitazione cedeva e rimaneva una nausea, un languore doloroso. Passava le giornate così, bevendo dei grandi bicchieri d’acqua per dissetare la sua gola arida e secca.

Ad un punto ella si confessò vinta. Comprendeva istintivamente di non poter più combattere con sè stessa. Era impossibile la guarigione del male sconosciuto che guastava il suo spirito ed il suo corpo. Aveva davanti a sè il pericolo sconosciuto e si trovava indifesa, senza armi alla battaglia. Si lasciò andare al pericolo, chiudendo gli occhi, abbandonandovisi senza resistenza. La sua ferma volontà era morta; ella non regolava più, con la mano bianca, il corso del suo destino. Era finita la sua forza; chinava la testa e l’onda la travolgeva. Si ricordava vagamente del motto che hanno i Russell in Inghilterra, un motto italiano: Quel che sarà, sarà. Era la parola dell’impotenza.


Quello che più temeva, era l’occhio di Marcello; ma egli s’era fatto noncurante, non alzava lo sguardo su lei, mancava spesso dalla casa. Rimaneva il conte zio, rimanevano gli amici, rimanevano i servi; costoro, specialmente. Il suo orgoglio sopravviveva grandissimo. Prendeva cura di mascherare le sue debolezze; trovava delle scuse, dei pretesti. Combinava due giorni prima tutte le condizioni per soddisfare un suo capriccio. Si studiava di rendere, come meglio sapeva, ragionevoli le fluttuazioni dei suoi gusti. Era sempre in guardia, alla vedetta di una parola o di un sorriso. Alla lunga il mestiere la stancò, quella schiavitù le sembrò amarissima; quei sotterfugi le furono odiosi; la sua indipendenza ne soffriva. Allora incominciò ad odiare la sua casa. La trovò troppo larga, troppo luminosa, troppo aperta. Le finestre spalancate, lasciavano entrare la via pubblica; la sua casa era come una piazza, dove tutti passeggiano e tutti gridano, come una chiesa molto bella, molto ornata, dove molti accorrono, ma dove nessuno si raccoglie. Quando vi restava sola, quella grandiosità, quella purezza di stile, la rattristavano anche più e si faceva piccina piccina e le pareva di perdersi in un deserto che ella medesima aveva creato. Ci si camminava troppo, l’occhio aveva una veduta troppo ampia. La semplicità era nudità. Non trovava un angolo dove raccogliersi, dove concentrarsi. Una sera ebbe freddo, molto freddo nel grande salone; i divani le parevano pieni di spine, duri, rigidi, stecchiti, come se la respingessero. Nulla le tendeva le braccia. Gl’immensi specchi le rendevano l’immagine di una donna solitaria e miserabile. I quadri preziosi rimanevano smorti, inanimati nelle loro cornici. Non trovava un chiodo a cui appiccare un ricordo. Non avevano parole le stoffe seriche dei mobili. Nulla le dicevano gli splendidi oggetti d’arte, non le cantava nell’orecchio lo scricchiolìo di una sedia. A chi apparteneva dunque quella casa? A lei no. Lei l’odiava. Chi ci era vissuto? Lei no. Nè altri. Era un luogo ricco, splendido, freddo ed immobile. Neppure funebre, perchè la morte suppone la vita. Chi aveva voluto così quella casa? Lei no. La odiava dunque, cordialmente, profondamente, per sempre.

Così non andò più nell’appartamento di ricevimento. Vi si recavano i servi per la pulizia, poi chiudevano tutto. Poco a poco restrinse la sua vita giornaliera nel suo piccolo appartamento; poi in due stanze: quella da letto ed il salottino contiguo. Riunì là dentro il suo pianoforte, i suoi acquerelli, i suoi libri, il piccolo scrittoio, il tavolino da lavoro, i fiori, i ninnoli, le statuette che prediligeva. Volle vivere là dentro, per dire a sè stessa di esserci vissuta. Volle che vi regnasse quell’amabile disordine, quella confusione leggiadra e tutto femminea di cui era stata tanto nemica. Aveva tutto raccolto per ritrovare in quelle due stanze l’intimità, il calore umano e benefico che le mancavano nei grandi appartamenti. Le impregnava della sua persona. Lasciava vagare gli oggetti di acconciatura, i guanti, una sciarpa, un velo, uno spillo d’oro, un anello, sui tavolini, nelle coppe di alabastro, fra i libri. Artificialmente metteva intorno a sè un ambiente nuovo, che riflettesse la sua nuova personalità. Quando usciva di là, comparendo in pubblico, davanti a suo marito ed a suo zio, si rimetteva nella figura della prima Beatrice Sangiorgio, calma, quieta, monotona. E riusciva ad ingannarli. Ma essi non la guardavano bene. Come tutto s’era cangiato, così si cangiava la persona. A ventidue anni la sua bellezza classica, plastica, pareva avesse raggiunto il massimo punto di sviluppo. Ora diventava non più bella, ma diversamente bella. L’occhio grigio, limpido, dallo sguardo chiaro come un cristallo, sembrava diventato più cupo di tanto; di sera era nero. Le palpebre socchiuse si rialzavano con un moto dolce, lo sguardo si era fatto lungo, lento. Un’ombra bruna, traccia di veglia, traccia di pensiero, lo sottolineava talvolta. Le parti immobili del viso s’erano animate; un piccolo fremito le dilatava talvolta le nari, dando un po’ di vita a quel profilo severo. Era caduto quel perenne sorriso delle labbra dischiuse, quel fiore eterno di una bellezza inconscia. Spesso la bocca diventava pensosa; allora gli occhi parevano più grandi, le guance si assottigliavano, perdevano la loro rotondità, mentre il mento risaliva un poco. Tutto il volto smarriva la sua regolarità così perfetta. Le linee cangiavano di posto; alcune parevano si fossero spezzate. L’espressione unica, statuaria, esterna, era scomparsa; veniva l’espressione molteplice, vitale, interna, nobilissima, a cangiare, a modificare la soverchia correzione di quella fisionomia. A volte un pallore terreo, opaco, pauroso si diffondeva dalla fronte al collo; a volte ella si faceva tutta bianca, in una trasparenza perlacea, come se tutto il sangue fosse partito da quel viso di porcellana candida; a volte un pallore infuocato, febbrile, quasi spannato di rosso. Quel delicato roseo-diffuso della carnagione era surrogato da ondate di sangue vivido che lasciavano due rosette sulle guance, striandosi verso gli angoli del viso. I capelli non si rialzavano più, con la loro ardita eleganza, sulla sommità del capo, ma ricadevano sul collo, un poco sciolti, quasi stanchi. Adesso Beatrice non soffriva più che Giovannina la pettinasse; si acconciava da sola, allungandosi a disciogliere le trecce, passandovi lentamente il pettine, strisciandovi lievemente le dita, provando un leggiero brivido di piacere. Come a Sorrento, ella restava quasi tutta la giornata in vestaglia, illanguidita, incapace di fare uno sforzo per sollevarsi, farsi vestire ed uscire. Ma le sue vesti da camera erano splendide, piene di merletti, piene di ricami, dalle stoffe morbide, con uno strascico da abito di ballo; ogni giorno fantasticava su qualche cosa di più elegante, di più ricco, scriveva alla sarta, e dopo cinque o sei giorni era fatto il miracolo. Come a Sorrento ella rimaneva in calze di seta ricamate, in pianelline di velluto. Si occupava solo di queste cose. Il lusso serio di una volta si cambiava in lusso civettuolo, tutto per sè, tutto interno, un lusso capriccioso e malaticcio. Ella non metteva più gioielli. Aveva lasciato all’anulare della destra la fascia d’oro del matrimonio. Quelle mani ardevano e s’agghiacciavano insolitamente; diventavano sempre più bianche, ed ella si perdeva a contemplarle, quasi cercasse di scoprirvi un segreto. Volentieri si abbandonava nella sua poltroncina prediletta, il corpo inerte, i piedini sullo sgabello, la testa appoggiata alla spalliera, sognando, addormentandosi, risvegliandosi per sognare da capo. Era stanca dal mattino; aveva certi stiracchiamenti voluttuosi, certe pigrizie del corpo incantevoli. Quando si alzava, la sua andatura era molle, una flessibilità ondulatoria percorreva le linee di quel bel corpo. L’alto dell’abito, sempre un po’ aperto, lasciava vedere il collo bianco che si gonfiava talvolta in un sospiro. Qualche volta ella si fermava davanti allo specchio, occupandosi nella contemplazione di sè stessa, sorridendosi. Ogni tanto, come il periodo cresceva, ella si chiedeva che fosse tutto questo.


Un giorno ella aveva prodigato un’ampia elemosina ad un povero diavolo che vendeva certe brutte oleografie. Si era fatta raccontare la sua storia, una famiglia lunga, bambini ammalati, una vecchia nonna; il povero uomo aveva pianto, rasciugandosi le lagrime con un fazzoletto lacero. Ella gli aveva dato del denaro e promesso di mandare la Giovannina con biancheria; egli era partito pallido dalla gioia, lasciando umilmente sopra una sedia le sue brutte oleografie. Più tardi Beatrice le ritrovò; si mise a sfogliarle, sorridendo dei colori forti, dei soggetti comuni, delle fisonomie volgari. Le avrebbe donate alla Giovannina. L’ultima rappresentava il solito castello medioevale, dove uno stereotipo falconiere bruno bacia sulle labbra una castellana bionda. D’un tratto Beatrice comprese. Tutta la sua persona ebbe un fremito; ella portò le mani agli occhi, come per pararli da una luce soverchia. Comprendeva, comprendeva. I suoi ricordi la facevano rabbrividire di gioia: sentiva sulle labbra, sul volto, sui capelli i baci lunghi ed innamorati di Marcello; sentiva ancora le sue braccia al collo, quell’abbraccio possente che non aveva saputo vincerla e che ora la faceva fremere di memore voluttà. Prima ancora che ella amasse, era vissuta nell’amore. Vi era vissuta senza gioie e senza dolori, ma il suo cuore, le sue fibre lo avevano respirato, assorbito, si erano impregnate di esso. Era soprassatura d’amore. Ora lo portava in sè, nel seno che si sollevava anelante, nel cuore deliziosamente infermo, nella mente innamorata, nei sensi lungamente aberrati, nella singolarità dei suoi gusti, nelle sue lagrime, nei suoi fiori, nei suoi abiti. Lo sentiva in sè, invincibile, indomabile.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.