< Cuore infermo < Parte Quinta
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III.


Nella sala da pranzo, dopo la colazione, Marcello aspettava che fosse all’ordine il piccolo coupè per uscire. Intanto leggeva il giornale. Beatrice discorreva col conte Domenico Sangiorgio, sogguardando tratto tratto il marito che continuava la sua lettura. Un servo entrò portando due lettere sopra un vassoio d’argento. Una era per Beatrice, l’altra per Marcello; ella prese la sua, dopo aver gittato una rapida occhiata su quella del marito. Veramente, mentre apriva la busta, le tremavano un po’ le dita. Non lesse neppure, distratta a guardare il marito che apriva la propria con un sorriso incerto; dal suo posto, con i suoi buoni occhi distingueva benissimo il simbolo sentimentale della busta: una rondinella che porta nel beccuccio una margheritina. Marcello leggeva e sorrideva, scuotendo il capo come colui che ha preveduto o sapesse perfettamente quanto legge. Da ultimo fece un moto di stizza e ripose la lettera nella tasca.

— Buone notizie, Marcello? — chiese lo zio.

— Notizie vecchie.

— Vale a dire?

— Vale a dire che quanto deve accadere, accade.

— Questa è sicuramente una notizia — disse, con un lieve sorriso Beatrice.

— Appunto; ma a te dovrebbe giungere nuova.

— Che ne sai tu? — domandò ella, scuotendosi sotto l’ironia.

— Io? Fantasie: non pensarvi. Zio, quest’oggi, alle tre, non posso venire con voi.

— Come vuoi; già, non è affare d’importanza.

— Ad ogni modo, scusatemi; ma questa lettera mi dà un ritrovo...

E come il servo comparve sotto la porta a dire che il coupè era pronto, egli si avviò per uscire.

— È un appuntamento femminile? — domandò Beatrice, come se scherzasse.

Egli si volse indietro, le si accostò, la fissò per un momento negli occhi. La vide impallidire ed arrossire sotto il suo sguardo.

— Che hai? — le chiese sottovoce.

— Nulla — rispose lei, chinando il capo.

— Tu vuoi dirmi qualche cosa?

— Io? No, niente.

— Mi hai richiamato.

— Ho scherzato.

— Tu scherzi adesso?

— Qualche volta. Perchè no? Io sono allegra, Marcello. Sono molto allegra. Vuoi che venga anch’io al tuo ritrovo?

— Tu hai qualche cosa.

— Ma no, te lo assicuro. Vengo con te — e dette in una risatina.

Egli tremò. Aveva inteso altrove quel riso caustico, spezzato, senza giocondità?

— Zio, che ne dite? Marcello ha un ritrovo oggi. Andiamo a sorprenderlo?

— Sicuro, sarebbe grazioso: una scenetta comica. Ma dove?

— Dove? Qui sta il punto, zio. Noi non sappiamo dove. Marcello è discreto; non ce lo dirà mai. Nevvero, che non ce lo dirai?

— Certo, non lo dirò. Mi congratulo del vostro buon umore, miei cari. A rivederci: io vi aspetto.

— Sì, sì, verremo — esclamò Beatrice, ridendo ancora.

— Attendici, nipote birbante — gli gridò dietro il conte, mentre Marcello usciva lentamente, a malincuore. Ma quando il vecchio si volse, vide Beatrice che s’affannava, come se le mancasse l’aria.

— Che c’è? Hai troppo riso?

— Sì, ho troppo riso. Vado in camera mia, zio. Voi anche uscite?

— Vado al Circolo a leggere i giornali.

In camera sua Beatrice suonò per la Giovannina.

— È uscito il duca?

— È ancora in camera sua.

— Va bene, potete andare.

Rimasta sola, tese l’orecchio per udire se nella camera attigua Marcello facesse alcun rumore. Poco dopo intese il rumore di un cassetto che era respinto nelle sue scanalature, poi un passo, poi una porta schiusa e rinchiusa con la chiave. Marcello era partito. Ella si rialzò dalla sua seggiola. Una subitanea energia aveva vinto tutte le sue esitazioni. Le era ignota ancora la verità; ma la intravvedeva vagamente. Solo le era ben chiara la sua decisione, decisione irremovibile: voleva salvare il suo amore da un nuovo pericolo. Non pensava ai mezzi. Tutti sarebbero stati buoni. La sua volontà, che non si opponeva più all’amore, si sollevava potente. Non avrebbe tollerato, no. E senza esitare più, pose la mano sulla chiave della porta che separava le due stanze. Era tempo che quella porta non si apriva, era molto tempo che ella non entrava nella camera di suo marito. Le parve tutta nuova, ma silenziosa e raccolta. Un leggiero puzzo di fumo di sigaro non le dispiacque. Per un istante obliò perchè era venuta; quella camera la seduceva. Per lei era misteriosa, di un mistero che le si svelava poco a poco, in una serie d’impressioni novelle. Aveva vissuto molto tempo accosto a questo mistero, senza che la pungesse il desiderio di conoscerlo, ed ora che d’un tratto le era sorto nell’anima questo desiderio, essa lo appagava con un vivissimo piacere. Sul tavolino da notte erano alcuni libri: uno di scienze sociali, un romanzo di Salvatore Farina: Amore bendato, le poesie di Coppée; erano aperti, spiegazzati; nessuno di essi aveva potuto consolare Marcello. Essa li rimise al loro posto, come stavano, con molta cura, con molta soavità. Andò allo specchio e si guardò con una grande curiosità; poi sorrise di sè: aveva creduto veder apparire il volto di Marcello. Sulla mensola, fra le spazzole, i pettinini, gli unguenti per la barba ed i profumi, trovò un anello. Era un sardonico, una pietra incisa, che rimontava all’imperatore Adriano, un gioiello artistico di grande valore: rappresentava la testa di Minerva, la Pallade Atenea dal severo profilo. Beatrice si ricordava di avere visto questo anello per molto tempo al dito di Marcello; in seguito non più. Involontariamente se lo pose al dito anulare, dove portava la fede matrimoniale. Passò alla scrivania: era in disordine; libri si accatastavano su libri; carte disperse su cui era gittato un fermacarte, per non farle volar via; un pacchetto di buste scorreva da una scatola di cartone sventrato; biglietti bianchi e rosa di un concerto di beneficenza. Ma sul davanti, presso l’elegante calamariera, prospettando chi scrive, nella sua custodia di velluto rosso, nel filetto d’oro che la incorniciava, la miniatura di donna Beatrice, duchessa di Sangiorgio-Revertera: accanto, in un vasellino di cristallo lucidissimo, pochi fiorellini bianchi che bagnavano i loro steli nell’acqua limpida, fiorellini posti dal mattino nel vasello. Ella rimase immobile, intenerita. Provò ancora una volta l’irrestibile desiderio di cadere nelle braccia di suo marito. Ma egli era altrove ed alle tre... Fu ripresa dal sentimento del vero. Non era venuta là dentro per intenerirsi. Da capo la sua volontà s’indurì. Frugò pian piano, senza spostarle, fra le carte della scrivania. Naturalmente non trovò nulla. Non s’impazientì. Ad un cassetto della scrivania era la chiave: Marcello si affidava. Del resto, aveva portato via la chiave della camera. Aprì uno per uno i tiretti; trovò del denaro, dei registri, due pacchi di lettere, sottofascia, con la data e con la qualifica: affari. Un tiretto era pieno di scatole di sigari. Non trovava niente, dunque. Eppure le lettere grigie, col simbolo della rondinella e della margheritina, che di nuovo giungevano puntualmente a Marcello, ci dovevano essere. Dove? In un angolo vi era una scrivaniuccia da dama, per vergare un bigliettino, in piedi. Due cassetti minuscoli.

— Sono là — pensò.

Era proprio decisa? Sì, proprio decisa.

— E se viene Marcello? — le chiese la sua coscienza.

— Venga pure. Mi troverà qui.

E andò presso la scrivaniuccia. La piccola chiave era nella serratura. Nulla potea trattenerla nella sua via. Aprì il primo tiretto; vi erano tre pacchetti delle famose lettere grigie. Una sola, sciolta, con la laceratura nervosa che Marcello vi aveva fatto mezz’ora prima. Aprì e lesse:

«Oggi, dunque, alle tre, nel parco di Capodimonte, nel viale della Cascina svizzera. Avrò un gruppo di margherite nelle mani. Non mi parlate, salutatemi solamente. Addio.»

Il primo moto di Beatrice fu di alzare gli occhi all’orologio. Era mezzodì: mancavano tre ore. Poi li riabbassò sul biglietto. Dapprima aveva letto senza osservare la calligrafia. Ora la guardava, trasognata, come se un’apparizione sorprendente le si fosse offerta allo sguardo.

— È Amalia — disse fra sè, tremando di dolore.

Ma non poteva crederci ancora. Molte calligrafie si rassomigliano fra loro. Sono avvenuti casi singolarissimi. Non bisognava lasciarsi acciecare da un sospetto irragionevole. Ecco, era d’uopo che fosse calma e prudente. Sciolse il primo pacchetto di lettere, ne aprì tre o quattro.

— È Amalia — le ripetette l’evidenza. Si poteva ingannare ancora. Lesse la prima, la seconda, la terza, la quarta, aprendole con una grande lentezza, scorrendole attentamente, ripiegandole e rimettendole al loro posto:

— È Amalia, è Amalia — diceva la voce assidua e monotona.

Ma volle leggere tutto. Una per una, le passarono sotto l’occhio quelle lettere senza firma, lunghe, prolisse, brevi, concise, tutte artificiali. Beatrice conobbe dalla prima all’ultima parola quella corrispondenza che era rimasta senza risposta. Tutta la bizzarria sentimentale di quei vaniloquii le fu nota.

— È Amalia, è Amalia, è Amalia — parlava la voce nel suo cervello.

Oh! sì, sì, era proprio lei. Da ogni parola si rivelava quel temperamento fanciullescamente femmineo, quella inclinazione al romanticismo nebuloso, quel bisogno di mettere un interesse in una vita superficiale ed oziosa. Era proprio lei, la donna ammorbata di un falso sentimento, guasta dalle letture, dove si innalza nelle regioni aeree il vizio volgare, perchè di lontano sembri azzurro ed innocente; la donna, ricca, nobile ed annoiata che si è appassionata alle finte lagrime delle attrici celebri nei drammi a sensazione; la donna frivola che sogna nelle sue pigrizie un sublime adulterio all’acqua di rosa, e trascinata, ingannando sè stessa, senza neppure la scusa della passione, discende sino alla colpa con artificio di lagrime, con un’apocrifa disperazione.

Il pericolo era là, imminente. L’orologio segnava l’una e mezzo. Non rimaneva che pochissimo tempo. Beatrice riunì le lettere, rifece i pacchetti come li aveva ritrovati, li ripose nel cassetto. Del resto non la tormentava alcuna ansietà. Ora conosceva tutto. Vedeva quanto le rimanesse a fare; analizzava la sua situazione con una freddezza minuziosa. Temeva solo di non giungere in tempo. Al contatto del pericolo, il suo affanno non sapeva perdersi in elegie; non aveva neppure pianto. Purchè arrivasse in tempo!

— Vestitemi presto, Giovannina — disse alla cameriera quando fu rientrata nella sua camera. — ma prima ordinate la carrozza.

— La carrozza aperta?

— No: il landau.

— Che abito metterà la signora?

— Fa freddo?

— Un poco; ma c’è un bel sole.

— L’abito di velluto verde, il dolman nero, il cappello che va con l’abito.



Amalia Cantelmo passeggiava lentamente in un viale del parco di Capodimonte. Ma si trovava al punto opposto della Cascina Svizzera: era venuta molto presto, troppo presto. Dalla sera prima in cui aveva scritta la lettera definitiva a Marcello, era stata molto inquieta. La notte non aveva punto dormito. Due o tre volte aveva risvegliato Giulio, dicendo che udiva rumore nella camera. Erano i ladri, i fantasmi: aveva paura. Ci era voluto del bello e del buono per indurla a quietarsi. Solo al mattino si era addormentata di un sonno leggero e nervoso. Del resto quella sua agitazione le sembrava deliziosa. Finalmente arrivava a qualche cosa di molto drammatico; il suo romanzetto era giunto al culmine. Poteva prendere l’attitudine di una donna che ha un terribile segreto da nascondere. Anzi nel mattino aveva provato il gusto di avere dei rimorsi: rimorsi a proposito di Beatrice. Infine era un’amica affezionata ed ella la tradiva. Ma, in fondo, questa idea del tradimento dava una nuova aureola al suo intrigo, che senza essa sarebbe rimasto un po’ volgare. Poi aveva pensato che Marcello avrebbe potuto disprezzarla. Dio! Che stupenda e terribile cosa essere disprezzata dall’uomo che si ama! Il suo amore non doveva finire come tanti altri. Voleva qualche cosa di fine, di eccezionale. Una donna come lei non si arrischiava per le solite tresche amorose che le si agitavano dattorno. Sì: ma che sarebbe avvenuto a Capodimonte? L’incontro come sarebbe accaduto? Che viso avrebbe Marcello? E lei stessa avrebbe arrossito e impallidito? E dopo, dopo? Queste domande che rimanevano senza risposta, quelle supposizioni strambe, quell’ignoto occupavano la sua fantasia.

Si fece vestire troppo presto. Abito spigliato, corto, succinto, un costumetto attillato, dove la lana ed il raso grigio si mescolavano in un intreccio sapiente, di cui Worth aveva stabilito le teorie. Sembrava più piccina del solito, coi riccioli biondi che scappavano di sotto il cappellino ungherese, coi piedini da bambola calzati con stivaletti bruno-dorati. Si guardò nella psiche, di fronte, di profilo, di tre quarti, provò un sorriso. Si trovò molto seducente; ma non rassomigliava punto ad una donna che va ad un convegno colpevole: pareva piuttosto una fanciulla che ha deciso di conquistare il collegiale, suo cugino. Pensò che il contrasto sarebbe stato più piccante; poi il suo gruppo di margheritine bianche le doveva dare un’aria misteriosa e drammatica. Quando fu vestita vide che era ancora presto. Ma non poteva star ferma in casa; aveva sgridato tre volte la Serafina; aveva lacerato un guanto, ne aveva infilato un altro paio. Come passavano i minuti, cresceva il suo stato nervoso...

Così era capitata a Capodimonte. Aveva lasciato alla porta piccola del parco la carrozza da nolo, quasi certa di ritrovarne qualcuna al ritorno: si era internata nei viali, camminando piano per calmarsi, non osando ancora andare dalla parte del cascinale svizzero. Cominciava a pensare che la sua era un’imprudenza. Avrebbe voluto ritornare alla porta a richiamare il cocchiere, per andarsene. Chissà! Forse Marcello non verrebbe. Ma subito la sua vanità di donna prese il disopra: sarebbe stata una inciviltà, una sciocchezza non venire. Marcello non poteva essere un imbecille ed uno scortese cavaliere. Allora fece tra sè un compromesso: sarebbe andata al viale del convegno, avrebbe atteso sino alle tre e un minuto; se alcuno non fosse comparso, sarebbe andata via subito, senza voltarsi indietro. Era la volontà della sorte che si sarebbe manifestata così.

Fatta questa transazione puerile con la sua debolezza, si avviò. Giunta a capo del viale della Cascina, guardò il suo piccolo oriuolo: mancava un quarto d’ora alle tre. Aveva il suo tempo. Rialzò un poco le fogliuzze del suo mazzolino, aprì il suo ombrellino perchè i raggi del sole penetravano attraverso i rami fronzuti degli alberi e perchè la fodera di seta rossa dell’ombrellino dava delle ombre rosse al suo visino. Attraversò il viale in tutta la sua lunghezza, pensando con un po’ di dispetto che Marcello avrebbe potuto essere più premuroso. Arrivata all’estremo, si fermò, guardando nel viale che faceva angolo retto col primo. Una donna di lontano si avvicinava, senza affrettarsi, come se passeggiasse. Amalia fece un moto di fastidio, ma non mosse un passo. Senza volere, s’interessava a quella passeggiatrice. Aveva forse anch’ella un convegno? Sarebbe stata graziosa... Dopo un minuto le due amiche si trovarono l’una di fronte all’altra. Amalia, pallida come un cencio di bucato, tremante, non trovando fiato per dire una parola: Beatrice, grave, serena, non sorridente. Si guardavano.

— Che fai tu qui? — arrivò a balbettare la Cantelmo.

— Passeggio, come vedi. La giornata è splendida e questo bosco è bellissimo.

— ... Questo bosco è bellissimo... — ripetette Amalia, come trasognata.

Girava fra le dita il suo disgraziato mazzolino di margheritine. Era presa nell’istesso tempo da una grande paura e da una grande vergogna: aveva voglia di scoppiare in pianto. Era sfortunata. Nulla le riusciva. Ecco che Beatrice le sorgeva davanti, seria, severamente virtuosa, come una matrona impeccabile. La guardò di nuovo, poi, come un fanciullo che ha bisogno di protezione:

— Menami via, menami via — le disse sottovoce, con tono supplichevole.

E le si ficcò sotto il braccio, trascinandola un poco. Camminavano con passo affrettato, senza dire una parola. Quando furono a molta distanza dal viale della Cascina svizzera, rallentarono la loro andatura.

— La tua carrozza dov’è? — chiese Beatrice, senza fissarla in volto.

— Sono venuta in una da nolo — rispose l’altra, arrossendo.

— Vuoi ritornare nella mia?

— Vengo dove tu voi, purchè mi meni via.

Erano arrivate alla porta piccola, dirimpetto la via dello Scudillo.

— Nascondi il tuo mazzolino — disse Beatrice.

E passarono davanti il custode che le salutò. Mentre salivano in carrozza, Amalia rivolse un altro sguardo di preghiera a Beatrice: costei comprese.

— Rientra in Napoli per la via dei Ponti Rossi, Foria, via Caracciolo e la Marina — disse al cocchiere, dandogli il più largo, il più insolito itinerario. Non dovevano correre il rischio d’incontrare Marcello per la via usitata che porta a Capodimonte.



— Vengo a casa tua — erano state le sole parole dette da Amalia durante il tragitto a Beatrice.

Infatti erano là, nella camera di Beatrice. Avevano chiusa la porta. Amalia si era abbandonata sopra un divanetto, aveva gittato il cappellino da un lato, l’ombrellino dall’altro. Era addolorata, arrabbiata, e non sapeva come sfogare, voleva dire qualche cosa, molte cose a Beatrice e non sapeva da quale cominciare. Beatrice aspettava, seduta poco distante da lei, calma, scherzando macchinalmente colla frangia del suo dolman.

— Se tu devi parlarmi, io aspetto, Amalia.

— Sicuro, debbo parlarti, Beatrice. Ma non so che cosa dirti — rispose l’altra, irritata da quel tôno freddo.

— Credevo che sentissi il bisogno di giustificarti.

— La passione non si giustifica.

— La passione, Amalia?

— La passione, Beatrice.

Un breve silenzio. Beatrice si alzò, le andò vicino, e fissandola negli occhi, come se volesse penetrar nelle pieghe più intime di quell’anima, le disse bruscamente, brutalmente:

— Sicchè tu sei innamorata con passione di mio marito Marcello Sangiorgio?

L’altra tremò, esitò. Comprese che il caso si faceva serio e che si doveva lasciare di banda la fraseologia dell’amore da romanzo.

— Credo di esserlo... — mormorò — ho creduto di esserlo...

— Perchè lo hai creduto?

— Era stato il mio primo amore. Sai, quel bel giovane bruno che passava a cavallo davanti la porta del giardino, in collegio...

— Solo per questo?

— ... Mi è parso infelice, sofferente... non ti amava, non lo amavi...

— Ah!

— Me lo hai detto tu stessa. Del resto, tutti lo sanno... Poi egli è così bello, così elegante, così spiritoso, così malinconico, così diverso dagli altri...

— Un eroe, nevvero?

— Tu non lo ammetti, lo so... poi, anche io soffro, non sono felice in casa mia... Giulio non mi sa comprendere. Tu non lo sai, Beatrice, io sono ammalata ed egli non se ne cura. Forse desidera che io muoia. Va dietro alle ballerine. Avrà promesso a qualcuna di sposarla. Vedrai che me ne morirò di tisi. Oppure egli mi avvelenerà. Mamma è morta, papà è morto, non ho nessuno per me; non ho neppure un bambino. L’avvenire è nero, nero. Se muoio, nessuno mi piangerà, nessuno...

Ed esaltata dalle sue stesse parole, dai suoi dolori immaginari, dal volto inflessibile di Beatrice, si gittò a piangere, a singhiozzare nell’angolo del divano, lamentandosi, contorcendosi, sussultando per tutto il corpo.

— È per tutto questo — domandò Beatrice — che avevi pensato di trovarti un amante in Marcello?

— Oh! Beatrice! come puoi parlarmi così? Sei crudele. Infine io sono una debole donna, una disgraziata donna, senza guida, senza consiglio... Sii generosa...

— Romanzo come sempre, amica mia. Di che generosità mi parli? La sofferenza umana ha un limite. Tu sei per perderti, io posso tenderti la mano e salvarti. Ma dopo non posso abbracciarti e baciarti in bocca, ringraziarti di avermi voluto togliere Marcello...

— Oh! sì, sì, hai ragione, io sono un’ingrata, sono una malvagia creatura — e si abbandonò di nuovo a piangere convulsamente.

— ... Mettiamo i due casi. Marcello non sapeva donde venivano le lettere, non ha mai pensato a farti la corte. E se oggi avesse sorriso di scherno, quando t’avesse vista? Voi non lo conoscete: egli è uomo che sa amare e sa disprezzare. Io lo so. Così tu avresti fatto getto, per un folle capriccio, per chi non t’amava, della tua fede di moglie, del tuo nome onorato.

— Oh! taci, taci, non tormentarmi...

— ... Oppure, domani Marcello sarebbe stato il tuo amante. Te lo ripeto, egli non sa amare per metà. Fra un mese, fra tre mesi Marcello e Giulio si sarebbero battuti in duello.

— Oh! non dirlo, non dirlo! Non hai compassione di me? Infine che ti ho fatto io?

Beatrice la guardò, ma non le rispose.

— Non era io la tua confidente, Beatrice? Non sapeva che tuo marito ti era indifferente?

— La tua logica è strana, Amalia!

— Non hai permesso che tuo marito andasse dietro a Lalla D’Aragona? Tutto il mondo lo sa. Potevo io mai credere che avessi tu voluto castigarmi in tal modo?

— La tua logica è strana, Amalia!

— Strana, strana! La libertà di Marcello avrebbe ingannato chiunque.

— Sicchè ognuna di voi, domani, che avesse vaghezza di un cuore da conquistare, potrebbe rivolgersi a lui?

— Non dico questo...

— Ma lo hai pensato. Pure sentimi bene. Nè tu, nè la contessa Lalla D’Aragona, nè ognuna di queste donne ha mai pensato a me.

— A te?

— A me. Avete immaginato che io non l’ami. Sia come si voglia. Avete detto fra voi che non mi avreste cagionato nè un dolore, nè una pena. Va bene. Ma dovevate sapere che io sono una donna, che sono fiera ed orgogliosa come cento di voi. Dovevi saperlo tu che mi sei amica. Voi non avete potuto addolorarmi, perchè il mio cuore è muto, ma avete potuto offendermi crudelmente. Sono sua moglie infine.

E si tacque; aveva frenate, misurate, lentamente pronunziate le parole. Ogni momento la verità le prorompeva dalle labbra, nuda e clamorosa. Amalia temeva di nuovo. Provava un pentimento profondo di quello che aveva fatto, della stolida e cattiva difesa che aveva tentata. L’assaliva una pena straordinaria di quanto avrebbe potuto succedere; si chiedeva come avesse potuto arrischiare tanto. E Beatrice sola l’aveva salvata!

— Perdonami, perdonami! — esclamò, accostandosele e cercando di baciarla.

Ma le sue labbra toccarono una guancia ardente bagnata da calde lagrime.

— Tu piangi, Beatrice, tu piangi? E perchè?

— Piango perchè sono anch’io una donna debole e disgraziata.

Amalia rimase spaventata addirittura. Aveva sempre considerata Beatrice come l’immagine della forza e del coraggio. Non l’aveva mai vista piangere.



L’indomani mattina, mentre Beatrice Sangiorgio si svegliava, mentre era sola, il suo cuore cominciò a scherzare. I suoi battiti crebbero, crebbero; esso si gonfiava come se volesse spezzarsi, pel sangue tumultuoso che vi si precipitava; ella non poteva più misurarne i palpiti. Poi decrebbero lentamente, divennero piccini, scarsi, ineguali; il volto era terreo, il respiro affannoso, le mani gonfie; le parve di morire, senza poter chiedere aiuto. Ma dopo una mezz’ora ella era rimessa. Tutto si era quietato, anche il cuore.

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