< Cuore infermo < Parte Quinta
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IV.


La vita invernale ricominciava. Quell’anno l’inverno era rigido e ventoso, come quello dell’anno prima era stato umido e piovoso, come quell’anno venturo sarebbe stato dolcissimo, primaverile. Le popolane accendevano i bracieri sulle porte delle loro case, sollevando le scintille che il vento rapiva. I giovanotti mingherlini si perdevano negli enormi passamontagne. Un bambino era scivolato dalla culla nel braciere e si era consumato in un rogo involontario. Una vecchia era morta asfissiata, dormendo. Lo Skating-Rink arrivava al suo massimo punto di splendore che doveva essere anche l’ultimo, perchè in Napoli la popolarità di un uomo o di una cosa non dura più di un anno. Le signore erano contente del freddo, perchè potevano fare sfoggio di pellicce finissime e di stoffe molto care. Appunto era in voga il color nocciuola, che si guarnisce così bene con la volpe russa. Stagione bellissima per l’high-life, scrivevano i cronisti. Già la Filarmonica aveva aperto le sue sale per un concerto o per una rappresentazione in francese; i circoli serali si riprendevano uno ad uno; i venerdì musicali in casa Della Mercede diventavano frequentatissimi. Intanto che s’attendeva l’apertura del San Carlo, s’andava al Bellini, dove un’artista simpatica entusiasmava il pubblico nella soave Mignon. Nel carnevale si sarebbe riudita la Patti. S’organizzavano piccoli balli che dovevano servir di preludio ai grandi. La marsina si costituiva in permanenza. La vita mondana ripigliava possesso dei suoi sudditi.

Beatrice Sangiorgio non poteva rinunziarvi d’un tratto. Era la sua vita, il suo mondo quello, e appartarsene completamente era impossibile. Evitava l’assiduità, ma non poteva tutto evitare. Poi, temeva la solitudine. L’esteriorità di quei piaceri arrivava talvolta a distrarla. Almeno si sottraeva a sè stessa. Si gettava con un certo trasporto nei divertimenti, credendo di appagare in essi una piccola parte dei suoi desiderii indefiniti. La gente attorno la osservava molto. La plastica serenità sparita dal suo volto, quella mobilità nervosa che vi era subentrata, la rendeva seducente. Era più viva. Gli abiti la ornavano di più, i gioielli prendevano un maggior significato sulla sua persona. Qualche sera, dei fiori freschi s’illanguidivano sul suo petto, quasi bruciati dal contatto. La sua acconciatura diventava meno statuaria, più femminile; sui fondi oscuri delle stoffe spiccava sempre un punto vivido, un nastro, un fiore, un gioiello, un punto rosso, una traccia ritrovata e perduta di passione. Così i giovani la circondavano spesso. Qualche corte timida si permetteva di manifestarsi. Infine si credeva alla sua virtù, come a quella di tutte le donne cui si comincia a far la corte; ma era sempre una moglie tradita dal marito. I più acuti osservatori, quelli che si vantavano di conoscere il cuore umano, sentenziavano che ella cercava distrazioni e che poi avrebbe trovata una distrazione. Ella non s’accorgeva di nulla. Badava a mostrarsi felice, badava a non tramutarsi in volto, quando incontrava Lalla D’Aragona.

Poichè, se Beatrice era arrivata talvolta a sottrarsi a sè stessa, non si sottraeva agli incontri con Lalla, con suo marito, con Paolo Collemagno, con Amalia Cantelmo, con suo padre, con la marchesa Monsardo, con Fanny Aldemoresco, infine con quanti potevano ricordarle il suo stato. Specialmente la contessa D’Aragona. Lalla oramai andava dappertutto, dovunque potesse vedere Beatrice. Era evidente che la ricercava. Quando la Sangiorgio scarrozzava per la Riviera, dopo un momento si era certi di veder apparire, dietro i cristalli di un coupè, la testolina di Lalla — e quasi fatalmente, poco dopo, una carrozzina guidata a tutta corsa dal duca Sangiorgio. Se Beatrice passava un’oretta della mattinata, come voleva la moda, nelle sale dello Skating, appogiata alla balaustra del ring per vedere scivolare signorine e giovanotti, si era certi d’incontrare nei corridoi, nel viale del giardino, Lalla al braccio di Paolo, trascinando la sua persona stanca. Se in un circolo Beatrice radunava intorno a sè signore e giovanotti, all’altro capo della sala vi era un gruppo di cui Lalla era il centro. Se in un ballo comparivano gli stupendi smeraldi di Beatrice Sangiorgio, vi si ammiravano anche le meravigliose perle brune della D’Aragona. Spesso capitavano vicine; scambiavano poche ed amabili parole, con sorrisi graziosi. Si salutavano giustamente, senza affettazione. La più disinvolta era senza dubbio Beatrice. Faceva uno sciupìo enorme di volontà; era giunta a darsi un bel contegno. Non lo smetteva più, era la sua difesa. Quell’accanimento della D’Aragona a volerla vedere, a volerle parlare, sulle prime l’aveva stordita, sgomentata. Per poco le parve un insulto, una sfrontatezza. Mentre sorrideva, le lagrime dell’orgoglio offeso la soffocavano. Ma in seguito osservò meglio e comprese meglio. Se lei rimaneva calma in presenza di Lalla, costei si turbava sempre in presenza sua; di sfuggita ella la vedeva cambiare di colore, comprimere qualche moto nervoso, udiva alterarsi il tono della voce; per tutto il tempo che rimanevano insieme, lontane o vicine, ella capiva che Lalla non era perfettamente padrona di sè. E fra loro due stava Marcello, che si mostrava inquieto, troppo allegro o troppo triste, capriccioso. Giocava spesso.

Così Beatrice ebbe vagamente l’intuito del singolare potere che esercitava su quei due esseri. Come essi la addoloravano, ella era capace di addolorarli; intendeva vagamente che Lalla la ricercava, attratta dal fascino irresistibile che ha la sofferenza; intendeva che Marcello, sospettoso di uno scoppio, comparisse sempre dove le due donne potessero incontrarsi — malgrado che questo inasprisse la sua ferita. Come agonizzava lei, nel segreto del suo cuore, senza che altri se ne accorgesse — ella sapeva che quei due agonizzavano. Gli anelli della stessa tormentosa catena stringevano ed ammaccavano i polsi di tutti tre. Erano avvinti, indissolubilmente. Beatrice leggeva sulle loro fronti la traccia di quel male che ella portava nell’anima. Più fortunata di essi, ella nulla rivelava. Ma uguali dovevano essere le lotte, le lagrime, le grida disperate, i singhiozzi, le veglie. La forma vivente del suo cruccio, essa la ritrovava in quei due. Una sera, in un concerto Lalla era lontana da lei. La contessa era venuta a malincuore, ma decisa a non guardare Beatrice, a non salutarla, a non avvicinarla. Pure, quasi senza volerlo, la salutò; la guardò di lontano per tutta la sera; e sullo scalone si trovarono daccanto, scesero insieme. Marcello presente, non potendo resistere, era partito alla metà della serata. Beatrice si accorse di tutto. Allora fu presa da una orribile paura.

— La mia presenza impedisce che si amino. Una di queste notti fuggiranno insieme, in paese lontano ed ignoto — pensò fra sè. E questo pensiero le tolse l’ultima tranquillità, il riposo breve della notte.

La sera, quando rientrava in camera sua, dopo il teatro, dopo il circolo, o semplicemente dopo una serata passata nel suo salottino a leggicchiare, a sognare, a pensare, ella licenziava presto presto Giovannina. Rimaneva in veste bianca, in pianelle, nella camera illuminata fiocamente dalla lampada di notte. Raramente Marcello ritornava a casa con lei. Quasi sempre era ancora fuori a mezzanotte. In ogni caso ella trascinava una poltroncina presso la porta di comunicazione, sedeva e restava ad origliare. Nel silenzio ogni piccolo rumore giungeva a lei. Alle volte, dopo un’ora, udiva rientrare Marcello. Lo udiva quando, stanco e disfatto della sua cattiva giornata, si abbandonava sopra una seggiola. Ella s’immaginava che egli dovesse essere molto pallido, molto ammalato. In quel momento s’irrigidiva in uno sforzo di volontà, per non aprire la porta, per non andare da lui. Ma Marcello si alzava, andava alla scrivania, e si metteva a scrivere senza posa. Con l’orecchio teso, concentrata nell’attenzione, Beatrice si chiedeva che cosa egli scrivesse così a lungo, a quale persona cara dirigesse le sue parole. Talvolta egli rimaneva a leggere per molto tempo; ma ella doveva dolorosamente confessare a se medesima, che i fogli del libro erano voltati ad intervalli molto lunghi, troppo lunghi perchè il lettore fosse attento al suo libro. Talvolta, invece di leggere o di scrivere, Marcello passeggiava su e giù nella sua camera, a passi regolari, ma senza molto rumore; ogni volta che egli veniva verso la porta, Beatrice era presa da uno spavento, quasi egli avesse potuto aprirla e sorprender lei in ascolto. Dimenticava che la chiave era dalla propria parte. Ella lo seguiva in quel va e vieni, sussultando come se anche ella camminasse. Comprendeva che egli voleva stancare il suo corpo, per avere almeno il riposo nella stanchezza fisica. Quasi che il denso legno della porta non fosse tra loro, ella lo vedeva sempre più abbattuto, sempre più misero ed infelice. Ella, mentalmente, faceva una preghiera al Signore, perchè ridonasse almeno a lui la pace. E come si prolungava questa passeggiata notturna e monotona, simile a quella del prigioniero nel suo carcere, ella veniva colpita dal funesto presentimento:

— Egli non può più vivere accanto a me. Una queste notti fuggirà con lei, in un paese lontano ed ignoto.

Si quietava solo un poco quando egli andava a letto e spegneva il lume. Allora ella andava a pregare allo inginocchiatoio; pregava per isfogo, senza osare esprimere un voto. Più volontieri si dirigeva al ritratto di sua madre che aveva a capoletto. Non le sapeva dir altro che: «Mamma mia, mamma mia!» ripetendolo molte volte, ma questo finiva per consolarla un poco. Andava a baciare la fredda serratura della porta, quasi che fosse la fronte del dormiente, poi si coricava anche lei. Ma queste erano le migliori notti, le più rare. Le cattive erano quando Marcello tardava. Beatrice veniva presa da quella pena crescente di chi attende, da quella pena così lunga, così crudele. Per qualche tempo restava seduta, immobile, origliando. Niente. Si alzava e andava presso il balcone, per udire se qualche carrozza si fermasse dinanzi al portone. Niente. Ritornava alla porta: silenzio, oscurità. S’incoraggiava ad avere pazienza: non erano che le due, il club del Whist si chiude molto tardi; dopo il teatro si va a cena con amici. Ma queste sagge riflessioni le bastavano solo per cinque minuti. Dopo s’impazientiva di nuovo. Per ingannare il tempo, ricorreva a mezzi puerili. Cercava di ricordare un lungo libro che aveva letto, una storia intrigata, e di narrarla di nuovo a sè stessa. Voleva pensare ad altro. Vagava nella camera, nella penombra della lampada, come un’anima in pena. Ma ritornava al suo tormento. Come il tempo passava, ella si ostinava in questa idea:

— È partito; non ritorna più.

E si gittava come disperata sul letto, torcendosi le braccia, soffocando i singulti. Pure un lieve rumore aveva il potere di farla sobbalzare, le lagrime si disseccavano, ella ricominciava a sperare. Indi a poco l’idea fissa appariva, assidua, fatale:

— Non tornerà più; è partito, è partito.

Per rifugio, pregava; s’indirizzava alla Vergine, che doveva comprendere il grido di un cuore femminile.

— Madonna Addolorata, fatelo ritornare! Madonna Addolorata, fatelo ritornare! Madonna santa, non me lo togliete! Vergine santa, rendetemelo!

Poi tendeva di nuovo l’orecchio, sperando nel miracolo della buona Signora degli afflitti. Ma certo ella non meritava alcuna grazia. Era stata amata ed aveva disprezzato quell’amore; quel cuore era stato suo ed ella lo aveva distaccato da sè. Aveva negato l’affetto; aveva negata la luce; aveva negata la verità. Ben le stava ora l’oscura, solitaria disperazione. Allora ella faceva promessa che se Marcello le fosse stato ridato, ella sarebbe andata a lui, col cuore innamorato. In questo atto di profonda umiltà sarebbe stato il suo pentimento. Fosse venuto in quel momento! Ma quando egli giungeva, era troppo tardi. Una grande gioia la invadeva tutta, ella mormorava parole di ringraziamento, ma si sentiva stanca, spossata; l’impeto della passione era caduto; in una notte d’attesa, il suo cuore si ghiacciava. Era incapace di fare un passo, incapace di compiere un atto di volontà. La riprendevano gli scrupoli delicati per cui celava a tutti il suo amore, più di tutti a Marcello; la riprendeva quel senso di fiero pudore, che la passione deve combattere così lungamente nella donna che ha amato troppo tardi. Rimetteva all’indomani, affidandosi al caso, fortunata di avere guadagnato anche un’altra notte, come il disgraziato che ha guadagnato il pane della sua giornata, senza sapere come mangerà domani.

In quelle lunghe veglie, ella tentava, talvolta, di considerare freddamente la sua posizione. Voleva esaminare il pro ed il contra, voleva ragionare, per decidersi a qualche cosa. Comunque sia, ella avrebbe trovata la forza per mettere in opera la sua risoluzione. Ma non le riesciva. Giungeva sino a non pensare a Lalla ed a Marcello; pensava solo a sè. Ebbene, anche ridotta così la questione, ella si trovava innanzi ad un abisso. Ella amava profondamente, come sua madre doveva avere amato; ella aveva ereditato da lei il fervore, l’intensità, la concentrazione dell’amore; psicologicamente ella era la figlia di Luisa Revertera. Ma era tale anche fisiologicamente; da sua madre aveva ereditato un povero cuore delicato, guasto nelle sue fibre, quasi mostruoso, dalla vita malaticcio. Così il cuore fisico ed il cuore psichico combattevano una lotta interna, in cui l’uno o l’altro doveva morire. Ella non sapeva nulla di queste cose, ma sentiva in sè la guerra spaventosa, la medesima guerra che aveva dovuto sentire Luisa Revertera. Lungamente Beatrice aveva dubitato dell’amore; aveva creduto che la vita, senza di esso, fosse vita. Per pietà di sè, del suo cuore infermo che non avrebbe resistito all’amore, essa lo aveva creduto inutile. Ora lo aveva nel petto, onnipotente; ma ancora non si scrollavano i suoi dubbii. Nella notte, agitata dall’incertezza, ella chiedeva a sua madre la verità. Non la conosceva essa la verità: la madre avrebbe dovuto dirgliela. Da lei aspettava il consiglio. Qual era dunque la buona via? Qual è il segreto della nostra esistenza? Qual è la parola della felicità? Si vive senza amore, o la vita stessa è amore? Doveva ella cedere, doveva ella combattere? Qual era il suo dovere? E mentre le indirizzava queste domande, ella fissava il ritratto come se avesse voluto strappargli le risposte. Nulla: il ritratto sorrideva malinconicamente. Ella aveva frugato nelle carte di sua madre, per trovare una parola di guida, un lampo di luce: erano lettere affettuose, piene di soave mestizia. Luisa Revertera si affliggeva perchè moriva; ma si consolava, perchè amava. Il problema rimaneva insoluto per Beatrice. A chi chiedere? Ella ricadeva ogni giorno nel dubbio. Voleva e disvoleva ad ogni istante. Quando un trasporto la signoreggiava, quando era travolta dal suo amore, ella obliava l’infermità del suo cuore, si lasciava trasportare, travolgere; ma quando l’assaliva l’attacco del suo male, ella era presa dall’orribile paura di morire troppo giovane, come sua madre era morta. Poi, il cuore si calmava; ella principiva da capo a sperare...

Così talvolta la fredda alba invernale la sorprendeva ancora sveglia, con gli occhi spalancati e senza sonno, con l’anima indecisa, conturbata, contristata più di quanto fosse la sera prima. Ella provava un grande senso di abbandono dopo tanta tensione delle facoltà; ma il loro lavorìo era stato inutile, ingrato, infecondo. Ella errava sempre, alla cieca, in una via ignota, ignara della buona, come aveva errato nel parco di Sorrento; ella errava, inciampando, traballando, con l’angoscia di perdere forse quanto poteva renderla felice, maledicendo alla propria ignoranza.

Ignoranza invero. Ella non comprendeva che tutto era deciso, la scelta della sua vita era fatta; ella non comprendeva che nulla poteva più deviarla dalla sua strada; ella non comprendeva che quelle veglie, quelle lotte, quelle ansietà, quel dubbio, quell’incertezza, erano il fuoco divoratore che doveva purificare dall’egoismo volgare la sua anima, perchè l’amore potesse averla tutta, più nobile, più degna.


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